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La storia costituzionale dell’Italia liberale tra persistenza e mutamento. Considerazioni a margine di un recente libro di Raffaele Romanelli*

* R. Romanelli, Importare la democrazia. Sulla costituzione liberale italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009 (Saggio uscito in “Le Carte e la Storia”, XVI, 2/2010, pp. 35-44)

“Per raggiungere una prospettiva più equilibrata, gli storici dovranno prendere in esame non soltanto l’alto dramma del mutamento progrediente, ma anche l’inesorabile tragedia della perseveranza storica, ed esplorare l’interazione dialettica tra l’uno e l’altra” . Così nel 1981 Arno J. Mayer argomentava una delle ipotesi di lavoro alla base del suo volume The persistence of the Old Regime. Europe to the Great War, divenuto poi oggetto di vivace e prolungata discussione tra studiosi di varie parti del mondo. Dunque la storia dell’Ottocento e della prima metà del Novecento avrebbe dovuto essere analizzata prendendo sul serio un vecchio adagio della saggezza storiografica, secondo cui gli accadimenti umani si svolgono in una continua, incessante relazione e tensione fra continuità e discontinuità. Ma la tesi di Mayer era assai più drastica, perché partiva da un assunto: le storiografie europea e statunitense si erano connotate fino alla fine degli anni Settanta per una sopravvalutazione eccessiva e non di rado esclusiva del mutamento, della novità, sottostando, più o meno consapevolmente, alla fede nel progresso. Una spinta decisiva in tal senso era senz’altro dovuta al peso e all’importanza della storiografia di ispirazione marxista, tradottasi in una ricostruzione della ascesa e trionfo della borghesia, della classe al contempo artefice e prodotto della rivoluzione industriale e della più generale modernizzazione scientifica e tecnologica che avevano investito e travolto le società occidentali nei secoli XIX e XX.
Mayer intendeva rovesciare questa prospettiva, ossia la visione di una storia europea che vedeva la modernità, incarnata e veicolata dalle varie borghesie nazionali, spingere veementemente ai margini il vecchio ordine nobiliare con tutte le sue idee e le sue istituzioni politiche e sociali. Una visione che forse finiva per assecondare un pregiudizio filosofico, ovvero una lettura che privilegiava il “dover essere” del progresso all’“essere” della conservazione, e che in sostanza rifletteva in misura eccessiva uno schema dialettico, articolato secondo stadi incrementali del divenire storico.
La storia sociale, quella delle dottrine politiche o delle mentalità, hanno assorbito parecchio questo pregiudizio. Viceversa, l’impostazione di Mayer, che evidenziava una tenacissima persistenza degli assetti politici, proprietari e ideologici dell’ancien régime, sistema tutt’altro che defunto con il 1789 ed effettivamente ripristinato in alcuni suoi capisaldi con l’età della Restaurazione, ha influenzato non poco gli storici delle costituzioni e delle istituzioni politiche nell’esaminare il lungo secolo post-rivoluzionario (1814-1914). Non ultimi in questa schiera figurano anche autorevoli studiosi italiani, quali Marco Meriggi e Raffaele Romanelli, che non a caso a partire dai primi anni Ottanta hanno applicato, in modo dichiarato o meno, l’ipotesi di Mayer alla storia dello Stato unitario italiano, dalle sue premesse al suo consolidamento.
Proprio la lettura della più recente pubblicazione di Romanelli suscita questo richiamo alla celebre opera di Arno Mayer e al suo essere stato l’apripista di innumerevoli cantieri di ricerca costruiti sull’ipotesi dell’alto tasso di continuità politico-istituzionale e di leadership – o meglio: di estrazione sociale delle classi dirigenti – in non poche società europee di un secolo che proprio per questo motivo non può non essere che definito “lungo Ottocento” . Anche per la sua natura di raccolta di saggi pubblicati fra 1989 e 2008, il libro di Romanelli intende muoversi nel solco che egli stesso aveva già tracciato con una precedente opera, intitolata Il comando impossibile, conosciuta e apprezzata ben oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Come ricorda nella nota introduttiva a questo nuovo volume, l’opera del 1988 (riedita poi nel 1995 con l’aggiunta di un saggio sulla concessione del suffragio politico e il suo successivo allargamento) proponeva con questa formula la descrizione del paradosso politico che sarebbe stato alla base della formazione del regime liberale nell’unificazione italiana, gravido di conseguenze assai durature nella nostra storia politica e sociale: “l’imposizione della libertà a un paese che non la conosceva, che in tanta parte non l’aveva chiesta e che per le forme in cui la ricevette la considerò un sopruso” .
Le prime due sezioni del nuovo libro di Romanelli, rispettivamente dedicate a “Periferie e centri”e a “Costituzione e rappresentanza”, sono le più interessanti e suscettibili di riflessioni critiche in quanto innescano una sana polemica storiografica, condotta sempre sul filo dell’assoluto rigore scientifico. La seconda sezione è quella che suggerisce un confronto diretto con l’opera di Mayer. Ritornando per un attimo ad essa, non si può negare che “ripensare, se non addirittura rovesciare, quest’immagine di un mondo moderno che domina un vecchio ordine in ritirata e in sfacelo” sia una ipotesi di ricerca non soltanto suggestiva ma anche foriera di innumerevoli proficue acquisizioni in termini di conoscenza dell’effettiva configurazione delle società europee otto-novecentesche. Ed è altrettanto innegabile che una simile ipotesi si attagli quanto mai bene ad un contesto come quello italiano, contrassegnato dal suo tardivo processo di State-building. Detto ciò, l’opportuna indicazione metodologica di Mayer è virtuosa nella misura in cui riequilibra l’indagine storiografica e affianca all’analisi del mutamento quella della persistenza, ma sempre all’interno di un nesso dialettico che non deve venir mai meno, pena lo scivolamento in una visione ideologizzata, uguale e contraria a quella “progressista”. Soprattutto, la tesi di Mayer, inserita nel dibattito storiografico italiano, rischia di avallare alcuni topoi sulla plurisecolare e irredimibile “arretratezza” della cultura politica italiana, sulla refrattarietà al moderno della stessa antropologia italica, arrivando a considerare l’homo italicus un tipo umano del Medio Evo ma pienamente evolutosi e maturato in direzione di una modernità borghese, liberale e individualistica. Ma tale rischio si corre in particolar modo se si perde di vista l’approccio da comparatista da cui Mayer prende le mosse e non si discosta mai.
Pur nella loro diversità in termini di intensità e tempistica, i vari Stati-nazione europei hanno visto il permanere tra le pieghe delle élites politiche, economiche e soprattutto militari, esponenti della vecchia nobiltà terriera. Nell’area tedesca e ad est dell’Elba una simile persistenza appare quasi di intuitiva evidenza (si pensi solo al caso della Russia), ma non è marginale neppure in realtà come Inghilterra e Francia, per non parlare dell’Italia. Anche laddove la fonte di reddito e influenza politica di un parte del ceto dirigente proveniva dalla moderna industria e non dalla terra, mentalità e giudizi si mostravano prevalentemente plasmati secondo idee e pratiche mutuate dal vecchio ordine nobiliare e terriero. Tenendo presente una simile prospettiva di analisi risulta meno incomprensibile il suicidio che l’Europa consuma tra prima e seconda guerra mondiale. Più che un suicidio è una sorta di omicidio commesso dal vecchio nei confronti del nuovo, cioè da élites ancora influenti ma in netto declino ai danni di élites emergenti e solo parzialmente al comando. Inoltre, l’economia industriale parrebbe meno automaticamente responsabile dell’adozione di politiche estere imperialiste di quanto non siano stati i vertici militari e le famiglie reali di mezza Europa, accomunate dal fatto di tenere ben piantati i piedi e la testa nella terra, con tutto ciò che questa evocava e comportava in termini di valori autoritari, gerarchici e infine bellicosi.
Dell’originaria lezione di Marx, ancor più che di marxisti e marxologi, Mayer ha infatti recuperato e sfruttato a dovere l’idea secondo cui è la base materiale del vivere associato a determinare, o comunque a condizionare gli assetti di potere. Sono i rapporti (sociali) di proprietà e di produzione a costituire i cardini attorno ai quali ruotano i rapporti politici, a incarnare la vera fonte del potere sovrano, cioè la capacità di decisione di ultima istanza o nello stato di eccezione. E allora non è stata forse la terra, la proprietà terriera, la sorgente di ricchezza e potere fino alle soglie della prima guerra mondiale? Se non di tutta la ricchezza, e del conseguente potere, almeno di una sua quota ancora significativa e capace di attrarre e condizionare la nuova classe che cercava potere a partire da una proprietà industriale, fatta di capitali mobili da investire non più nell’agricoltura bensì nella manifattura. Ciò spiegherebbe anche il fatto che una adozione di metodi capitalistici per la produzione agricola non scalfiva granché lo “spirito feudale” di cui continuavano ad essere pervase l’alta società, l’alta cultura e l’alta politica di molte monarchie europee . Mutava il mezzo, ma non il fine, e la conservazione di aspetti importanti dell’antico regime avveniva grazie all’addomesticamento del processo di industrializzazione.
Prima ancora che Mayer pubblicasse il suo studio, uno storico francese, Maurice Agulhon, aveva notato come nella stessa Francia la borghesia parigina e in generale l’alta borghesia, assai più di quella medio-piccola e per lo più residente nelle province, continuasse a metà Ottocento ad imitare i comportamenti nobiliari, restando prigioniera molto a più a lungo di forme sociali ereditate dall’antico regime . Ciò a significare la persistenza di quella che potremmo chiamare una “egemonia”, in primo luogo culturale e simbolica, della nobiltà all’interno dei rapporti di classe delle società europee anche più avanzate sul piano del processo di industrializzazione e complessiva modernizzazione infrastrutturale. Ma in non poche aree dell’Europa tardottocentesca e primonovecentesca le “leve strategiche in campo così economico come militare, così burocratico come culturale” restavano saldamente in mano ai ceti nobiliari postfeudali.
Tutto questo dovrebbe rendere più comprensibile e meglio accettabile l’affermazione di Romanelli secondo cui tutti i termini-concetto chiave del costituzionalismo rivoluzionario e post-rivoluzionario sono marginali nel linguaggio del moderatismo pre-quarantottesco. Egli non manca di accennare ad un peculiarità del ceto intellettuale che anima il nascente movimento risorgimentale, variamente connotato, ma pare infine sottovalutarlo: nel caso di Balbo, Gioberti, Tommaseo, e tanti altri abbiamo a che fare con uomini tanto d’azione quanto di pensiero. Si è soliti sottolinearlo nel caso di Mazzini, richiamandosi anche ad una sua celebre formula propagandistica. Nel caso di Gioberti, Balbo e gli altri, siamo invece di fronte ad una classe dirigente nazionale in nuce, chiamata a prendere le misure di un abito tutto da cucire per un corpo le cui dimensioni complessive non è dato nemmeno conoscere alla vigilia del 1848. Fuor di metafora: il fatto di gravitare nell’orbita della classe politica, se non della compagine governativa, dello Stato piemontese in molti casi, conferisce alle argomentazioni e alle costruzioni teoriche di quegli intellettuali una venatura di “realismo” e di “pragmatismo”, termini-concetto non contemplati dall’analisi di Romanelli e senza il riferimento ai quali possono sfuggire alcune sfumature decisive nella comprensione del pensiero politico italiano preunitario.
Può sembrare un’osservazione fin troppo ovvia, persino banale, ma lo storico di quelle correnti intellettuali deve sempre tenere ben presente che l’indipendenza dallo straniero era l’obiettivo primario. L’unità politica sotto una qualche forma di Stato condivisa poteva addirittura figurare talvolta come questione secondaria, dal momento che non era ben chiaro fin dove ci si potesse spingere nel prospettare i precisi confini territoriali di un’entità statuale che si voleva ricalcasse esperienze già presenti da secoli, ben prima della innovazione in senso costituzionalistico introdotta dalla Rivoluzione francese. Gli anni che vanno dal 1815 al 1848 sono un periodo di costruzione del costituzionalismo liberale un po’ a giro per tutta Europa, e quello francese non solo non è un modello ancora dominante, ma non si presenta nemmeno quale proposta politica unica e indiscussa al proprio interno.
La stessa idea di rappresentanza, sulla cui base Romanelli imposta tutta la sua valutazione riduttiva e derogatoria del liberalismo italiano preunitario, costituiva tra prima e seconda Restaurazione un cantiere aperto, un work in progress del pensiero politico europeo postrivoluzionario, e che era anche antirivoluzionario nella misura in cui si guardava con perplessità all’andamento istituzionale successivo al biennio 1789-1791. Proprio una rigorosa considerazione della lezione storiografica di Mayer induce a non trascurare il fatto che il liberalismo europeo segue varie “vie nazionali”, tutte più o meno segnate dalle inframmettenze dei “residui” politico-istituzionali d’antico regime. Non si sperimentò insomma alcun liberal-costituzionalismo puro, se non nella testa di intellettuali britannici, ancor più che francesi, i quali potevano disporre di una configurazione statuale già pienamente dispiegata nella propria unità amministrativa e di un sentimento nazionale che, fra l’altro, aveva potuto giovarsi di quell’unità consolidata anche da lunghe fasi di assolutismo monarchico (quanto meno tentato e introdotto con forza per lunghi tratti sia in Francia sia in Gran Bretagna tra XVII e XVIII secolo).
Sono, queste nostre, osservazioni risapute, eppure rischiano di sfuggire ogni volta che la comparazione è usata in modo asimmetrico e in fondo non corretto, perché di fatto si finisce per effettuare una misurazione in funzione di un modello idealtipico già definito e compiuto. Il percorso congiunto di Nation-building e di State-building britannico funge da continuum lungo il quale vengono distese – come su un letto di Procuste – tutte le altre esperienze costituzionali (in questo caso, proto-nazionali), includendo le stesse elaborazioni intellettuali di supporto. La comparazione correttamente usata dovrebbe suggerire invece la verifica delle specifiche modalità con cui un caso nazionale del tutto peculiare come quello italiano ha cercato di risolvere un dilemma comune: dare in contemporanea unità e rappresentanza ad un territorio che si configura come potenziale comunità politica.
Dallo studio di opere come quelle di Gioberti o Balbo dovrebbe così emergere un certo stupore per lo sforzo immaginativo con il quale si cerca di coagulare esperienze di governo territoriale così diverse, e che soprattutto si erano pensate sino ad allora come estranee le une alle altre, individuando punti in comune dotati di sufficiente legittimazione. E sappiamo che, all’interno di una cultura post-illuministica ma anzitutto attraversata in profondità da umori romantici, la storia intesa come tradizione e autorità del passato costituiva la principale fonte di legittimazione morale e politica. Di qui il ricorrente richiamo al municipalismo di molti degli scrittori esaminati da Romanelli.
In autori come Gioberti, Balbo, Tommaseo ed altri ancora, in generale appartenenti al cosiddetto “moderatismo” risorgimentale, la persistenza di elementi cetual-corporativi nei modelli più o meno vagamente proposti segnalava soprattutto la volontà di trovare una modalità argomentativa efficace e persuasiva. Dal Primato morale e civile degli italiani a Le speranze d’Italia, passando per gli scritti di un Capponi o di un Galeotti, non dobbiamo dimenticarci che abbiamo a che fare con pamphlets di battaglia politico-ideologica più che con trattati di dottrina giuridica e scienza costituzionalistica. Sotto questo aspetto Gioberti risulta una figura chiave.
Quando si parla di “moderatismo” dobbiamo pensare che si tratta di un “partito” di uomini di cultura e al contempo politicamente attivi, che ha ricoperto, ricoprono o ricopriranno cariche pubbliche anche di governo, e che quindi adottano un certo gradualismo nelle loro proposte istituzionali per il semplice fatto che cercano una soluzione praticabile del loro obiettivo primario, e che lo stesso Romanelli riconosce essere sin da prima del 1848 l’unità e l’indipendenza italiana, nonostante resti ancora relativamente confusa la questione dei confini geografici di questa “italianità”. Se negli anni Trenta prevalse la ricerca di una unità in senso stretto, franco-rivoluzionario potremmo dire, e in questo senso Mazzini svolse un ruolo fondamentale e di momentaneo ampio consenso, sin dai primi anni Quaranta il fallimento delle iniziative e dei moti innescati dai mazziniani aprì ampi spazi nuovi a tesi federaliste e, più in generale, a programmi che sostituivano l’unione all’unità per conseguire il bene supremo dell’indipendenza nazionale. L’unione avrebbe “salvaguardato la sopravvivenza dei diversi Stati regionali e la permanenza dei loro monarchi, primo tra i quali lo stesso pontefice, […] ai quali veniva richiesta la concessione di statuti costituzionali per garantire in qualche forma la libertà politica” .
Federazione o confederazione che fosse, tutte queste proposte “moderate”, e Romanelli stesso lo evidenzia con forza, avevano ben presente il ruolo strategico della Chiesa e del papato «per la grande influenza che questi esercitavano da sempre sull’intera società italiana», secondo dunque un disegno – come quello “neoguelfo” – che era per lo più strumentale al pari della proposta di mantenere un particolarismo politico che non di rado era segretamente detestato se non odiato .
Occorre dunque porre attenzione alle motivazioni retrostanti i vari progetti federalisti o confederali. Del resto, la distinzione non era affatto ben chiara all’epoca se ancora attorno al 1850 nel torinese – e anonimo – Dizionario politico popolare si poteva trovare una sola voce che accomunava confederazione e federazione, definendole «unione di più Stati sotto un potere centrale comune, come la confederazione degli Stati-Uniti [sic], la confederazione della Svizzera» . Non bisogna altresì dimenticarne l’originaria finalità politica, mirante a conseguire il massimo risultato nel più rapido tempo possibile, secondo il tratto caratteristico del moderatismo risorgimentale. È nel nome dell’unione-unità, supremo interesse comune, che nel corso degli anni Cinquanta si costituirà una via “democratico-moderata” sotto l’egida di Cavour, che, fra l’altro, appoggiò segretamente la Società Nazionale . L’evoluzione del liberalismo italiano tra anni Trenta e anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento risulterebbe in tal modo un po’ meno incomprensibile e un poco più lineare, per quanto fortemente influenzata dagli eventi contingenti e dal loro rapido mutare nell’arco di pochi decenni, talora pochissimi anni. D’altro canto, costituzionalizzazione degli organi di governo e amministrazione degli enti locali erano allora pensati come momenti non necessariamente connessi l’uno all’altro.
Resta in ogni caso il fatto che il dibattito pubblico antecedente il 1848 si fece vieppiù “italiano” proprio in virtù di una convergente preoccupazione circa la necessità di pensare un modello di Stato. Anche là dove il modello era piegato a vecchie logiche e interessi localistici, il «bisogno di patria» scaturente anche dalla reazione post-napoleonica al «progetto d’inclusione entro uno spazio imperiale di tipo moderno», e dunque una immagine dell’Austria come nemico spinse una nascente opinione pubblica nazionale (o, quantomeno, sovraregionale) verso un orizzonte politico-istituzionale in cui l’Italia si configurava come un soggetto politico autonomo, «diverso dalla somma delle “patrie” che lo compongono» .
Nel cercare di trarre alcune considerazioni critiche conclusive a proposito della seconda sezione di Importare la democrazia, viene da notare come alcuni limiti interpretativi a nostro avviso presenti in quelle pagine siano già rinvenibili nella scelta del titolo, del sottotitolo e del loro accostamento. Non è cioè ben chiaro se Romanelli intenda discutere e valutare il liberalismo italiano, prima e dopo il 1848, e prima e dopo l’unificazione politica, oppure la democraticità delle istituzioni del costituendo Stato nazionale e delle teorie politiche che ne propugnano l’edificazione. Nella nota introduttiva, Romanelli ribadisce la propria convinzione che la società italiana fosse, alla vigilia e all’indomani del 1861, “in tanti e diversi modi insensibile o refrattaria agli imperativi della formazione statale-nazionale e ad un tempo della democratizzazione” . Ma qui par che si confondano i piani e non risulta del tutto chiaro se si intenda esaminare il liberalismo oppure la democrazia presenti nella cultura politica italiana di quell’epoca. Ma non solo: si anticipa un fenomeno e una linea politica, quella della democratizzazione, che prenderà corpo solo molto tempo dopo il compimento dell’unità politico-territoriale.
Romanelli nel 1990, in un commento critico ad un volume di Umberto Allegretti, ora riprodotto in Importare la democrazia, stigmatizzava la presenza nella storiografia e nella giuspubblicistica italiana di “una tendenza a enfatizzare nel liberalismo ottocentesco i tratti ‘oligarchici’, non-democratici e autoritari fuori da una analisi diretta del suo contesto storico” . Nel saggio Nazione e Costituzione nell’opinione liberale avanti il ’48, di dieci anni dopo, Romanelli rimarca invece con una certa tonalità deprecatoria il tratto “oligarchico” e notabilare – ma non autoritario, questo va sottolineato – del liberalismo italiano. Certamente l’attenzione è qui concentrata sul periodo anteriore allo scoppio della prima guerra di indipendenza e a quell’accelerazione di eventi che il 1848 costituì anche sul piano delle culture politiche e del dibattito costituzionale, ma in altri saggi dedicati ai primi decenni liberali emerge esplicitamente la convinzione che le classi dirigenti italiane ebbero a lungo una “scarsa consapevolezza della […] natura e funzione storica” del regime rappresentativo .
D’altronde, a fine anni Ottanta, nel suo Comando impossibile Romanelli aveva descritto con grande efficacia, individuando alcuni momenti chiave, il fatto che la questione più urgente dell’agenda politica della classe dirigente liberale fosse stata la “nazionalizzazione” di un popolo che non era, o non si riteneva fosse ancora pienamente e solidamente “italiano”. Tale opera si cercò di condurre tramite l’uso delle istituzioni, la loro diffusione e il loro radicamento sul territorio, nonché una legislazione che uniformasse, omogeneizzasse e rendesse coesa la comunità peninsulare tramite un’altrettanto compatta compagine statale. In altri termini, se si cerca il tasso di “democraticità” della dottrina e della pratica politica della classe dirigente si sbaglia destinatario, dal momento che il liberalismo è la stella polare di quella classe, che non a caso è storicamente così definita: “liberale”. Da non dimenticare poi che il liberalismo ottocentesco, italiano ed europeo, non ha niente a che vedere con la democrazia che rappresenta per buona parte del XIX secolo il figlio reputato “degenere” e “rinnegato” della Rivoluzione francese. Prima della fine di quel secolo un dialogo e un tentativo di connessione e sintesi tra liberalismo e democrazia si trova solo in alcuni isolati pensatori come John Stuart Mill, non a caso più volte citato da Romanelli.
Sarà poi l’esordio del XX secolo a proporre i primi tentativi di teoria e prassi liberal-democratica, o democratico-liberale. Ma solo il secondo dopoguerra vedrà consumarsi un tale matrimonio con il varo di un Welfare State non autoritario (non à la Bismarck, per intendersi). E se si intende affermare che il liberalismo italiano preunitario, o anche solo quello pre-1848, era fortemente intriso di residui cetual-corporativi e di istanze notabilari-aristocratiche e municipaliste, significa che si è perso il senso della lezione metodologica di Mayer cui pure, direttamente o indirettamente, pare richiamarsi una linea di ricerca come quella condotta comunque con profitto da Romanelli. Tra 1814 e 1860, ma anche oltre, in Italia, non diversamente dal resto d’Europa, il costituzionalismo liberale era, come si accennava in precedenza, un edificio teorico-giuridico che andava costruendosi con i “materiali” dottrinali e le esperienze istituzionali fornite non solo e non tanto da una nazione (presunta) guida, tipo l’Inghilterra, assai meno lineare e avanzata di quanto certe rappresentazioni e autorappresentazioni storiografiche indurrebbero a pensare, ma piuttosto dalle tradizioni del proprio territorio. Si trattava, sotto quest’ultimo profilo, di assecondare la nuova cultura storicistica che il Romanticismo portava con sé. E all’epoca il liberalcostituzionalismo costituiva sostanzialmente una proposta all’insegna della modernità e del progresso, che risultava inoltre vincente perché compatibile con il gradualismo di ceti che erano possidenti rurali e non di rado costituivano il notabilato locale.
Ciò risulta soprattutto vero se ad essere esaminati sono i cosiddetti “moderati”, cioè coloro che intravedevano la possibilità di costruire uno Stato moderno perlomeno “inter-regionale”. Ad un certo punto tale possibilità parve concretizzarsi attorno alla monarchia e al governo sabaudi. La “politicità”, cioè la traducibilità pratica immediata di qualsiasi proposta scritta, diventò la preoccupazione principale. Come ha scritto Luca Mannori, “questo fu, appunto, il ‘moderatismo’ degli anni Quaranta: non semplicemente la ricerca di un juste milieu o di un tiers parti, ma la definizione di un ambito ideologico capace di includere la totalità del pubblico italiano, fino alle sue fasce più esterne” . Senza tener conto di questa dimensione, e decontestualizzando l’analisi del pensiero giuridico e istituzionale di quell’ambiente politico-intelletuale (o contestualizzandolo troppo in termini di logica di specifici interessi di classe), si può forse travisare l’effettiva natura ma soprattutto le finalità ultime del discorso politico moderato pre-quarantottesco.
La modernità istituzionale del liberalismo italiano dei primi tre quarti dell’Ottocento sta tutta nell’idea combinata di “Stato-nazione”, che non è peraltro conquista già definitivamente conseguita da tutti i popoli d’Europa. In quell’arco di decenni sovranità popolare e rappresentanza democratica non possono che essere preoccupazioni troppo premature e per certi versi estranee al pensiero liberale uscito dal trauma napoleonico. Sempre affidandosi alle considerazioni di Mannori, pare storicamente corretto evidenziare come “l’obbiettivo essenziale della grande offensiva italiana stava altrove”, ossia nell’aggregazione di “una ’opinione nazionale italiana’ accreditata a dialogare con lo Stato” e “spingere appunto il paese verso la sponda di un regime sostanzialmente costituzionale” , secondo una prevalente accezione del tempo. Rileggendo il pur ostico best seller giobertiano verrebbe da dire che il suo maggior difetto stia nel fatto che il patriottismo fa aggio sull’analisi storica e sul rigore teorico. Dir ciò significherebbe però non cogliere la natura di quel testo, le motivazioni che lo sorreggono, le finalità che intendeva perseguire.
Un altro spunto di riflessione che scaturisce dalla lettura complessiva del libro di Romanelli può essere riassunto nella constatazione che ogni storia è davvero sempre e comunque storia contemporanea, nel senso che si anima e si alimenta di problemi e interrogativi sollevati dai tempi e dalla società in cui lo studioso si trova a vivere. Viene da pensarlo nel leggere la prima sezione di Importare la democrazia, precisando che Romanelli mantiene una costante sobrietà di giudizio e cerca sempre di rendere virtuoso il gioco intellettuale delle rispondenze tra presente e passato. Gli articoli e saggi ripubblicati in questa sezione iniziale, testi originariamente apparsi fra tardi anni Novanta e inizi del Duemila, rivelano come l’autore abbia ripensato certe sue precedenti acquisizioni sulla scia delle più recenti evoluzioni del quadro politico italiano dell’ultimo ventennio. È, del resto, quasi esplicitamente ammesso dallo stesso Romanelli il fatto che sia “il discorso politico contemporaneo” ad aver messo in luce come il ‘locale’ vada collocato “nella sfera dell’antistatuale, o del prestatale, e ad un tempo del pre-politico, o dell’antipolitico” .
L’exploit leghista nell’Italia degli ultimi vent’anni induce a tale riconsiderazione, che appare tutt’altro che peregrina e semmai foriera di potenzialità euristiche alquanto interessanti. In altri termini, induce a ripensare origini e ragioni alla base della nascita e del consolidamento dello Stato amministrativo prima, e della rappresentanza politica (sottintesa: ‘moderna’) poi, tra fine Settecento e inizi dell’Ottocento. Induce persino a ripensare, restando sempre nell’ambito nostrano, all’attitudine ideologica di fondo delle subculture socialiste e cattoliche nei confronti dei rapporti fra centro e periferia, e più in generale verso lo Stato nazionale.
Una vena di municipalismo, variamente argomentato e finalizzato, attraverserebbe sotterraneamente la cultura politica italiana e condizionerebbe qualsiasi sistema politico unitario sul piano del grado di legittimità. Venuti meno i vantaggi materiali del centralismo, in termini di erogazione di risorse dal centro verso la periferia, si spiegherebbe la diffusione di spinte in senso centrifugo, anticentralistico e localistico, nonché il loro successo in termini politico-elettorali e quindi di consenso presso l’opinione pubblica. Ma c’è un’altra considerazione, più squisitamente storiografica, che si rinviene tra le pagine di Romanelli e concerne il caso del Granducato toscano all’epoca di Pietro Leopoldo. La riforma delle comunità introdotta nella Toscana di fine Settecento rispettava la struttura cetuale “negandola in via di principio”. Infatti, secondo tale riforma “i ceti nobiliari”, osserva Romanelli, “non po[tevano] essere rappresentati in quanto tali, e dunque li si favo[riva] solo in quanto possidenti, giacché si è affermato il principio dell’eguaglianza davanti alla legge” .
La spinta anticetuale dello Stato moderno prosegue anche in questo modo, e al caso toscano possono essere aggiunti, come Romanelli fa, il sistema teresiano del “convocato” lombardo (che concedeva autoamministrazione alle comunità formate da possidenti) e il sistema prussiano (lo Städteordnung del 1808). Non vi è nessun ritorno agli antichi iura et libertates medievali, dal momento che in tutti questi casi regionali e nazionali “il governo era […] esercitato per incarico e nel nome dello Stato, ma affidato a funzionari onorari e finanziato dalle imposte locali sui terreni” . Quel che resta sicuramente pre-moderno è il carattere “organicistico” della rappresentanza locale, ancora ben lungi dall’affermazione della dottrina del divieto di mandato imperativo e del carattere personale-individualistico del diritto al suffragio. “Ricondurre a unità ciò che è frammentato e […] omologare ciò che è multiforme” , questo il tratto costitutivo della modernità politica. Il liberalismo “italiano” – o che tale connotazione assume tra 1848 e 1861 – si è pertanto mosso pienamente nel solco del moderno, secondo le esigenze e i parametri di valutazione del tempo.
A dimostrazione infine di come il confronto tra passato e presente possa essere virtuoso e fruttuoso sul piano della conoscenza, anche di tipo pratico-politico, un’ultima considerazione di Romanelli merita di essere ricordata. Egli osserva come, storicamente, il ‘locale’, inteso come radicamento in uno spazio politico-territoriale circoscritto, svolga ruoli diversi, sia “di arricchimento e sostegno, nonché di inveramento”, sia “di resistenza e di involuzione” . Romanelli ha ben presente la lezione di Roberto Ruffilli, il quale invitava sempre a cogliere la duplicità e reciprocità dei processi di organizzazione e consolidamento di una struttura statuale sul territorio, per cui in ogni fenomeno di State-building si assiste all’intrecciarsi di forme di “socializzazione dello Stato” e di “statalizzazione della società” . La risposta circa quale sia il ruolo attualmente svolto dal localismo così fortemente ritornante nella nostra vita pubblica non viene dallo storico, anche perché sa bene che, per la sua professione-vocazione, “l’importante è porre le domande, non avere le risposte” . Sua principale missione e suo maggiore sforzo saranno dunque il porre le domande giuste al momento giusto, e con la giusta dose di critica e di comprensione.