Carl Schmitt e il nichilismo: storia di un rapporto controverso e mutevole? Come Carlo Galli ha ben colto, la prima fase della riflessione schmittiana, in questo analogamente al percorso intellettuale compiuto da Ernst Jünger, non si limitò a “riconoscere il nichilismo, ma volle assecondarne […] il movimento che tendeva all’equazione immediata di potere e verità”. Pertanto, anche il giovane Schmitt finiva per condividere il riduzionismo soggettivistico con cui Jünger identificava il primo dei sintomi basilari del nichilismo e quella volontà di potenza in cui Nietzsche ne riassumeva l’essenza. Sarà stato pure “tragico” ed “eroico” il nichilismo dei due pensatori in quell’epoca, anni Venti e Trenta del secolo scorso, ma pur sempre di nichilismo si trattava. Nell’attraversarlo, le probabilità di restarne impigliati o comunque contaminati erano assai elevate.
Nonostante la necessità delle obiezioni finora addotte, utili quanto meno a completare il quadro e a problematizzare la stessa posizione schmittiana, di quest’ultima non si possono negare gli elementi di interesse e validità euristica che sono presenti nella critica al tentativo di fondazione operata dalla giurisprudenza tedesca dopo la seconda guerra mondiale e ispirata alla filosofia dei valori. Come lo stesso Schmitt precisava nell’introduzione del 1967, l’altro fronte su cui altri giuristi contemporaneamente si mossero fu quello del recupero del “diritto naturale”. L’impressione è che a questa schiera Schmitt, risparmiando una critica frontale, riservi un atteggiamento più indulgente e dunque un credito maggiore. A rileggere la “Tirannia dei valori” si ha la netta impressione che quella schmittiana sia una critica anticapitalista da destra e da cattolico.
Non è chiaro, almeno in questo testo, se la ricerca di soluzione vada in direzione di un ritorno al giusnaturalismo cristiano e al tradizionalismo cattolico. Il riferimento polemico all’enciclica sociale di Papa Giovanni XXIII, “Mater et Magistra”, promulgata il 15 maggio 1961, esempio di quanto “una valorizzazione universale è oggi in atto in tutti gli ambiti della nostra esistenza sociale”, non smentisce tale ipotesi interpretativa, ma anzi la rafforza. La critica è infatti rivolta ad una linea ufficiale seguita dalla Chiesa cattolica che in quegli stessi anni si sarebbe concretizzata nel Concilio Vaticano II. Una linea, in un certo senso, di “mondanizzazione” e “modernizzazione” che per Schmitt non poteva che avere il sapore di resa alla modernità liberale e secolarizzante.
È forse plausibile sostenere che il giurista tedesco tentasse nel secondo dopoguerra il recupero di un’idea di tradizione che solo un cattolicesimo dalle forti tinte gnostiche lasciava intravedere. Lo confermerebbero i numerosi riferimenti, rintracciabili sin dal 1942 e reiterati in tutti gli scritti degli anni Cinquanta, all’idea paolina di un kat’echon quale forza frenante la concezione tecnica del mondo che stava pervadendo la vita dell’Europa della seconda metà del Novecento. Un percorso parzialmente a ritroso quello compiuto dallo Schmitt del secondo dopoguerra, nel segno della ricerca di una tradizione che potesse rifondare la legittimità dello Stato riempiendone di contenuto una legalità dimostratasi nel frattempo quanto mai fragile di fronte alle mobilitazioni umane e materiali innescate dalla nazionalizzazione delle masse.
Al problema generale con cui Schmitt si scontra in modo manifesto dopo il 1945, è cioè il ripristino della cogenza, anche normativa, di certe tradizioni all’interno di un mondo in perpetua trasformazione sotto l’incalzare del dominio culturale e materiale dell’innovazione tecnologica, sembrano fornire suggerimenti interessanti e passibili di operatività alcune recenti riflessioni intorno al possibile dialogo fra il liberalismo e il tradizionalismo del pensiero conservatore. Limitandoci al panorama intellettuale italiano, Pierluigi Barrotta, ad esempio, ha sostenuto che non è poi così difficile “argomentare in favore delle tradizioni” dal momento che “sono esse ad offrire i principi-guida che, in modo sovente “tacito” perché inconsapevole, ci suggeriscono le gerarchie di valori appropriate alle circostanze date”.
Il richiamo alle tradizioni, che, nell’accezione qui proposta, sono riferibili e comprensibili all’interno del contesto culturale europeo-occidentale e cristiano, può risultare intrigante e meritevole di riflessione se solo si pensa che quando sono “vive” le tradizioni mostrano la straordinaria capacità di “banalizzare i conflitti tra diversi e irriducibili valori, sino a renderli invisibili”. Tutto ciò non elimina l’intima ambiguità del discorso tradizionalista, anche nella sua versione più “laica” e meno ideologica. Ha ragione Barrotta nel sottolineare come, per un verso, “senza tradizioni, l’uomo finisce facilmente in uno stato di “anomia”, tale da renderlo privo di punti di riferimento”, per un altro, “le tradizioni possono diventare oppressive, specialmente di fronte alle novità che emergono in continuazione in un mondo che si evolve”. In quest’ultimo caso, ossia di fronte a conflitti “che si rivelano intrattabili con gli strumenti ereditati”, può dimostrarsi risorsa utile e praticabile, anche sul piano giurisprudenziale, il ricorso ad una morale “riflessiva” che, giusta la lezione di John Stuart Mill, consenta di esaminare, caso per caso, “con senso critico le tradizioni in cui viviamo allo scopo di emendarle”.
Meno sicura ci appare quindi l’interpretazione storiografica secondo cui Schmitt avrebbe proseguito nella convinzione, coltivata tra le due guerre mondiali, che il nichilismo necessiti di essere assunto e sperimentato su di sé e nel proprio pensiero fino all’estremo cui può condurre la sua logica. Un nichilismo che sarebbe dunque da sollecitare, “convinti che solo col suo compimento sia dato anche il suo esaurimento e, con esso, la possibilità del suo superamento”, secondo un’intenzione che Franco Volpi ha rinvenuto sia in Jünger che in Heidegger.
Al contrario, è sostanzialmente in questo che il suo percorso intellettuale pare differire da quelli compiuti negli stessi decenni dai “sodali” Jünger e Heidegger. Una divergenza intervenuta dopo circa un paio di decenni di tragitto per molti tratti condiviso. Ma cos’è il nichilismo? Cosa si intende con questo termine? Nietzsche è colui che meglio di ogni altro lo ha tematizzato. Scriveva infatti in un frammento dei tardi anni Ottanta dell’Ottocento: “Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalutano”.
Del nichilismo Nietzsche è stato anche il profeta, stante quanto scrisse in un altro frammento di quel tempo: “l’uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo ora a quel valore, per poi lasciarlo cadere; il circolo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più vasto; […] il movimento è inarrestabile […] Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli”. Purtroppo, di quei due secoli soltanto uno è già trascorso. Pertanto, secondo la profezia nietzscheana, per una completa fuoriuscita dal nichilismo dovremmo quanto meno attendere il quarto millennio. Prima di allora ci sarebbe solo “deserto che avanza” e il tardo tentativo di un “pentito” (?) Schmitt resterebbe ancora tutto da esplorare e portare a compimento.
(fine)
Da un’intervista sempre curata da Gnoli e Volpi, il giudizio su Schmitt di Armin Mohler (1920-2003), di una generazione più giovane, segretario privato di Ernst Jünger dal 1949 al 1953 e autore del celebre studio “La rivoluzione conservatrice” (1950):
“Jünger fu per me una specie di idolo. Carl Schmitt il mio grande maestro. Ho abitato per quattro anni a casa di Jünger, eppure egli ha sempre mantenuto le distanze. Il suo riserbo, devo dire, mi ha sempre messo a mio agio. Schmitt era l’opposto: se gli eri amico, ti avrebbe abbracciato. Con i nemici, invece, sapeva essere terribile. Vedete: Jünger non era capace di cattiveria, Schmitt credo di sì”.
E inoltre:
“Durante la denazificazione della Germania [Schmitt] divenne un capro espiatorio, mentre Jünger se la cavò brillantemente. […] il fatto era che [Schmitt] si sentiva l’unica vittima, il grande incompreso. […] Pensava e viveva secondo le categorie di amico e nemico. […] Schmitt era un uomo appassionato, Jünger distaccato”.
Giudizi, questi di Mohler, che offrono elementi di natura psicologica forse utili anche per un’interpretazione di tipo filosofico dell’opera schmittiana del secondo dopoguerra.
Leggo ora, da un’intervista fattagli nel 2000 da Antonio Gnoli e Franco Volpi, i seguenti giudizi di Hans-Georg Gadamer su Schmitt. E’ il giudizio di chi, allievo di Heidegger che però prese ben presto una strada autonoma e distante, sia filosoficamente sia politicamente, ebbe modo di incontrare e di confrontarsi più volte direttamente con il giurista di Plettenberg:
“[…] non ebbi con lui un rapporto facile. E a me, come protestante, il mondo dei suoi pensieri appare in qualche modo lontano, estraneo. […] Forse è vero che oltre che giurista egli fu anche un teologo politico. […] Ma il contatto personale con lui per me fu difficile. Più volte mi ha irritato con il suo atteggiamento di superiorità”.
E inoltre: “credo che anche il suo decisionismo, di cui tanto si è discusso, fosse soltanto una maschera dietro la quale si nascondeva. E’ un gioco ironico con cui si è fatto beffe dei politologi contemporanei. Riteneva tutti gli intellettuali, filosofi compresi, degli ingenui giocherelloni che scambiano le loro diatribe per la reale dialettica del mondo, per la storia universale, il cui senso gli stava invece profondamente a cuore. Forse era troppo intelligente per noi”.
E infine, parlando di Walter Benjamin: “Era uno del calibro di Schmitt o di Heidegger. Ma Carl Schmitt aveva qualcosa di LUCIFERINO che né Heidegger né Benjamin avevano” (sottolineatura mia).
Giudizio che apre un universo di interpretazioni.