Un Antonello Venditti appena quattordicenne scriveva e cantava in romanesco, rivolgendosi idealmente a sua nonna: “A Sora Rosa me ne vado via, / ciò er core a pezzi pe’lla vergogna, / de questa terra che nu mm’aiuta mai/ de questa ggente che te sputa n’faccia, / che nun’ha mai preso na farce in mano, / che se distingue pe’ na cravatta. / Me ne vojo annà da ′sto paese marcio, / Che cià li bbuchi ar posto der cervello, / che vò magnà sull’ossa de chi soffre, / che pensa solo ar posto che po’ perde”. Poi, poco prima della fine della canzone, confessava: “Sai che te dico, io mo’ me butto ar fiume, / così finisco de campà sta vita / che a poco a poco m’ha succato l’occhi / più delle pene de Satana immortale”. E, in conclusione, l’invocazione di un riscatto, individuale e collettivo: “Annamo via, tenemose pe’ mano, / c’è solo questo de vero pe’ chi spera, / che forse un giorno chi magna troppo adesso / possa sputà le ossa che so’ sante”.
Al di là del preciso riferimento autobiografico, ad un livello più generale e astratto, questa stupenda ballata popolare, la prima in assoluto scritta dal cantautore romano, oggi forse tra le meno note (certo, tra le meno eseguite in concerto) del suo ricco repertorio, ci parla di un’infanzia e di un’adolescenza segnate dalla rabbia e dalla invidia sociale. È frequente che producano risentimento, ma anche senso di giustizia, la tarda infanzia e la prima adolescenza, battute e sferzate, come sono, da violenti venti di guerra interiore, dove il primo affacciarsi al mondo esterno si compie con l’occhio inondato dal disagio personale di una crescita umana ogni volta uguale e ogni volta difficile, ogni volta che un essere umano abbandona lo stato di bambino e si getta a capofitto sul limitare della “linea d’ombra”.
Ma non è sempre così, e non è sempre l’unica via che apre il cuore di quel che poi si suole chiamare artista o intellettuale, o creatura umana comunque dotata di quelle antenne sensibilissime che sono privilegio e condanna, al pari delle ali dell’albatros baudelairiano, ali al contempo ingombranti e “da gigante”. Ce lo ha insegnato più di tutti Albert Camus, lo scrittore che ebbe a dire di sé: “Non sono un filosofo, infatti, e so parlare soltanto di quello che ho vissuto: il nichilismo, la contraddizione, la violenza e la vertigine della distruzione. Nello stesso tempo, però, ho accettato con gioia la capacità di creare e l’onore di vivere”.
Nato cent’anni fa, Camus, prima della precoce morte per incidente stradale nel 1960, visse nei decenni più terribili della storia europea e, per certi versi, dell’intero pianeta, se si pensa solo alla dimensione pressoché mondiale della lunga guerra 1939-1945. Decenni di totalitarismi trionfanti, poi sconfitti ma solo a metà. All’indomani del 1945, fuori il nazismo, ancora dentro il comunismo staliniano, rapida calava la cortina di ferro e il mondo si divideva nei due campi della Guerra Fredda. Dal 1949 fu tra i promotori di un’organizzazione che si proponeva di fornire aiuto materiale ai dissidenti dei regimi comunisti dell’Est, delle colonie africane in esilio e delle dittature militari, mentre poco dopo avrebbe lasciato il posto all’UNESCO a causa dell’ingresso nella stessa organizzazione della Spagna franchista (1952), ammessa nel 1955 anche all’ONU. Camus non si piegò dunque alla logica della Guerra Fredda e della scelta per il “male minore”. Ne conseguì per lui un isolamento, un’estraneità rispetto all’establishment politico e culturale francese ed europeo, nonostante il Nobel e le alte tirature dei suoi saggi e romanzi.
La pubblicazione nel 1942 del romanzo “Lo straniero”, il titolo, la trama e la forma narrativa usata hanno generato l’equivoco di un Camus esistenzialista, affratellato con Sartre. Il momento storico e il clima culturale nel quale uscì il romanzo lo collocarono automaticamente nel filone esistenzialista, dilagante nella Francia di quegli anni di transizione tra occupazione nazista e liberazione alleata. Si trattava solo di una coincidenza e di una fase passeggera. Lo stesso scrittore, durante un dibattito dopo il conferimento del Nobel per la letteratura (1957), avrebbe infatti riconosciuto il proprio debito verso gli antichi Greci, che lo avevano filosoficamente “marchiato”, dichiarandosi estraneo a quei filosofi tedeschi del diciannovesimo secolo da cui l’esistenzialismo aveva ripreso in abbondanza temi e tonalità emotiva.
L’assurdo con cui lo “straniero” Mersault, protagonista del romanzo, si scontra è solo un punto di partenza, non di arrivo, ci ricorda giustamente Raniero Regni in un recente studio dedicato allo scrittore franco-algerino (“Il sole e la storia. Il messaggio educativo di Albert Camus”, Armando Editore 2012). Sbaglia però Regni, a nostro avviso, a non riconoscere che nel romanzo si fatica a trovare anche il più piccolo gesto, o pensiero, di rivolta (camusianamente intesa). La resa all’assurdo di un destino irrazionale e impersonale pare totale, senza scampo, come nella tradizione tragica greca, con l’aggravante che adesso il cielo è completamente svuotato. Gli dei sono fuggiti da tempo, e nessun Dio pare mai giunto a colmare tale assenza. Nessun segnale, nessun disegno viene da lassù. Resta però vero che in contemporanea all’uscita di quel romanzo inizia una tenacissima ricerca di fuoriuscita dal nichilismo dilagante nella cultura europea uscita devastata ed umiliata dalla seconda guerra mondiale. Un cammino filosofico che lo avvicina, sotto questo aspetto, a Kierkegaard. Dall’estetica all’etica, senza però abbracciare alcuna certezza ontologica ma con una professione di fede nel valore dell’uomo, essente ed esistente. Non è un caso che la pubblicazione del “Mito di Sisifo” sia del 1942, lo stesso anno de “Lo straniero”.
“Il pensiero di un uomo è innanzitutto la sua nostalgia”, ha scritto Camus. L’assurdo su cui è stata schiacciata l’intera riflessione camusiana non è affatto l’ultima fermata del lungo peregrinare artistico e intellettuale dello scrittore franco-algerino. L’assurdo è soltanto, si fa per dire, “il divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude”; “è la mia nostalgia di unità”, ammette Camus, il quale non sopporta che le cose, dalle più piccole alle più grandi, siano inghiottite dal nulla. Ha ragione Raniero Regni nella lettura che fa dell’autore del “Mito di Sisifo” e dell’”Uomo in rivolta”: c’è un filone aureo che consente di giungere a prelevarne un profondo, ricco e penetrante “messaggio educativo”. È la pedagogia di un filosofo artista, come la definisce Regni.
Camus ha imparato la nobiltà d’animo, scevra da calcoli e convenienze, durante la propria infanzia algerina. Un’infanzia, prima, e un’adolescenza, poi, segnate dalla morte del padre, ucciso nella Grande Guerra, quando Camus aveva solo otto mesi, e dalla presenza di una madre “ritirata per la maggior parte del tempo nella regione notturna dell’esistenza”, come ha scritto Alain Finkielkraut esaminando il romanzo autobiografico pubblicato postumo, “Il primo uomo”. Le bozze, incomplete, 144 fogli manoscritti, furono ritrovate nella valigetta che Camus aveva con sé il giorno del fatale incidente. Un’infanzia orfana, compensata in parte dalla presenza dello zio Gustave, macellaio colto, anarchico e volterriano, e da una nonna arcigna e dispotica. Regni osserva che Camus “non scrive per la madre ma forse a causa della madre”, per decifrare il silenzio di quella creatura illetterata ma dagli occhi prepotentemente eloquenti. Una madre che gli ha insegnato a non invidiare mai, nonostante la povertà della famiglia. La definirà “aristocratica”, come un po’ tutti i componenti della sua famiglia: “Vicino a loro non ho sentito la povertà, l’indigenza o l’umiliazione. Perché non dirlo: ho sentito e sento ancora la mia nobiltà. Davanti a mia madre, sento di appartenere a una razza nobile: quella che non invidia niente”. Il Primo Uomo è il figlio che ritrova il padre morto quando lui era bambino. Il Primo Uomo è il fanciullo, la cui innocenza è necessaria a ritrovare la volontà per creare. “Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire sì”, per dirla col Nietzsche che indossa i panni del profeta Zarathustra.
Proprio in quell’opera, alla fine dell’Ottocento, il filosofo-poeta tedesco individuò l’Ultimo Uomo. L’esatto opposto del Primo Uomo camusiano. Ma chi è l’Ultimo Uomo? È “la cosa più spregevole di tutte”, è l’uomo che rende “tutto piccino”, l’abitante del tempo in cui non vi sarà più nessuno desideroso di scagliare “la freccia della sua nostalgia al di là dell’uomo; in cui il crine del suo arco non saprà più vibrare”. L’Ultimo Uomo ricerca solo la propria sicurezza fisica e l’abbondanza materiale. Camus pare, in questo, ascoltare l’invocazione di Zarathustra: “è tempo che l’uomo pianti il seme della sua più alta speranza”. Su questo Camus scriverà fino al romanzo postumo, fino al Primo Uomo, figura scavata in quel legno antico con cui sono state fatte le vite, pur diversissime tra loro, di suo padre e di sua madre, della sua famiglia, della sua infanzia e adolescenza. E il Primo Uomo non è “al di là dell’uomo”, né Superuomo né Oltreuomo, ma Uomo, soltanto Uomo, né poco né troppo umano.
La rivolta di Camus è contro la notte del nichilismo che avvolge ogni cosa e cancella pure le ombre, lasciandoci credere dell’inconsistenza di tutto, persino nostra. Alla domanda se crede in Dio, il protagonista del romanzo “La peste” risponde: “No, ma che vuol dire questo? Sono nella notte e cerco di vederci chiaro”. C’è questa lunga profonda e angosciosa notte da attraversare, quella stessa scritta nei versi di Marco Luberti e cantata da Riccardo Cocciante con la sua consueta inconfondibile impareggiabile voce di amore rabbioso, con quell’impeto scatenato in strepitoso crescendo, virile e struggente. Una notte che ti circonda, ti bracca nel momento stesso in cui la cerchi famelico di una morte come porta da sfondare perché spalanchi alla rinascita, dopo la sera che era stata almeno mitigata da una lei: “E poi la notte senza un domani / La notte e tu che sempre mi perdoni / La notte nella stazione / La notte per una nuova illusione / La notte per non restare / La notte per non morire, non morire / La notte per ricominciare / La notte per scappare, per scappare via, via, via, via” (“L’alba”, 1975). Una fuga per la libertà, una distruzione creatrice contro l’annullamento sterile. Il Primo Uomo è sempre fecondo del domani, e l’alba, l’alba “del suo ritorno”, è lì pronta a sorridergli ogni nuovo giorno.
“Ma chi è l’Ultimo Uomo? È “la cosa più spregevole di tutte”, è l’uomo che rende “tutto piccino”, l’abitante del tempo in cui non vi sarà più nessuno desideroso di scagliare “la freccia della sua nostalgia al di là dell’uomo; in cui il crine del suo arco non saprà più vibrare”. L’Ultimo Uomo ricerca solo la propria sicurezza fisica e l’abbondanza materiale”.
Questo pensiero si incontra con un’idea che mi circola in testa da un po’ di tempo: l’uomo che nel nihilismo ha perso il senso della vita, non riconosce altra misura della felicità se non quella del “benessere” (che oggi si chiama anche qualità della vita, alludendo a una qualità puramente materiale: diritto alla salute, al reddito, alla sicurezza, ecc.). Se non c’è un senso, non c’è uno scopo, si vive vegetando. Ma, mi chiedo, da che viene che abbiamo perso il senso? La filosofia evoluzionista: il mondo governato dal caso, l’esclusione del finalismo, l’esclusione di una conoscibilità dell’intero, diversa da quella delle scienze che conoscono solo il particolare, l’esclusione di una nozione di sommo bene (il sommo bene rende l’uomo libero dai beni particolari, perché li ama tutti relativamente), ecco, proprio la filosofia evoluzionista è il paradigma della perdita del senso. Eppure in metafisica si può agevolmente smontarne i presupposti di fondo, perché si può dimostrare in modo inoppugnabile che il divenire non è capace di giustificare se stesso, e che il divenire postula l’Indiveniente. Ma vai a farlo capire al nostro mondo, che ha posto sul divenire le sue fondamenta e dell’Indiveniente non gliene importa nulla: non sa nemmeno se c’è o non c’è.
Cordiali saluti,
Franco Biagioni
Caro Biagioni,
la questione che pone è filosoficamente cruciale.
Mi verrebbe da mettere a confronto le posizioni di due grandi filosofi, per restare all’ambito italiano. Da una parte, un attualista radicale, cioè un sostenitore del diveniente in un contesto di immanentismo assoluto, quale fu Ugo Spirito, forse il più coerente – teoreticamente parlando – allievo di Giovanni Gentile. Dall’altra parte, Emanuele Severino, che cerca da decenni di dimostrare l’insensatezza del diveniente, o meglio la sua apparenza, e di far percepire, al contrario, la concreta realtà dell’indiveniente.
Politicamente e sociologicamente, poi, il “benessere” materiale come misura di ogni cosa è figlio dell’avanzata dell’industrializzazione e della stessa democratizzazione. Quel che chiede il demos e i suoi componenti non è altro che “sicurezza”. Hobbes lo aveva già chiaro a metà ‘600, e Tocqueville lo ribadì e approfondì in altra ottica nella prima metà dell’800.
Un caro saluto, e grazie per questo Suo profondo e stimolante commento
DB
Gentile Professore,*
ho avuto la fortuna, almeno credo, di aver conosciuto i due romanzi di Camus citati (“Lo straniero” e “La peste”) già alle scuole medie grazie ad un illuminato professore di lettere che ci aveva introdotto alla loro lettura in classe. Ciò che mi ha trasmesso tale lettura, iniziata peraltro agli albori della prima adolescenza e poi ripresa più volte con il crescere dell’età (ora ho 40 anni), è l’umiltà nella ricerca di senso che l’autore intraprende e rilancia continuamente con le sue riflessioni senza mai avere la pretesa di insegnare o “bacchettare” ex cathedra; lo senti estremamente vicino a te perché va ad incidere sulle domande, dubbi, riflessioni nonché sugli slanci, gioia, ammirazione dell’animo umano che sono gli stessi su cui vive e riflette ogni persona che non ha mai rinunciato o abdicato a chiedersi, domandare, vivere, amare, soffrire.
Io non sono un letterato, ma condivido molto la sua analisi di come Camus sia stato “schiacciato” in maniera equivoca sul filone esistenzialista, io mi permetterei di dire anche sul lato pessimista della visione della vita quasi a suggerire da parte di certa letteratura (in maniera a mio avviso errata) che lo stesso autore volesse trasmettere un “non senso” del vivere (vedi certi passaggi de “La Peste” se letti solo in questo senso-mi scuso del gioco di parole-); mentre invece, credo, che Camus partisse da se stesso, dal suo io, dalle sue esperienze, vissute nella loro passione e riflessione come unghie addentellate nella carne viva, per dare un senso all’esistenza e con ciò amare la vita nel suo insieme, anche (e perché no) soprattutto nelle sue gioie di vita per la vita di sé e degli altri con gli altri e per gli altri, nella meravigliosa natura incastonata in bellissimi paesaggi modellati dall’uomo sull’uomo a misura d’uomo (come dimenticare a proposito certe descrizioni struggenti di cittadine algerine incastonate sul mare, coi loro colori, coi loro odori, col loro “chiacchericci” nei caffè, con la descrizione delle persone che vivono e fanno la città, che possiamo trovare in suoi racconti pubblicati anch’essi postumi).
Ripeto, non sono un letterato; ho solo espresso le sensazioni che l’autore mi trasmette e continua a trasmettermi.
Un caro saluto
Simone Quattrini
*(dopo certa riflessione, anche se ci conosciamo molto bene con il nostro rapporto di amicizia e ci diamo sempre del tu, preferisco dare del lei in questo contesto, in ossequio ad una forma che stiamo perdendo, scusandomi del tu finora dato in un paio di commenti poi postati sul sito di istituzioni di politica).
Gent.lissimo Prof.,
da romano, ho molto apprezzato questa canzone non conosciuta di Venditti. Sono in linea anche con Camus. Credo che noi uomini, nè primi, nè ultimi, abbiamo il dovere, verso di noi ed i ns cari, di cacciare gli ultimi uomini. Basta il nostro voto, senza rivoluzioni armati. Uomini liberi, più forti di un’informazione ignobilmente pilotata. Cacciamoli via da ogni settore e questo Paese rinascerà. O no?
Un caro saluto ed un bacino a Myriam :-)))
sempre Suo amico ed grandissimo estimatore, P.
Grazie mille.
DB