Riforma elettorale sì, riforma elettorale no: questo è il dilemma. Ma sarebbe assai meglio metterla in forma interrogativa, così: è questo il dilemma? A seguire il dibattito politico delle ultime settimane parrebbe proprio di sì. Diciamo meglio: il dibattito evidenziato e amplificato da stampa e tv. Con il web che segue, come non di rado accade, rivelando la Rete essere ancora ben lungi dal configurarsi quale fonte di pensiero alternativo, per lo meno critico e indipendente da mode e conformismi. Al più, capita di trovare online chi si schiera contro la proposta di legge presentata da Renzi e Pd, fatta in accordo con Berlusconi e Forza Italia. Si accetta il terreno di scontro dell’avversario, giocando di semplice rimessa. Tu dici maggioritario? Io dico proporzionale. Tu dici no alle preferenze? Io dico sì. Eccetera, eccetera.
Siamo però così sicuri che si debba partire dalla legge elettorale? Personalmente ho dei dubbi. Oggi, sul “Corriere della Sera”, il costituzionalista Michele Ainis pone la questione nei seguenti termini: “il peggio è stare fermi, ed è precisamente questo lo spettacolo che ha messo in scena la politica, nei 9 lunghi mesi trascorsi all’insegna del Porcellum”. Morale della favola: chi si ferma è perduto. E il ragionamento tiene, per molti aspetti. Ainis ha ragione nel dire che dall’insediamento di Letta al governo, peraltro di “larghe intese”, si è vista crescere con preoccupazione “una distanza, una separazione, un baratro tra le istituzioni e i cittadini”. Ha sempre ragione quando aggiunge che “è questa la prima emergenza nazionale, riannodare il filo che ci lega al nostro Stato, giacché adesso siamo un po’ tutti orfani di Stato”. Ma è proprio qui il punto, che rende non del tutto convincente l’argomentazione di Ainis. Che è poi lo stesso tipo di argomentazione con cui Massimo Giannini firma, sempre oggi, l’editoriale di “Repubblica”. Anche il vicedirettore del quotidiano fondato da Eugenio Scalari ritiene un fatto comunque positivo che la discussione sulla legge elettorale sia giunta alla Camera, perché ciò significa che “il treno delle riforme si muove” e che “nella nostra democrazia bloccata un ‘convoglio’ riformatore si è finalmente messo in marcia”. E aggiunge: “non è poco per un sistema pietrificato come il nostro”.
Dunque la grande stampa, quella che fa più opinione, converge. E i due editorialisti possono accampare molte ragioni a sostegno della loro tesi. Ma quell’orfanità di Stato di cui parla Ainis si colma davvero con il sistema elettorale? È senz’altro vero che, come egli scrive, la “funzione più importante dei sistemi d’elezione” è “decidere un governo, e deciderlo sotto dettatura degli stessi governati”, ma ancora lo Stato non viene minimamente toccato da un sistema che si limita a selezionare chi deve governare per nostro conto. Lo Stato si qualifica per come governa, non per chi chiama al governo. Soprattutto se parliamo di democrazie liberal-costituzionali dotate di sistemi di welfare ed economie progredite. Certamente si può migliorare la rappresentatività del parlamento adottando una legge elettorale piuttosto che un’altra. E su questo l’Italicum di Renzi e Berlusconi lascia comunque spazio a dubbi e perplessità. Ma il problema è un altro. Con la legge elettorale non si riformano, cioè non si migliorano, né l’efficienza né l’efficacia della macchina decisionale, dunque del governo e con esso dello Stato nel suo insieme. Quel che da sempre i cittadini delle democrazie occidentali chiedono in prima battuta sono crescita e benessere, o almeno segnali di ripresa laddove, come nell’Italia di oggi, la crisi si sta prolungando oltremisura. Anche a non saper né leggere né scrivere, anche a non intendersi di scienza della politica e della pubblica amministrazione, si è ormai fatta largo presso ampi strati della cittadinanza la consapevolezza che occorrano interventi pubblici forti e decisi e non più rinviabili. Ormai anche coloro che di politica non si sono mai interessati sanno bene che il nostro Paese è fermo. Come ha scritto alcuni mesi fa Ernesto Galli della Loggia, l’Italia è “ai vertici di quasi tutte le classifiche negative europee: della pressione fiscale, dell’evasione delle tasse, dell’abbandono scolastico, del numero dei detenuti in attesa di giudizio, della durata dei processi così come della durata delle pratiche per fare qualunque cosa”. E, pochi giorni fa, ha aggiunto un’altra patologia: un blocco burocratico-corporativo, vero potere forte “che consiste principalmente nella possibilità di condizionare, ostacolare o manipolare il processo legislativo e in genere il comando politico”. Ne consegue che “anche il tessuto unitario del paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese”.
Ma come? La televisione e la stampa ci assordano da anni indicandoci questi come i mali di cui soffre sempre più la nostra nazione, e quella stessa televisione e quella stessa stampa oggi, e in contemporanea alla lamentazione quotidiana sul declino italico, ci propongono la riforma elettorale come un avvio di soluzione? Si replica: meglio che nulla! Come abbiamo visto, l’obiezione è che da qualche parte bisogna pur cominciare, e per un Paese fermo muoversi è imperativo categorico. Ma, di nuovo, è questo il gesto necessario per la messa in moto di una macchina da troppo tempo ingolfata e in sosta vietata? È con l’approvazione di una legge elettorale che la classe politica dà oggi in Italia, nell’anno di grazia 2014, la dimostrazione di essere tornata a “fare politica”? Non ne sono affatto convinto. Massimo Giannini giustamente fa notare che il “vagone della nuova legge elettorale” si porterebbe dietro anche quelli del superamento del bicameralismo perfetto e della modifica del Titolo V. E già sarebbe qualcosa, lo ammetto. Ma è proprio questo che rimette in moto lo Stato di cui siamo orfani? Per muoversi, ossia essere efficienti, bisogna anzitutto snellirsi un po’. Dopodiché, ripreso a camminare, l’organismo deve riacquisire capacità di produrre decisioni che ci tolgano gradualmente, ma nemmeno troppo lentamente, visti i tempi accelerati nei quali viviamo, dai vertici di tutte le classifiche negative europee. Ad una ad una dobbiamo sfilarci dai primi posti, semmai da riservare alle classifiche positive del continente. È chiedere troppo? Niente affatto, nella misura in cui non uscire dalle classifiche negative significherebbe alla lunga mettere in discussione persino la tenuta dell’unità statuale. Col che la condizione di orfani dello Stato si farebbe davvero cronica e potrebbe favorire nostalgie per soluzioni demagogiche e plebiscitarie.
In sintesi, credo abbia ancora una volta ragione il vecchio maestro della scienza politica italiana, Giovanni Sartori. Nell’editoriale di domenica scorsa, sul “Corriere della Sera”, il politologo fiorentino ha ribadito: “la riforma elettorale è materia di legge ordinaria, mentre la riforma dello Stato è materia di legge costituzionale. E i tempi tra le due cose sono molto diversi, anche di due anni. Però se non vogliamo incappare in errori del passato le due cose devono essere armonizzate (nelle nostre teste) sin dall’inizio”. Mi permetto di aggiungere: armonizzate anche nelle azioni concrete dei politici. Ergo: riformate lo Stato (o meglio: la forma di governo) e riformate la legge elettorale.
In conclusione, una domanda ingenua: ma è poi così diverso l’Italicum dal Porcellum? Sempre oggi, e sempre su “la Repubblica”, il costituzionalista Alessandro Pace mette perfino in discussione la costituzionalità dell’Italicum così come è stato proposto. Si rischia insomma di riprodurre quella violazione del principio di eguaglianza già censurato dalla Corte costituzionale meno di due mesi fa. Aggiungo una considerazione ulteriore: il Porcellum garantì maggioranza amplissima nel 2008, eppure maggiore efficienza ed efficacia dello Stato non si sono avute. Nel 2006 Prodi si ritrovò una manciata di voti di maggioranza, ma cadde più per lotte intestine alla propria coalizione e attacchi giudiziari che non a causa della legge elettorale. E, nonostante tutto, durò quasi due anni. Nel 2013 il Porcellum ha dato il risultato che ha dato a causa di una mutazione profonda nell’offerta elettorale, con la comparsa di Grillo, o meglio con l’emersione di una domanda di cambiamento che ha deciso di provarla nuova o diversa, anche se l’offerta era a scatola chiusa.
Il problema è che noi abbiamo bisogno di esecutivo, opportunamente controllato (non ingabbiato) dal legislativo, altrimenti niente efficienza, niente efficacia. E dunque: niente riforme, ossia rimessa in moto e rimessa in forma di un Paese fermo e deformato. La stabilità dell’esecutivo non ce la darà mai il sistema elettorale. Ci potrà garantire una maggioranza, ed è su questo che si stanno accanendo e scannando le forze politiche. Ma una maggioranza parlamentare, magari anche poggiante sulla coalizione di più partiti, serve ben poco ad una presidenza del consiglio dei ministri così com’è configurata dalla Costituzione del 1948. Per capire che poco si capisce di forme di governo e forme di Stato, basta pensare all’uso disinvolto che si fa del termine “premier”. Ma quale premier! Il nostro, al più, è un amministratore di condominio.
Cambiare la forma di governo: cancellierato alla tedesca, premierato all’inglese, semipresidenzialismo alla francese, o qualcosa di assimilabile e compatibile, facilmente digeribile dal nostro Paese. Ma modifichiamo i rapporti tra esecutivo, legislativo e giudiziario, mantenendoli indipendenti e separati come Montesquieu e i Padri Fondatori americani ci hanno insegnato, ossia facendo in modo che si controllino a vicenda ma senza che il freno reciproco si tramuti in paralisi generalizzata. Si scelga una di queste forme di governo, e dunque vi si associ il sistema elettorale annesso e connesso, e già sperimentato in altre consolidate democrazie europee. Quando questo sarà fatto, potremo parlare di riforme costituzionali nel senso vero e profondo della parola e come servizio utile e giusto reso ai cittadini di questo Paese.
Caro Danilo,
nel riflettere sulla proposta di cambiamento della legge elettorale mi vengono in mente alcune riflessioni che vorrei fare con te. Innanzitutto questa bozza sembra non tener minimamente conto delle motivazioni della sentenza che crede di poter aggirare agevolmente, forse pensando che, comunque, una nuova dichiarazione di incostituzionalità verrà fra anni. E i motivi di incostituzionalità sono gli stessi del porcellum, forse aggravati. Questa bozza, come tu dici, è un porcellum al quadrato. La considerazione più importante è però di carattere generale e culturale. Da anni si fa un uso molto disinvolto dei concetti attribuendo alle parole significati che non hanno e giocando sul loro valore di slogan. Io mi soffermo sul tema della stabilità e della governabiltà che, come tu dici bene, non possono essere – e non lo sono stati – il risultato di una legge elettorale. Per me sono un problema culturale, mentale e quindi politico, che nessuna legge elettorale può garantire. Ma il problema è ancora più profondo e riguarda l’uso strumentale che si fa dei due termini in modo che l’elettorato, in ciò indirizzato dalla stampa, possa farsene carico e addirittura ringraziare coloro che si battono per questa stabilità e governabilità, e sia indotto a considerare la legge elettorale come la cosa più urgente da fare. Ben altri, come giustamente tu ricordi, sono i problemi del paese e se le intese tra Renzi e Berlusconi avessero avuto come obiettivo leggi in favore di un paese che è alle corde, forse avremmo potuto ringraziarli. Ma i due termini, stabilità e governabilità, a ben guardare il senso profondo della legge proposta vista nella relazione tra tutte le sue parti, significano una cosa sola ‘POTERE’, quindi qualcosa di ben diverso dalla governabilità e dalla stabilità in termini democratici. E di questo, come della volontà di aggirare una sentenza che tenta di bilanciare rappresentatività e governabilità in termini, devo dire, accettabilissimi, mi convinco ancora di più se guardo al rapporto tra tetto per il premio di maggioranza e ballottaggio. Innanzitutto il premio di maggioranza così alto, da eliminare la normale dialettica democratica tra governo e opposizione, coniugato con le liste bloccate, dà a chi lo ottiene mano libera per fare tutto quello che desidera, agevolato da una opposizione impotente per numero e da un parlamento di nominati e quindi di yesmen. Secondariamente, e questo è ancora più grave, ove nessuno riesca ad ottenere il 35 o 37 per cento -la differenza è poco rilevante – si va al ballottaggio tra i due partiti maggiori i quali, anche senza il raggiungimento al ballottaggio di questa soglia, arrivano a quella maggioranza assoluta che permette mano libera per fare quello che si vuole. E con questo si è vanificata la stessa soglia. Se questo è governabilità o potere lo lascio all’intelligenza del cittadino. Con questa legge elettorale chi vince le elezioni avrà modo di trasformare l’Italia in un possesso personale. Non voglio nemmeno immaginare una nuova struttura istituzionale lasciata alla decisione di uno solo seguito da una turba di yes men e senza dialogo con le ‘noiose’ opposizioni. ‘Si deve fare quello che dico io’. Lo sentiamo ripetere tante volte in questi ultimi mesi. Viva il dialogo e la democrazia e il rispetto per la politica e l’elettorato!
Tocco un altro punto, ma troppe sono le perplessità sia su questa proposta di riforma elettorale, sia sul modo di procedere della politica. L’architettura istituzionale tracciata dalla costituzione è stata stravolta dalla prassi politica e ancora di più da sistemi elettorali non coerenti con quella architettura. Tu ricordi l’uso disinvolto dei termini quali il premierato usato senza sapere di cosa si parla. Io non sono sicura che l’attuale parlamento sia giuridicamente ma soprattutto politicamente legittimato a fare una legge elettorale e soprattutto a modificare la costituzione, ma vorrei passar sopra a questo aspetto, che pure non è di piccol momento, per dire che non lo considero in grado di fare non solo riforme elettorali o istituzionali ma nessuna legge per mancanza di cultura giuridico-politica della maggior parte dei suoi membri, per mancanza di senso della loro funzione e di dignità del loro ruolo (anche per il fatto che mettono a tacere quella parte, che pure esiste all’interno di ogni schieramento politico e anche quindi all’interno del parlamento, composta da persone serie e competenti). E lo dimostra il fatto che si fanno dettare dall’esterno del loro organo, e cioè dall’accordo tra due politici oggi esterni alle strutture parlamentari, non solo l’agenda ma anche l’agendum all’interno dell’agenda. E questo perché sono stati eletti col porcellum e quindi sono stati nominati e ci tengono a conservare la ‘stima’ di chi li ha nominati o di chi li dovrà nominare. L’unico intralcio al potere di chi col premio di maggioranza aveva in mano il paese sono stati i piccoli partiti. E sotto questo risvolto il porcellum viene migliorato. Via i piccoli che hanno potere di ricatto, via il dissenso, via la discussione. “Ragazzini lasciateci lavorare”. E dico ‘lasciateci’ e non ‘lasciatemi’ pour cause. Io spero che il diritto, stravolto nella sua ragion d’essere, si vendichi come si è vendicato in occasione della prima riforma elettorale che sembrava tarata per far vincere chi l’aveva fatta e che invece, col risultato elettorale, mandò a casa chi della legge elettorale aveva voluto fare, ignorando la ragion d’essere della legge elettorale, uno strumento a suo uso e consumo. La legge elettorale è strumento di democrazia e non di potere e democraticamente deve essere discussa e approvata, soprattutto non deve avere come suo obiettivo quello di favorire soltanto alcuni gruppi e di escluderne altri stravolgendo la volontà dell’elettorato minoritario che ha diritto alla sua rappresentanza e a far sentire la sua voce.
Un caro saluto,
Teresa Serra