Longeva la miccia a cui appiccasti fuoco da giovane,
ma è combustibile da bruciare ogni età inconsapevole?
E, nel caso, quel fuoco è vita o solo cenere anticipata?
Che ebbro tu fosti, lo scopri più tardi, al meriggio
nella scena che si vuole protagonista, comprimari voi
abbacinati da quel sudario d’oro, vostra luce di sfondo
che impregna il corpo di entrambi, di lei e del fauno
uniti in questo amore d’arbusti e di tendini stirati
a gocciolare le ore nel meriggio d’un sogno agitato
cui mi stringo a difesa da ogni rintocco fatale.
Ma la città è lontana, e con essa le campane
non così lontane da non riecheggiarmi il passato
di un quasimodo che suda sin nei ventricoli dell’anima:
che fatica trainarsi lei e un destino in forma di gobba!
Potesse una sola cinghia dar contegno alla tua anima
flaccida, cadente come stelle che nominare non sai
con i tuoi desideri, troppo intimi, troppo spudorati
da essere maneggiati dalle tue dita martoriate dalle funi
con cui suoni a festa e a lutto, mai in sintonia con te
con il battito che dice quanto sangue oggi le daresti
pur di vederla arrossire per te, deforme ritratto di lei
ché è per questo lei non ti degna di uno sguardo, un sorriso
che le ricorderesti la stessa origine blasfema, sfidante
le più naturali regole con le quali circolare tra gli umani.
Ho il fegato spappolato dai rimorsi, dice il campanaro,
di aver osato un linguaggio non mio, di ciò mi vergogno!
Io al mio amore so solo dare un suono, a cui resto sordo,
e non basta la bocca se l’orecchio di te non accoglie rintocco.
Il pomeriggio d’un campanaro di provincia – Versione audio:
Inarrestabile, irrefrenabile, bravissimo! Da ‘laico’ pedante e agée, ahimè, non posso che invidiare la tua vitalità…e anche i tuoi dotti interpreti! Buona domenica…e che sia dionisiaca!
Versi appassionati di un Quasimodo che continua a “martoriare le sue mani nelle funi”, per far riecheggiare, nel suono delle campane, quell’amore inascoltato e disperato. Che è ad un tempo vita e cenere, speranza e morte per un’anima “che suda sin nei ventricoli” (molto bella quest’espressione).
Trovo, come sempre, interessante dare un’altra forma ai versi poetici, attraverso la musica e immagini evocative. Complimenti. Molto bella!
Infelice Quasimodo, campanaro magistrale che crei suoni martoriandoti le mani, tu hai ben diretto ad ogni pensiero, il più delicato o il più indecente.
Il tuo amore è passione e carnalità e chi può averne più diritto di te?
Tu non avesti età inconsapevole, quando si accende la miccia d’amore che brucerà per tutta la vita regalandoti fuochi di passione .
Tu hai dovuto da sempre portare la tua deformità, come un sudario, come una gabbia di dolore.
Tu che ti relegasti fra i mostri di pietra ma su una svettante cattedrale che ti innalza in alto dove è giusto che il tuo sentimento stia.
E’ un sentimento d’amore profondo che cancella le mostruosità.
Mi ha profondamente colpita questa tua lirica, caro Danilo, ha inciso una forte emozione nel mio sentire. Ti ringrazio per aver tratto spunto da un film bellissimo, con uno straordinario interprete.
Parole come le tue accendono la banalità dei giorni, regalano momenti di grande intensità.
Grazie Poeta
Annamaria
Un amore focoso…potrebbe trasformare tutto in cenere.
Gocciola, suda, in un’anima affaticata da quel destino gobboso, maneggiata da desideri spudorati, blasfemi, deformati, vergognosi…
Il rintocco fatale delle campane…
Un suono sordo,
un linguaggio sanguigno, sfidante,
da bruciare…
Fuoco salvifico
LIBERO!!!
Cara Patrizia,
ti ringrazio molto per il tuo commento alle mie poesie, ed in particolare al “Pomeriggio del campanaro…”. Commento degno di un recensore pluriblasonato. La tua analisi è molto acuta, e hai ragione nel cogliere echi dannunziani (adoro la silloge dell’Alcyone, letta in giovane età proprio durante un soggiorno versiliese). Giusta anche la notazione circa la combinazione voluta, ricercata, di parole auliche, arcaiche persino, e nuove, tratte dal lessico contemporaneo, nonché dal registro “basso”, del linguaggio “quotidiano”.
Può infine darsi benissimo che si agiti in me un fondo di tristezza, anche profonda, acuta a tratti, che nelle poesie emerge con particolare forza. Forse sono stato indotto a scrivere poesie proprio da queste sabbie mobili interiori, da questo fondale che ogni tanto mi si smuove.
Grazie per la tua consueta attenzione.
A presto,
DB
Caro Danilo,
volevo (e ci tenevo a) dirti qualcosa sulle tue poesie in generale (quelle che ho letto sul tuo blog, ovviamente) e su una in particolare.
Intanto un’osservazione: pur non scrivendo né in rima né in altre forme metriche, tu fai un uso quasi leopardiano (Leopardi era un maestro di questa figura retorica) di enjambement. E questo dà alla composizione un ritmo sincopato, spezzettato, quasi singhiozzante, aumentando (secondo me) il pathos del discorso poetico.
Devo confessare che non sempre capisco il significato di tutto quello che esprimi, ma come ti avevo detto in precedenza, mi lascio trascinare dalla sensazione generale che le parole producono. Parole che tu usi con una scelta che esteticamente io apprezzo per la loro pregnanza e per gli accostamenti, a volte imprevisti (o improvvisati? sulla spontaneità delle parole o sulla loro composizione studiata, il problema è aperto per ogni tipo di poesia), a volte più scontati ma sempre gradevoli. Io sono sempre stata molto attenta sia al linguaggio (nel senso della corretta ortografia, della sintassi ecc.), sia alla bellezza di una costruzione linguistica. Nel tuo fraseggiare c’è un accostamento (quasi ossimorico?) di parole moderne e di parole desuete (o perlomeno più, mi verrebbe da dire, “auliche”).
Ad esempio nella poesia che ho letteralmente dissezionato (“Il pomeriggio d’un campanaro di provincia”) si trovano “che ebbro tu fosti”, “meriggio”, “abbacinati da quel sudario d’oro”, termini e concetti sicuramente tradizionali, insieme a “amore di arbusti e di tendini tirati”, “a gocciolare le ore”, “il fegato spappolato dai rimorsi”, che sono immagini non tradizionali, ma innovative. Tra l’altro il verso dell'”amore di arbusti e tendini tirati” mi ha fatto venire in mente, chissà per quale analogia, “La pioggia del pineto” di D’Annunzio.
Io credo (ripeto, è solo una mia impressione e non un tentativo di interpretazione) che nelle tue poesie ci sia molta autobiografia. Certo questo che sto dicendo è banale: nessuno scrive su esperienze altrui, ma su se stesso e la propria vita. Quello che intendo dire è che trovo che ci siano elementi di vera trasposizione in versi (o in parole) di proprie sofferenze interiori. Spero che tu non ti offenda se ti dico che a me tu sembri una persona triste, come se ancora la vita dovesse concederti qualcosa o non te lo avesse dato per intero. Nel raccontare di un quasimodo qualunque, vedo una sofferenza (secondo me; ti ricordo che io non sono l’esegeta dei tuoi versi, ma solo un “fruitore finale”) quasi cosmica (e quindi anche tua personale): ti domandi se l’amore che ha acceso l’anima giovane è un fuoco che dà vita o è solo “cenere anticipata”. E mi resta la certezza che tu lo consideri “cenere anticipata”. Nel parlare del campanaro di provincia, io credo che TU sia quel campanaro. E nel far suonare le tue campane, TU hai “le dita martoriate dalle funi” perché qualcuno è rimasto sordo a quel suono.
Fondamentalmente trovo che nei tuoi versi (non solo quelli del “campanaro”) ci sia un forte pessimismo di fondo. Resta da vedere se tu hai effettivamente espresso una sorta di spleen, di malinconia, o se sono io a leggerla nelle tue parole. Per parafrasarti (nel tuo parafrasare Q.Skinner) si tratta di meaning vs. understanding. E’ chiaro che tu fai partire un messaggio di significato Y e dieci persone lo recepiscono in dieci modi diversi. C’è da aggiungere che, in quello che ho letto, pare si arrivi ad una sorta di visione “possibilistica”: dalla (forse) disperazione si passa al momento tormentato, poi all’insofferenza, poi probabilmente all’accettazione, alla rassegnazione pessimistica, per arrivare infine al barlume di soluzione, forse di speranza, in una specie di climax ascendente. Questo perchè secondo me nelle tue poesie vi è cronologia, vi è il tempo che scorre, vi è una storia “raccontata” nei suoi riflessi sul tuo intimo, con un inizio e una fine. E dunque una storia con una conclusione non necessariamente pessimistica, ma “aperta” ad una qualche prospettiva (il “riscatto finale” dopo la sofferenza? Il prigioniero che è riuscito ad aprire le sbarre della sua prigione? Il prigioniero che ha aperto gli occhi e si è reso conto che in prigione non era?).
Ti saluto caramente e ti auguro buone ferie.
A presto
Patrizia
Gentilissimo Danilo, grazie per questa poesia.
E’ di una lucidità e forza eccezionale, guarda alla verità e porta fino all’estremo la parola, il suono, con la consapevolezza che tutto rimane in potenza e niente si fonda se orecchio e bocca non si incontrano e accolgono. Mi viene da pensare che nel rintocco della campana e nel campanaro che tira le funi, nelle loro essenze, ci sia qualcosa di disperatamente miracoloso, qualcosa che potrebbe compiersi, accadere, e se si compie e accade succede nella misura in cui ci disponiamo a vivere e a condividere parola e linguaggio, accettando anche il rischio di farci deformare o spappolare.
Bello poi il legame poesia e cinema. E a proposito di cinema, la campana mi ha ricordato la costruzione della campana, la densità e la profondità di questa costruzione, in Andrey Rublev, lo splendido film di Andrej Tarkovskij.
Ancora grazie, Danilo, per il dono della sua poesia e per il modo in cui ce l’ha donata.
Un cordiale saluto,
Silvia Comoglio
El tema es extraño, regresar al tema del campanario, de Notre Dame, ver las arrugas del Jorobado, las campanas, las gárgolas y leer tu poesía, me pareció retomar el estilo arquitectónico de una iglesia gótica, pero en fin es ese amor que emerge en los muros, es la sangre del amor por ella: “…cadente come stelle che nominare non sai
con i tuoi desideri, troppo intimi, troppo spudorati…”
Mi piace molto la poetica che con grande duttilità, ormai, sei solito usare. Per fortuna nel tempo della tecnica, dell’omologazione globale, del disincanto, c’è rimasto un poeta (alcuni poeti) che canta la sua carnalità, la sua Dionisiaca fatica, con parole che fremono, con parole che gemono.