Il Medioevo delle città: una lunga durata italiana? In ricordo di Jacques Le Goff /2

di Mario Ascheri

Nelle città manca quella dialettica di ceti che aiuta a delineare e a dare nette fisionomie politiche alle differenziate posizioni culturali e sociali, e quindi mancano anche i conflitti di ceto presenti negli ordinamenti che conoscono i parlamenti. Nelle città non c’è un sovrano cui chiedere favori contrattando la fiscalità, perché c’è un’occupazione totale delle posizioni pubbliche che comporta la privatizzazione sostanziale del ‘pubblico’ e delle sue risorse a favore di famiglie e clientele, e per di più senza controlli e opposizione.
Emergono così due elementi strutturali probabilmente ancora operanti sullo sfondo, almeno per qualche verso.
l) La compattezza della città, che vuol dire solidarietà nel privilegio e quindi tutela vivissima dei diritti di gruppo in particolare nei confronti del potere centrale, ma non anche a tutela dei singoli. In questa ‘società totale’ non c’è spazio per il deviante, per la minoranza, che tutt’al più può giovarsi dell’indifferenza, ma in posizione di emarginazione definitiva e negativa, senza riflessi nella vita cittadina. Manca quindi in questa tradizione repubblicana, come in quella religiosa, la cultura dei diritti individuali. ‘Nulla salus extra ecclesiam’, ma anche ‘extra civitatem’: fatto che deve ammonire sull’inevitabile formalismo che aduggia ogni rappresentazione della nostra civiltà moderna come ‘individualistica’ rispetto al comunitarismo medievale.
2) La città-Stato ha offerto un’esperienza paradigmatica di governo totale: è stata veramente, cioè, l’ente ‘originario’ di cui parlano oggi i ‘municipalisti’ come Massimo Cacciari.
Essa si è curata di tutto e con grande partecipazione civica, ma all’insegna di quell’unum corpus religiosamente ispirato che, non coltivando i diritti individuali, ha progressivamente dimenticato le cautele che la sospettosissima e litigiosissima democrazia comunale aveva elaborato nel Duecento per evitare posizioni di predominio incontrastato in città.
La concordia corporativa ha finito per regnare, ma al prezzo di togliere spazio alla crescita articolata della società separata dalle istituzioni, e quindi anche al momento del controllo dell’esercizio del potere. Perciò questa società ha potuto autorappresentarsi fondamentalmente come monoclasse (pur non essendolo, naturalmente), e non ha ammesso e non poteva sviluppare una cultura realmente pluralistica, e quindi aperta a cautele come la divisione dei poteri, la ‘par condicio’ delle forze in campo eccetera.
Significativo il giudizio di Montesquieu sulle Repubbliche italiane del suo tempo: quello stesso Montesquieu che poi mitizzava il parlamentarismo inglese, non ometteva di rilevare una specie di ‘tirannide collettiva’ persino a Venezia. A tanto si era ridotto il repubblicanesimo più illustre e decantato d’Italia!
Non mi azzardo naturalmente a discettare gli effetti perduranti di questa poderosa costruzione plurisecolare negli sviluppi degli ultimi due secoli, ma almeno qualche impressione superficiale, en passant, sarà consentita.
E allora, a vedere la nostra storia da quest’ottica, ossia ‘dal basso’ delle città, c’è da chiedersi ad esempio, tra i mille quesiti che si pongono, se il sistema elettorale maggioritario dell’Ottocento utilizzato sino al 1913, a due turni ma senza due partiti, non sia stato adattissimo a questo ‘sistema di città’ rimaste ‘sovrane’ nella memoria. Con una ‘coda’ di curiosità: fino a che punto l’attuale recupero del maggioritario ‘debole’ e dei vari federalismi non sarà anche un recupero di queste tradizioni dopo che partiti e sindacati nazionali avevano tentato di sovrapporsi e di scompaginare o limitare il monopolio o comunque il privilegio delle élites locali?
Se l’attuale, imperfetto, maggioritario, non ha migliorato affatto la qualità della rappresentanza politica – è uno dei pochi dati di fatto sui quali c’è unanime sentire nel Paese –, né esso è stato sentito come un’innovazione traumatica a livello locale (altro discorso andrebbe fatto com’è noto a livello nazionale, delle segreterie dei partiti), non sarà perché la rappresentanza politica cosi articolata ha consentito la prosecuzione del solito rivendicazionismo contrattualistico dell’antica tradizione urbana?
Insomma, c’è da chiedersi se nelle richieste di puntare tutto sulle città – come ad esempio vien fatto da parte di sindaci autorevoli come Bassolino e Cacciari – non riemerga proprio, dopo un periodo di eccezionale compressione, la città sovrana del passato.
Già ‘del passato’: ma non è fino a ieri che le città hanno accumulato debiti scaricandoli irresponsabilmente sulla contabilità nazionale? La città non è stata fedele al suo passato, imponendo governi centrali debolissimi, gestori e mediatori dei vari particolarismi (tra l’altro) urbani?
L’‘unum corpus’ urbano della tradizione, comunque, in alcune realtà forse ha già vinto. Non può più (forse) fare debiti irresponsabilmente, ma la legge recente ha attribuito poteri vastissimi ai sindaci, che sconvolgono ogni ‘par condicio’ a livello locale, sia perché hanno messo sostanzialmente al loro servizio – cioè di loro e dei loro fedeli – centri talora sostanziosissimi di potere sconosciuti in altri Paesi, si pensi alle banche pubbliche; sia perché tutto ciò è avvenuto senza che si creassero controlli o esistessero contrappesi e pluralismi socio-economici adeguati – per di più in un Paese in cui i ‘media’ continuano ad essere di assai dubbia indipendenza.
I sindaci tornano così a esprimere élites locali di vario genere già forti, ma che diverranno assai più forti e stabili che in passato con i nuovi poteri ricevuti — o non sarà meglio dire ‘recuperati’?
Oggi sembra trionfare la città più che la Regione o la Provincia (che è sempre stata semplicemente una proiezione della città capoluogo, ma che ha proprio perciò, tutto sommato, più tradizione delle Regioni), ma quella che trionfa è la città della tradizione non già medievale, ma di quella ‘moderna’, e nel bene e nel male, ossia con un’identità civica più o meno forte, ma priva della prassi della larga partecipazione politica.
La città è rimasta piuttosto un centro legato ai privilegi, alla chiusura localistica, alla discriminazione delle minoranze, alla prepotenza consolidatasi nell’età moderna con l’occupazione totale delle opportunità e delle risorse pubbliche. Ex post, di fronte a questi revival cittadini, si può forse azzardare che il (debole peraltro) liberalismo del Risorgimento, l’interventismo della prima guerra mondiale, le guerre ideali, di Spagna, di Salò e della Resistenza, insomma i vari momenti di una identità collettiva più larga e talora ‘nazionale’, siano stati soltanto parentesi rispetto alle più radicate, indelebili e impermeabili identità cittadine, persistenti sui tempi lunghi e quindi risultanti soltanto compresse o indebolite per brevi periodi.
Perciò ora le città sono pronte a riprendere il loro ruolo di fronte alla crisi delle istituzioni centrali e regionali, nonché dei partiti e dei sindacati nazionali e dei loro disegni. Con quali vantaggi e con quali pericoli – viste le premesse storiche – è facile intuire, perché il problema è che se mai andrebbe recuperata una certa città medievale anziché quella ‘moderna’!
Certo, oggi che, al di la dell’egualitarismo formale giuridico, di scuola, siamo ripiombati nel più intricato particolarismo, diverso ma analogo a quello d’Ancien regime, con contrasti vivissimi tra Nord e Sud, tra parti ricche e povere dell’una e dell’altra area, tra le varie aree e categorie assistite oppure concorrenziali eccetera, e che andiamo verso quel particolarismo anche più accentuato che il potere centrale sarà costretto a promuovere in via compromissoria, sarà bene porsi qualcuno di questi problemi: tutti con robuste radici assai risalenti”.
(2/2. Fine)

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