Intervista a cura di Gianni Sestucci
Il dibattito sulla questione meridionale, dopo molti libri e pamphlet tendenti a rivalutare il periodo borbonico, si è arricchito in questi mesi di un’opera preziosa e importante: Perché il Sud è rimasto indietro di Emanuele Felice. Il libro affronta la tematica della questione meridionale partendo da cifre e dati statistici per poi elaborare una visione complessiva dello svantaggio, economico ma anche sociale, accumulato dalle regione meridionali.
Abbiamo intervistato l’autore, Emanuele Felice, professore di storia economica all’Università Autonoma di Barcellona, che sviluppa un’idea forte nella sua opera: l’arretratezza del sud è colpa, principalmente, delle classi dirigenti meridionali che non hanno contribuito alla modernizzazione che invece si è realizzata nel nord Italia.
“Chi ha soffocato il Mezzogiorno sono state le sue stesse classi dirigenti – una minoranza privilegiata di meridionali – che ne hanno orientato le risorse verso la rendita più che verso gli usi produttivi, mantenendo la gran parte della popolazione nell’ignoranza e in condizioni socio – economiche che favorivano i comportamenti opportunisti” [E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 12]
– Una domanda preliminare: nel libro lei cita molti dati relativi alla seconda metà dell’Ottocento, le fonti dell’epoca sono attendibili e affidabili?
Alcune lo sono: quelle sull’alfabetizzazione e la scolarità, o sulle infrastrutture, o anche quelle che permettono di stimare la speranza di vita. Altri dati a quel tempo non esistevano e abbiamo dovuto ricostruirli noi storici economici: come il Pil, la povertà… lì i margini di incertezza sono molto ampi.
– Lei afferma che la rottura nord/sud sia avvenuta tra metà del 1700 e il 1861: può spiegarci come si è caratterizzata questa divergenza?
È stata, nella sostanza, una divergenza negli ordinamenti politici (che sono rimasti repressivi al Sud, mentre diventavano “liberali” al Nord) e negli indicatori sociali (alfabetizzazione, ma più in generale le condizioni di vita delle classi più umili: queste hanno visto una crescente polarizzazione della ricchezza al Sud, a differenza che al Nord). Ne sono risultate istituzioni estrattive nel Mezzogiorno, inclusive nel Centro-Nord. Poi l’Unità, che poteva essere un’importante occasione di rottura, non ha migliorato le cose ma per certi versi le ha peggiorate.
– Secondo i suoi studi, al momento dell’unificazione esisteva, dal punto di vista economico e sociale, un netto divario tra il Regno delle due Sicilie e il centro-nord?
Le differenze nel reddito erano tutto sommato modeste e sarebbero aumentate in seguito; questo perché l’Italia intera era ancora un paese povero, che doveva industrializzarsi. Quelle negli indicatori sociali e nelle pre-condizioni dello sviluppo (infrastrutture di trasporto, credito, capitale umano, istituzioni) erano invece già profonde.
– Un concetto fondamentale, che riemerge spesso, è quello della “modernizzazione passiva”: al sud le riforme vengono imposte dall’esterno.
Esattamente. Al Sud le classi dirigenti locali non si fanno promotrici attive del cambiamento (economico, sociale, culturale), perché questo metterebbe in discussione i loro privilegi. Devo però inevitabilmente farci i conti (si pensi al Gattopardo) e quindi vi si adattano in qualche modo, cercando di mantenere l’estrazione della rendita e di limitare l’ascesa sociale e politica delle classi subalterne. Risultato: la modernizzazione che ne risulta è incompleta, fragile, sbilanciata.
– Negli oltre 150 anni d’Unità, certamente le classi dirigenti nazionali hanno commesso degli errori nella gestione delle risorse e del capitale umano presenti nel sud Italia. A suo avviso, quali sono stati i più gravi?
Ce ne sarebbero davvero molti: la repentina estensione, nel 1861, della tariffa libero-scambista al Sud (che pure però, va ricordato, se danneggiò l’industria, giovò agli agrari); l’avere deciso, subito dopo l’Unità, che il finanziamento della scuola pubblica dovesse darsi su base locale, cosa che durò fino al 1911 e rallentò la diffusione dell’istruzione al Sud; la mancata riforma agraria, già nell’Ottocento; sempre nell’Ottocento, la tassazione sul consumo anziché sulla rendita (che pure giovò agli agrari del Sud); la battaglia del grano fascista; il fatto di non aver voluto sconfiggere le mafie, perché parte integrante di un compromesso di potere fra le classi dirigenti del Sud e quelle nazionali; l’avere inquinato, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, l’azione della Cassa per il Mezzogiorno con il clientelismo politico.
– Lei definisce la Cassa per il Mezzogiorno come “la più imponente politica di sviluppo regionale realizzata in tutto l’Occidente”. Un grandioso sforzo economico che però non ha portato i risultati che ci si aspettava: a causa dell’atteggiamento passivo del sud o sono stati fatti errori nella programmazione e gestione della Cassa?
Per i primi 15-20 anni la Cassa ha funzionato, tutto sommato, abbastanza bene: era improntata a criteri di autonomia dal potere politico. Poi, è stato dato alla politica locale un crescente potere di ingerenza, e tutto si è perduto in rivoli clientelari (e in alcuni casi i finanziamenti sono andati perfino a ingrassare la criminalità organizzata). Ciò detto, vi è stata anche un po’ di sfortuna, ovvero la crisi del modello industriale energy-intensive negli anni settanta (per l’impennata dei prezzi del petrolio), che era stato pensato per il Mezzogiorno; crisi che ragionevolmente non si poteva prevedere. Ma vi fossero state classi dirigenti locali e nazionali più responsabili, anche dopo la crisi si sarebbe potuti ripartire, elaborando un nuovo modello di sviluppo (ma soprattutto, facendolo funzionare).
– La resistenza alla modernizzazione è stata una scelta delle classi dirigenti locali ma queste “sono supportate dal sentire generale delle popolazioni”. A lungo andare, è evidente che le classi dirigenti siano rappresentative delle popolazioni che le eleggono, o almeno non troppo differenti. C’è quindi una responsabilità diffusa nella situazione di arretratezza del sud che è, ovviamente, difficile da affrontare, soprattutto a livello politico. In un’intervista, lo storico ed esperto di sud, Francesco Barbagallo mi disse che “a Napoli il 90% della società civile è incivile”. Lei non sembra così drastico nel giudizio.
Non lo so. Non so quanta parte della società napoletana sia incivile. Certo è meno civile che, ad esempio, in Emilia-Romagna (o almeno lo è stata), ma le peggiori condizioni economiche e sociali incidono sicuramente su certi comportamenti. Sono aspetti che si alimentano a vicenda. Il punto non è tanto questo. Il punto è che la democrazia di massa – la grande novità politica del Novecento – nel Sud Italia si è realizzata ed espressa in forma clientelare. Vi è stata una “perversa democrazia del consenso”, cui ha partecipato anche una parte consistente delle classi subalterne meridionali, in buona parte perché non aveva scelta: ne ha ricevuto in cambio qualche briciola, i rimasugli della modernizzazione passiva, in alcuni casi anche copiose briciole − un po’ di reale benessere materiale. Ma non va dimenticato che vi è una parte almeno altrettanto consistente, se non maggiore, che a questo sistema non ha partecipato: o votando contro i partiti clientelari, oppure emigrando.
– Pino Aprile è stato solo la punta dell’iceberg di una fiorente saggistica neoborbonica, con la quale lei si confronta nella sua opera. Quali sono i punti assolutamente inaccettabili di questo tipo di saggistica e come la giudica? Dal mio punto di vista, queste opere rischiano di essere pericolose in quanto il messaggio, esplicito ed implicito, è che gli abitanti del sud non solo non hanno colpe ma hanno addirittura dei crediti da esigere nei confronti del resto d’Italia. Rendersi conto del problema, invece, è sempre il primo passo per poterlo risolvere.
Per me, il punto assolutamente inaccettabile è che queste opere propongono una visione distorta della storia, strumentale alle loro tesi politiche: con toni scandalistici e volutamente esagerati riescono a vendere molte copie, ma al fondo non fanno che speculare sulle tragedie. Questa è un’operazione eticamente vergognosa, che noi storici abbiamo il dovere di denunciare per quello che è, anche al grande pubblico. È una forma di imbarbarimento del discorso culturale sul Mezzogiorno. Ad esempio, Terroni di Pino Aprile si apre (è proprio la prima frase) in questo modo: “Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i tedeschi fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni”. Ora, è vero che vi furono due stragi effettivamente paragonabili a quelle di Marzabotto, lo ricordo anch’io nel mio libro, ma due furono, compiute entrambe nell’agosto 1861. Non furono “tante”, non si ripeterono “per anni”. E, sempre stando a quel che la ricerca storica ci ha consegnato, tutte le vittime di quella guerra civile che va sotto il nome del brigantaggio ammontarono, in dieci anni, a circa ventimila (non furono centinaia di migliaia). Oppure vi è l’affermazione – del tutto priva di fondamento – che il Sud borbonico forse la terza potenza economica d’Europa. Perché queste esagerazioni gratuite e false, a chi giova tutto ciò?
Giova forse all’autore, proprio grazie a toni così sensazionalisti, ma falsi, Terroni è diventato uno straordinario best-seller. Di sicuro non giova ai meridionali, dato che invece un discorso di questo tipo finisce per assolvere le classi dirigenti meridionali, che invece hanno la gran parte delle colpe e soprattutto hanno il dolo, addossando invece tutta la responsabilità sul Nord. Ma come lei giustamente scrive, rendersi conto del problema è il primo passo per risolverlo.
– È quasi obbligatorio concludere con le prospettive per il futuro, lei non sembra ottimista e vede come “prospettiva più probabile” quella di un sud che continua nell’immobilismo. La questione meridionale non sembra essere tra i punti principali dell’agenda di governo…
È vero, non sono ottimista. Ma potrei essere smentito. Intanto, come si diceva, si tratta di restituire al Mezzogiorno una narrazione veritiera della sua storia e, mi si consenta il termine, anche del suo fallimento, la quale è l’indispensabile premessa di un possibile riscatto. Nel suo piccolo, mi sembra che il mio libro sia riuscito a riaprire il dibattito sulla questione meridionale e sull’inadeguatezza delle classi dirigenti: sta dunque cogliendo nel segno. Di energie positive ce ne sono ancora molte nel Sud Italia, bisogna solo riuscire a indirizzarle bene.
Per il resto, non mi preoccuperei molto del fatto che il Governo non parla di Mezzogiorno: veniamo da quarant’anni in cui la classe politica ha parlato molto e ha fatto poco. Pur premesso che lo stato nazionale ha ora meno margini che in passato, alla fine conterà quello che il Governo saprà fare. Anche se… di concreto per il Mezzogiorno finora non ho ancora visto nulla.
[Cfr. http://www.radiovaldarno.info/wordpress/perche-il-sud-e-rimasto-indietro.html]
Secondo me il SUD è rimasto indietro perché il Nord sin dall’inizio come Piemonte si è comportato da conquistatore senza scrupoli: faccio un esempio; nel sud la maggior parte dei terreni coltivabili era pubblica a servizio della popolazione che poteva coltivarla e mangiare; arrivati i Piemontesi questi terreni furono assegnati a quei nobili che si erano schierati contro i Borboni, per cui a la gran parte della popolazione rimase all’asciutto ed alla fame: così sorse la mafia come tentativo di sopravvivenza per la maggior parte del piccolo ceto.
Ariel Paggi
Gent.mo Paggi,
ci sono ragioni e verità storiche in quel che dice. Ma il ruolo “conquistatore” e “sfruttatore” del Nord è solo una faccia della medaglia. L’altra è data dalla passività e dal gattopardismo del Sud, che emerge anche dal libro di Felice. La genesi della mafia attinge, in parte, a questo rovescio della medaglia. Resta vero, però, che la mancata azione radicalmente riformatrice dei governi del giovane Regno d’Italia decretò poi successo e consolidamento della mafia. Dal canto suo, poi, la camorra è nata nelle carceri borboniche molti decenni prima del 1861. Anche qui, le modalità di annessione alimentarono poi la diffusione di un fenomeno pregresso, che assunse connotazioni apertamente anti-statali e/o parassitarie nei confronti della stessa neonata macchina statale unitaria. Detto ciò, e ribadito che il passato ha un indubbio peso, non si può negare che il Sud ha avuto dal secondo dopoguerra in poi alcune occasioni di rilancio economico e sociale, non ultimo le ingenti risorse provenienti dai fondi strutturali europei, ora non spesi ora mal spesi. Ma il rovescio della medaglia ha anche lì giocato il suo ruolo.
Cordialmente,
DB
Gentile professore,
inutile dire che, da palermitano, sono contento che Lei si occupi di un tema di difficile analisi come quello della (presunta) “questione meridionale”.
Non senza validi motivi, in un’intervista il prof. Lupo dell’Università di Palermo qualificò come “revisionismo spicciolo” tutta la serie di scritti del dibattito storico attuale circa l’argomento. Del resto, a suo tempo, importanti personaggi della scena politica italiana, quali Salvemini e Nitti, evidenziarono già nell’immediato periodo post-unità tutte le differenze, non solo economiche, ma soprattutto culturali e sociali che rendevano il Sud un territorio in cui l’arretratezza culturale era destinata ad ampliarsi. Salvemini, ad esempio, nelle sue analisi sul mondo scolastico e universitario evidenziava un clientelarismo che avrebbe portato alla rovina i migliaia di giovani meridionali… Per anni sono stato convinto che lo storico di Molfetta avesse ragione. Ora, lo sono ancor più. Se qualche possibiltà di “riscatto” possiamo avere, noi “meridionali”, è quella di investire molto di più in cultura, a partire dalle scuole. L’arretratezza economica non ne è che un riflesso… non me ne voglia il buon Marx.
La ringrazio sempre molto.
Cordiali saluti,
Fabrizio Catania
Caro Fabrizio Catania,
la cultura come investimento è un buon punto dipartenza. È di oggi la notizia dell’arresto a Napoli di una trentina di persone accusate di aver percepito indebitamente pensioni di invalidità. Sono stati sequestrati beni del valore di 1,3 milioni di euro. Paiono implicati anche funzionari pubblici compiacenti. Questo tipo di notizia è ricorrente. Indubbiamente provenienti con assai maggior frequenza dal Sud d’Italia. Ahimè, una “cultura” c’è: dell’illegalità, del “fotti lo Stato”. Le radici storiche sono lontane e profonde. In queste settimane circola nelle sale italiane la versione restaurata del capolavoro di Visconti, “Il Gattopardo”, sublime traduzione cinematografica del grande omonimo romanzo di Tomasi di Lampedusa. Qui, come nel film, vi sono dialoghi e vere e proprie sentenze che inducono ancora oggi a riflettere, ben oltre la letteratura, sul rapporto tra l’Italia unificata e la Sicilia, in particolare, la “sua” Sicilia, che è sì Meridione ma anche altro e oltre rispetto ad esso. Lo so, ma in questo caso è paradigmatico per un’intera area della nostra nazione. Oltre la letteratura e il cinema, dentro la storia, la nostra storia, dentro la politica, la nostra politica. Cito, per il momento, una frase dal romanzo:
“In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso”.
Un caro saluto, e grazie
DB