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Liberalismo e aristocrazia: binomio antico o futuro? /1

“Il liberalismo – è necessario oggi ricordarlo – è la generosità suprema: è il diritto che la maggioranza concede alle minoranze ed è dunque il più nobile appello che sia mai risuonato nel mondo”. Così José Ortega y Gasset nel 1930, nel suo celebre scritto La ribellione delle masse. Se qualcosa di certo ci dice questo avvio di terzo millennio è che in Occidente lo stato di salute delle democrazie liberal-costituzionali non è buono. Al di là degli specifici problemi di ciascun Stato-nazione, tra Europa e Stati Uniti, includendo magari anche il Giappone, appare evidente come le loro classi politiche stiano da decenni subendo un processo di livellamento verso il basso, sia in termini di capacità e competenze sia, e soprattutto, in termini di moralità. Corruzione e scarso senso del bene comune ammorbano le nostre democrazie, come ci ricordano quotidianamente i cosiddetti organi di informazione: tv, radio, carta stampata e adesso anche internet e i vari social media. È importante anzitutto chiarirsi un po’ le idee e comprendere che i sistemi politici nei quali viviamo sono l’esito di un intreccio, a lungo virtuoso, tra gli istituti di garanzia previsti dalla dottrina liberale e gli istituti miranti all’inclusione secondo quanto rivendicato dalle teorie democratiche.

Per sviluppare tale riflessione prendo spunto da alcuni scritti di Francesco Maria De Sanctis, storico e filosofo del diritto, a lungo rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e in seguito presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, il quale ha proposto qualche anno fa un originale ripensamento ab imis del liberalismo contemporaneo. Egli ha cercato appunto di rintracciarne elementi costitutivi andati perduti in quel connubio tra liberalismo e democrazia, di cui non si nega l’originaria virtuosità e fecondità non potendo però non constatarne la sopravvenuta sclerosi e involuzione lamentata in questi ultimi anni. In Italia e non solo. È per questo motivo che il liberalismo cui De Sanctis fa riferimento non è quello che sul piano teorico e storico-pratico ha cercato l’integrazione con la democrazia, bensì proprio quello anti-democratico, «quello che vede nella democrazia una deriva storico-politica che va arginata, dominata e corretta in vista di una giusta ripartizione di oneri e responsabilità politiche che non possono competere a tutti e che, allo stesso tempo, non sono “privilegi” ma doveri imposti dalle stesse capacità e competenze che distinguono».

Il tentativo qui perseguito nasce come una sorta di provocazione, intelligente e salutare, da parte di uno studioso sia convinto dei meriti della democrazia, e dei suoi irrinunciabili vantaggi, sia della discontinuità tra antico e moderno. Questo per dire che De Sanctis non intende tanto stabilire analogie od omologie tra un liberalismo antico ed uno moderno, anche e soprattutto perché non sarebbe possibile parlare di un liberalismo antico al pari di come è stato invece fatto con il costituzionalismo, con assai maggior fondatezza storica e costrutto concettuale. La nozione di liberalismo prende vita e consistenza in corrispondenza del sorgere dell’età moderna, in quell’epoca della storia europea nella quale si precisa una domanda di “libertà” all’interno di un ambito sociale e istituzionale dove si stagliano due figure in potenziale e poi effettivo diuturno conflitto: lo Stato e l’individuo, l’uno specchio e nutrimento dell’altro. Dalle reciproche relazioni etiche, politiche, culturali, economiche e giuridiche ha preso forma la politica moderna, che si è poi estesa fin là dove l’imperialismo europeo è giunto con le sue armi e le sue merci.

L’operazione di De Sanctis consiste piuttosto nell’esaminare in profondità alcuni lemmi e sintagmi greci, presenti in testi significativi dell’epoca della crisi della democrazia antica, cogliendo nei loro significati originari tutta quella complessità che il pensiero moderno ha rimosso od occultato. Si è conseguentemente perso la deontologia inerente a quei lemmi e sintagmi. Lo scopo di una simile operazione intellettuale non è tanto disseppellire reperti linguistici e semantici per lo sterile gusto dell’erudizione e nemmeno per concludere che gli antichi sono superiori ai moderni, affermazione tanto roboante quanto astratta e inconcludente. De Sanctis vuole anzitutto «problematizzare […] la tradizione moderna» e un ritorno agli antichi può avere questa benefica valenza.

Domanda: qual è l’essenza dell’antichità, specialmente greco-latina? Risposta: la dimensione aristocratica. L’esperimento intellettuale tentato da De Sanctis rimette in circolazione la locuzione “liberalismo aristocratico”, storicamente non così distante, dal momento che la storiografia è solita adottare tale locuzione per indicare la riflessione di autori come Constant, Guizot o Tocqueville, non a caso frequentemente richiamati in queste pagine. Per la precisione, va notato che De Sanctis ritiene che tale denominazione sia usata sovente in modo improprio, specialmente per un autore come Tocqueville, convinto che aristocrazia e democrazia siano radicalmente antitetiche e l’una sia stata storicamente soppiantata dall’altra.

De Sanctis si distanzia allora dal grande pensatore normanno, recuperandone alcuni suggerimenti metodologici come quello che invita a distinguere fra nobiltà e aristocrazia, e risale indietro fino a Platone, per lavorare intorno all’idea di competenza intesa come «capacità più scienza». È a questa che si riduce il concetto liberale di aristocrazia inteso e proposto dall’ex rettore del Suor Orsola, un’aristocrazia che dunque non ha niente a che vedere con l’elogio della nobiltà né quindi con la discriminazione per nascita o per censo (e qui sta la differenza rispetto allo stesso liberalismo del primo Ottocento). Una “riduzione”, si badi bene, che non è una diminutio capitis, ma piuttosto una riconfigurazione pertinente e una riattualizzazione a fini operativi.

De Sanctis non intende fare un discorso strettamente storiografico, piuttosto vuole elaborare materiali concettuali da proporre alla teoria democratica contemporanea che potrebbe giovarsi del contributo di un liberalismo anti-democratico nella misura in cui questo agisce, per così dire, da “depurante” e “corroborante”. Non a torto l’Autore sottolinea come dietro espressioni più rassicuranti quali “élite”, “classe dirigente”, “classe politica” e simili, si celi un sottile desiderio, una velata nostalgia, per una richiesta di leadership che sia al contempo virtuosa e generosa, esercitata al meglio grazie a capacità e competenze “superiori”, tali però da non indurre il leader a perseguire mere ambizioni personali e a mostrare arroganza, dovendo restare il fine primo ed ultimo del governo la “cosa comune”, la res publica. L’essere “migliore” non consiste infatti nel solo possesso di qualità personali al di sopra della media dei propri concittadini. I “migliori” risultano coloro che sanno imporre a se stessi l’obbligo di guardare più al servizio che al potere. Ciò richiede «la difficilissima autovalutazione della propria attitudine alla serietà radicale della vita politica, dovendo decidere di considerarsi pronto e preparato a governare gli altri». E nel farlo, emerge una qualità specifica del liberalismo propriamente tale, quello poi sorto in età moderna: la volontà di convivenza.
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