Vorrei tornare su alcune osservazioni proposte da Danilo Breschi nella sua recensione al volume da me curato: Utopia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica (il Mulino, Bologna 2013). Nel ricordare la distinzione di Karl Mannheim tra ideologia e utopia non intendevo connotare la seconda come assolutamente positiva, solo perché portatrice di istanze volte alla trasformazione radicale dell’ordine dato. Al contrario, in più passaggi ho cercato di sottolineare che in molti casi, nel corso della storia, le utopie rivoluzionarie o presunte tali si sono trasformate in distopie, come il Novecento ci ha abbondantemente mostrato con la tragica esperienza dei totalitarismi.
Ciò che mi premeva sottolineare è che, nonostante la sua ambiguità e la sua ambivalenza intrinseca, il concetto di utopia non può essere rifiutato tout court. L’utopia, infatti, può essere intesa come l’espressione di una delle caratteristiche fondanti dell’esistenza umana, la possibilità cioè di pensare una realtà altra rispetto a quella esistente (la letteratura è la rappresentazione plastica di questa istanza): si tratta di esercitare la propria libertà non per modificare il reale alla luce di un modello di perfezione verso cui tendere, ma perché lo si considera sempre provvisorio in linea di principio.
È quindi la dimensione progettuale dell’utopia che, a mio parere, dovrebbe essere recuperata da parte di una riflessione filosofica e politica che guardi al mondo non con le lenti della necessità, ma con quelle della libertà e della contingenza. Una progettualità innovativa e non dogmatica, capace di evitare tanto una giustificazione dell’esistente quanto una sua critica senza riserve, che condurrebbe a esiti nichilistici.
Carlo Altini
Direttore scientifico Fondazione Collegio San Carlo di Modena
Caro Carlo, non trovo miglior risposta di quanto ebbe a scrivere nel 1995 il mio concittadino Roberto Carifi (“Utopia” in Le parole del pensiero, Firenze, Le Lettere, pp. 113-114):
“Diceva Hegel che il destino degli utopisti è diventare esecutori di condanne a morte. Quando si richiamano Robespierre o Pol Pot vorrebbero incarnare l’Angelo nello stato, fare della purezza un’istituzione, nella pretesa “qu’il faut tuer l’homme ancien pour faire naitre l’homme nouveau, qu’il faut du passé faire table rase. […] (C. Jambet, G. Lardreau, Le Monde, Paris 1978). […]. Viceversa gli utopisti come Rousseau o Bernardin de Saint-Pierre si limitano a trasferire altrove la loro vocazione angelica (la roussoiana “volupté d’ange“), sognano un’armonia che non è qui, che appartiene all’infanzia dell’umanità oppure a un regno dove l’umanità è un’altra cosa. Le loro utopie non uccidono l’uomo vecchio per sostituirvi quello nuovo, piuttosto esorcizzano le manchevolezze della vecchia umanità esiliandola e tendendola a distanza in questo mondo a cui oppongono il semplice augurio di un altrove. Non cercano la trasparenza negli stati e nella società, ma in quella terra di nessuno che hanno convenuto di chiamare natura. Perfino Rousseau, che a differenza del suo discepolo Bernardin si occupava seriamente di società e di stati, era lontano dal credere alla possibilità di renderli perfetti, era abbastanza pessimista da convincersi che la perfezione può trovarvi tutt’al più da un’altra parte. Si dice che Robespierre tenesse Il contratto sociale sul comodino. Se l’avesse letto bene avrebbe dovuto trovarvi, anziché i fondamenti del Terrore, i terrori del povero Rousseau, lo spavento che lo faceva disperare di questo mondo e di questa storia. Non sembri paradossale, ma gli utopisti di cui parlava Hegel, convinti che basti tagliare qualche testa per rifare il mondo, sono inguaribili ottimisti, comunque figli di quei lumi che Rousseau vedeva già con il senno di poi, fiaccati e spenti da quella malattia che scivola presto nelle vene del progresso. Veri utopisti sono quelli che condannano a morte solo se stessi, uomini postumi, in anticipo sul loro tempo, arretrati rispetto a qualunque tempo reale, contemporanei di nessuna umanità perché la pensano sempre dislocata in quel “nessundove senza negazioni” di cui canta una splendida elegia di Rilke.
Come vedi, caro Carlo, una possibile risposta ma anche un nuovo potenziale fronte di discussione, per me, per te e per chi vorrà intervenire.
Grazie ancora. Un caro saluto.
DB