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Charles Maurras e le destre di Francia

Domenico Fisichella, La democrazia contro la realtà. Il pensiero politico di Charles Maurras, Roma, Carocci, 2006

Come ogni buon libro di saggistica, anche quello che Domenico Fisichella ha dedicato allo studio del pensiero politico di Charles Maurras offre molto più di quanto si possa intuire dal titolo e aiuta ad indagare l’attualità. La scelta del personaggio, sotto molti aspetti cruciale nella storia politica di Francia, consente infatti all’autore di affrontare la più ampia tematica della cultura politica controrivoluzionaria che nella nazione transalpina ha ovviamente il suo luogo di origine e di maggiore sviluppo. Noto è poi come correnti storiografiche più recenti abbiano ravvisato proprio in quell’ambiente politico-culturale la prima matrice del pensiero rivoluzionario-conservatore novecentesco e persino dell’ideologia fascista. Estremamente cauto su quest’ultimo punto, Fisichella preferisce concentrarsi sul concetto di destra contestualizzandone genesi e contenuti, secondo un approccio insieme storico e analitico.

Dicevamo del ruolo “cruciale” del pensiero e dell’opera di Maurras. Egli è in effetti l’autore che forse più di altri può aiutare lo studioso a cogliere la dimensione plurale della destra francese, collocandosi «alla convergenza dilemmatica tra molte destre». Si è soliti infatti riflettere e discutere a proposito della travagliata storia delle sinistre, molteplici e tra loro confliggenti, spesso generatesi da scissioni interne secondo un costante e periodico processo di scavalcamento “a sinistra”, in nome di una rivoluzione che si pretende “presa più sul serio” di quanto abbiano fino a quel momento fatto gli altri compagni, rinnegati proprio a causa di questa presunta moderazione. Un’analoga pluralità polemica e rissosa caratterizza la storia delle destra europea, e in Francia molto più che altrove.

Il volume si apre così con una rapida ma efficace rassegna delle varie destre transalpine che si sono succedute nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento, senza esser mai riuscite a fondersi insieme, se non per un breve momento attorno ai primi anni Trenta in virtù dell’attrazione esercitata dal fascismo italiano e dal desiderio di emularlo. Quanto accadde a Vichy, secondo molti studiosi, apparterrebbe invece alla sfera della contingenza e della costrizione imposta da eventi bellici, piuttosto che ad una logica di convergenza ed amalgama ideologica o di volontaria aggregazione politico-elettorale.

Le destre che si manifestarono in Francia dopo la Rivoluzione del 1789 risentirono del disorientamento di una monarchia scossa nelle sue fondamenta di legittimità ed effettività, e costituirono altrettanti tentativi di risposta alla ricerca di un’identità monarchica perduta o alterata. Il primo grande filone della destra francese fu l’oltranzismo monarchico (ultra-royalisme, o ultracisme) che a sua volta germinò quasi subito il legittimismo. Il passaggio fu nel segno dell’ammorbidimento di alcune intransigenze, dal momento che la Restaurazione non fu, non poté, essere completa e un residuo parlamentaristico permase. Il successo che arrise agli ultra-royalistes nelle prime elezioni dell’agosto 1815 della Camera della monarchia restaurata di Luigi XVIII (ben 350 deputati su 392 seggi da attribuire) fu motivo di lento ma irreversibile attaccamento, o quanto meno di crescente attenzione, verso i meccanismi e le opportunità dell’azione parlamentare. Tra 1816 e 1820 il regime parlamentare penetrò così gradualmente nei costumi politici nazionali, destra legittimista compresa. Questa si costruì attorno al concetto di “ordine naturale” contrapposto a quello di rivoluzione, perché il primo era sinonimo di stabilità mentre il secondo foriero di disordine e anarchia. In questo ordine naturale rientravano il cattolicesimo, talora innervato di aspirazioni gallicane, le istituzioni temprate e collaudate dalla durata storica, a partire dalla monarchia, e quindi la famiglia, cellula fondamentale della società e prima istituzione capace di garantire stabilità e prosperità. Forte l’avversione del movimento legittimista nei confronti del centralismo statale, in quanto eredità del periodo rivoluzionario.

Le alterne fortune dell’istituto monarchico francese post-rivoluzionario determinarono la nascita dell’orleanismo, movimento sorto dalla cosiddetta Rivoluzione di Luglio e dal conseguente avvicendamento tra i Borbone e il ramo cadetto degli Orléans. Peculiarità dell’orleanismo, debitore in ciò dell’elaborazione dei dottrinari costituzionali dell’età della Restaurazione, è il sostegno ad un sistema stabilmente incardinato sull’equilibrio fra due istituzioni: monarchia e parlamento. «Il re non è più l’unto del Signore ma il primo magistrato dello Stato», e il parlamento è il luogo deputato alla composizione dei conflitti tra i gruppi sociali e le opposte tesi politiche, secondo il principio-guida del juste milieu. Fisichella sottolinea a ragione le forti analogie fra l’orleanismo e il gruppo dei cosiddetti monarchiens all’Assemblea Nazionale nell’estate del 1789. Comune è il disegno di mantenere l’istituto monarchico attraverso l’innesto di una costituzione di tipo inglese, in modo da prevenire modifiche più radicali grazie ad un’affermazione costituzionale del primato regio all’interno di un regime di equilibrio fra poteri di diversa composizione sociale e legittimazione politica. Fisichella definisce perciò l’orleanismo una «destra liberale, destra moderata, sollecita della libertà politica»”, che aveva nella grossa borghesia della proprietà fondiaria e immobiliare il proprio gruppo sociale di riferimento.

Il crollo della monarchia orleanista e l’avvento di una repubblica democratica, la seconda in Francia dal 1789, presto fagocitata dal plebiscitarismo autoritario di Luigi Napoleone Bonaparte, genera un’altra destra che va ad affiancarsi alle precedenti: il bonapartismo, appunto. L’esito catastrofico del Secondo Impero e l’avvento della Terza Repubblica scompagina il quadro politico e culturale, e le destre orfane dell’istituto monarchico faticano a dialogare con un bonapartismo che evoca riferimenti egualitari e democratizzanti, come il plebiscito e il suffragio universale. Il nazionalismo, nato a sinistra come patriottismo rivoluzionario, diventa a fine Ottocento il collante di queste destre, ma sempre in modo parziale e temporaneo. Ed è proprio in questo contesto politico e culturale di arretramento e difficoltà delle destre che Maurras inserisce la propria riflessione. È proprio all’interno di «due grandi crisi», quella delle destre e quella della Terza Repubblica, che Maurras muove la sua ricerca politica e istituzionale volta a scongiurare una decadenza della Francia che a lui pare ad uno stadio avanzato ma ancora arrestabile. L’orrore della morte dei popoli e delle civiltà è infatti la molla che spinge lo scrittore provenzale a cercare realtà imperiture e le trova nella famiglia, nei corpi intermedi e nella nazione. Convinto altresì che non si diano costumi senza istituzioni, Maurras pone particolare attenzione alle forme di governo della cosa pubblica ed è su questa base che fonda la sua opzione a favore della monarchia.

L’istituto regio è il più affine al modello e alla struttura della famiglia, e come il padre pensa e provvede al bene di tutti i suoi cari così fa il re. Famiglia e monarchia sono istituzioni capaci di filtrare al meglio le passioni umane, di ridurre l’incidenza dell’interesse particolare e di favorire massimamente il bene generale. La non elettività, sostituita dal criterio ereditario, rende il sovrano meno vulnerabile agli umori mutevoli e alle ambizioni sfrenate delle fazioni in lotta, la cui azione semmai stempera in nome del mantenimento di una famiglia, la dinastia, la cui dignità corrisponde a quella della nazione governata. Le pagine con cui Maurras argomenta non solo la sua preferenza ma l’affermazione di una oggettiva superiorità della monarchia ereditaria rispetto alla repubblica democratica non paiono, a dire il vero, convincenti. Dopo averle lette non trova ad esempio confutazione una vecchia obiezione come quella di Benjamin Constant, secondo cui «l’ereditarietà ci presenta soltanto una successione di governanti allevati nel potere, e l’esperienza è quasi superflua per indicarci il risultato di due elementi quali il caso e l’adulazione» (Principi applicabili a tutte le forme di governo, tr. e intr. a cura di S. De Luca, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, p. 66). Fisichella interviene in soccorso, talvolta mescolando le tesi maurrassiane con i propri convincimenti, ma resta l’impressione di una comparazione condotta fra entità non omogenee: da un lato, la monarchia quale modello idealtipico, in cui la storia fa eccezione e le cui caratteristiche sono frutto di deduzione; dall’altro lato, una democrazia repubblicana tutta descritta sulla base della sua fenomenologia, spesso rilevata nei suoi casi patologici, come la tarda Terza Repubblica francese, o nelle gravi disfunzioni odierne che minacciano le democrazie occidentali di derive oligarchiche e tecnocratiche.

Maggiormente persuasive sono invece le distinzioni operate dal Fisichella scienziato della politica a sostegno della tesi secondo cui il regime politico auspicato da Maurras può essere definito un «autoritarismo attenuato», un sistema autoritario «retto a monarchia temperata». Sebbene l’autore precisi che l’intento del libro sia discutere di «teorie politiche e di impostazioni storiografiche», sarebbe stato comunque interessante e fruttuoso per la stessa comprensione delle idee maurrassiane coniugare teoria e storia, narrare e analizzare come e perché, con la seconda guerra mondiale, lo scrittore provenzale pervenne «a scelte contingenti antitetiche rispetto ai convincimenti dottrinali» (il corsivo è nostro). Anche perché una tale diversione rispetto alle teorie politiche fin lì professate potrebbe far dubitare della consistenza delle medesime. A meno che da una disamina più storica e meno filologica dell’opera di Maurras non emergano elementi ulteriori e divergenti rispetto ai molti già colti da Fisichella.