Sulle colonne del “Corriere della Sera” di oggi, 20 novembre, Ernesto Galli della Loggia firma un editoriale sulle “Tante speranze (quasi) tradite”. L’occhiello recita: “Una democrazia da rifondare”. Il riferimento principale è al caso italiano, ma l’editorialista intende fare un discorso più ampio sullo stato generale delle democrazie europee ed occidentali. Galli della Loggia parla infatti di “una nuova fase storica che per la democrazia ha il valore di una sfida”. Questa fase vede la politica democratica contrassegnata dal dilagare di “riti un po’ stucchevoli, di discussioni pompose che preludono di regola a compromessi al ribasso realizzati da figure perlopiù mediocri”, e cita il caso della scialba figura del nuovo presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. Elenca poi altri tratti distintivi di questa fase storica delle democrazie: “il mito della continua crescita economica non è più che un mito; il lavoro sta cessando di avere un valore coesivo tra individui e strati sociali; aumenta sempre più il divario tra chi ha e chi non ha”, e infine c’è la secolarizzazione “che aggredisce alla radice l’intero mondo valoriale e simbolico dei tradizionali rapporti tra gli individui (dalla parentela alla genitorialità)”. In conclusione: “improvvisamente la democrazia si è trovata davanti a un ospite inatteso: la povertà in crescita”. Ecco il tema da discutere. Proviamo almeno ad abbordarlo nei suoi contorni.
Prima della teoria, qui più che mai è il caso di partire dalla storia. Parlo della storia della democrazia, delle democrazie, al plurale, così come queste si sono affermate e consolidate nella realtà, fino a diventare sistemi non solo funzionati, ma anche efficaci ed efficienti quanto basta per catturare un consenso crescente tra le popolazioni che ne facevano parte. Cosicché negli ultimi settant’anni non abbiamo assistito in Europa a quanto accadde al primo germoglio di democrazie, circa cent’anni fa, all’indomani della prima guerra mondiale. Vedasi il caso, esemplare, della Repubblica di Weimar. La stessa teoria ha sostanzialmente avallato cosa le insegnava la pratica, l’esperienza vissuta: la democrazia si afferma e si consolida là dove c’è sviluppo economico, e infine benessere. Ma la teoria ha poi rovesciato la relazione, sostenendo che là dove vi è democrazia, e solo là oppure là più che altrove, può darsi sviluppo economico, sociale, insomma il benessere, secondo tempi e ritmi impensabili per altre tipologie di regimi. Finché è durata la Guerra Fredda e l’antagonista delle democrazie europee ed occidentali era un blocco di Stati a partito unico, dunque dittature più o meno totalitarie, comunque autocrazie, alimentate da economie pianificate e dirette da quello stesso partito-Stato, il binomio “democrazia-crescita economica” pareva incontestabile. USA batte URSS: 3-0. Democrazia capitalista mette ko dittatura socialista. Poi, la svolta è probabilmente avvenuta con la Cina negli anni Ottanta e Novanta, frutto anche delle scelte strategiche di Deng Xiaoping avviate già a fine anni Settanta. Si è coniugato quel che pareva inconiugabile dopo il fallimento dell’impero sovietico: dittatura totalitaria e sviluppo economico.
Già il periodo tra le due guerre aveva presentato un tentativo in tal senso, ma la Germania hitleriana dimostrò infine come il totalitarismo si nutrisse di un’ideologia trainante, oltre che totalizzante, e come questa non potesse non piegare l’economia, pur capitalistica, in direzione dell’industria pesante e della produzione bellica. Lo sviluppo in vista della guerra, insomma, quella stessa guerra che decretò la fine dello sviluppo tedesco, e soprattutto del benessere della sua popolazione. Certo, una vittoria bellica nazista avrebbe forse potuto affermare l’equivalenza dittatura totalitaria = crescita e benessere economico, ma la vittoria degli Stati Uniti affermò invece nel 1945 l’equivalenza contraria: democrazia rappresentativa = crescita e benessere economico (anche se la guerra, ossia lo sforzo bellico, aiutò non poco gli Usa ad uscire dalla grande crisi degli anni Trenta…). Insomma, è stata la Cina comunista di questi ultimi trent’anni che, nonostante Tienanmen, direi confermata proprio da Tienanmen, ha prospettato una nuova formula vincente: l’economia di mercato si attua anche nel socialismo, inteso come sistema che prevede la pianificazione. Il capitalismo si può, anzi si deve, pianificare e sottoporre ad un rigido controllo dello Stato, anzi del partito-Stato. Estrema verticalizzazione e gerarchizzazione del processo decisionale, riduzione a zero di ogni dimensione “discutidora” (dalla cui deriva, scrive Galli della Loggia, la democrazia – italiana, in primis – è stata trascinata e travolta), e dunque nessuna condivisione “popolare” o richiesta di legittimazione “dal basso”, secondo riti e procedure propri dei sistemi rappresentativi, liberali, costituzionali, democratici. Altro che economia sociale di mercato, modello invocato quale fiore all’occhiello delle politiche economiche dell’Unione Europea! Piuttosto, si sta affermando vincente una economia socialista di mercato. Certo, a prezzo di soppressione delle libertà e di violenze di Stato, che proprio i venticinque anni di silenzio dopo i moti di piazza Tienanmen ci confermano come ancora perpetrate quotidianamente e ferocemente nella Repubblica popolare cinese.
Dall’editoriale di Galli della Loggia si solleva dunque questo grande tema, che va ben oltre le considerazioni minime con le quali invece si conclude. Ossia il dubbio amletico se Matteo Renzi sarà o meno il leader capace di operare per l’Italia “una tale opera di rifondazione”, rivitalizzando una democrazia in crisi di identità, di rendimento, e dunque di consensi. Al di là delle effettive qualità personali, che come dice Galli della Loggia sono ancora tutte da vedere, il presidente del Consiglio di oggi, ossia Matteo Renzi, non è per niente diverso da quelli precedenti (a ritroso: Letta, Monti, Berlusconi, Prodi, ecc., ecc.), nel senso che è sempre un presidente del Consiglio (si smetta di chiamarlo “premier” che è il nome del capo del governo inglese, con ben altri poteri e altre istituzioni di contorno!). Voglio dire: un presidente del Consiglio secondo la vigente Costituzione italiana. Insomma: è come se si fosse chiesto a Perseo di sconfiggere la Medusa, dallo sguardo pietrificante, senza lo scudo a specchio di Atena, l’elmo di Ade, la sacca magica e quel falcetto di diamante affilatissimo, dono di Mercurio. Al massimo Renzi possiede i sandali alati, che per tagliare la testa alla Gorgone sono importanti ma non essenziali. E rafforzare l’esecutivo e stabilizzare e fluidificare il processo decisionale non vuol certo dire trasformare la nostra democrazia in una pallida remota imitazione della dittatura cinese, o di altra monocrazia a giro per il mondo. Non scherziamo! Altrimenti dovremmo ritirare la patente di democrazia a Stati Uniti e Gran Bretagna, solo per dire due Paesi retti da sistemi con esecutivi forti (non illimitati).
In secondo luogo, al di là del riferimento al caso italiano – un caso tutto particolare di “crisi nella democrazia” -, non è certo un leader, per quanto carismatico o “vero”, come dice Galli della Loggia, che può addirittura “rifondare” una democrazia in crisi. Di quella crisi di cui parla l’editorialista del “Corriere della Sera”. Una crisi di identità perché, almeno in Europa, in quella continentale soprattutto, non sembra più poter valere l’equipollenza tra democrazia e benessere economico e sociale diffuso. Insomma, l’impressione è che la democrazia abbia attecchito nell’Europa occidentale post-1945 grazie al Piano Marshall e alla necessaria immane opera di “Ricostruzione”. Nonché figlia di una potente reazione psicologica alle macerie di trent’anni di guerre e figlia di quella voglia popolare – e anche delle élites dell’epoca, nuove o superstiti – di non rivedere più tante e tali macerie. In tal senso, e detto per inciso, una memoria storica non farebbe male né ai popoli né alle élites di questa Europa che stenta a trovare vera unità.
La cronica stanchezza, rasente l’astenìa, di cui soffrono molte democrazie contemporanee deriva dal logoramento di quei meccanismi e soprattutto dall’esaurimento di quelle risorse con cui esse hanno sollecitato e appagato le aspettative dei propri cittadini dal 1945 ad oggi. Le speranze di cui parla il titolo dell’editoriale di Galli della Loggia non sono solo e tanto quelle residuali suscitate dal giovane Renzi, apparso come leader entusiasta e volitivo (dunque “decisivo” e “risolutivo” della crisi italiana?), quanto quelle di intere generazioni di cittadini europei occidentali che dagli anni Sessanta in poi hanno preteso lavoro e benessere, economico, sociale e talora anche psichico, da uno Stato a cui rimettevano gran parte di quelle responsabilità e di quei compiti che nessuna buona cittadinanza democratica dovrebbe mai concedere. Tasse su tasse in cambio di servizi pubblici, in modo da affermare la logica secondo cui se pago, specie se pago tanto, poi mi attendo che lo Stato mi supplisca in tutto e per tutto. Ma qui scatta una deriva della delega che, perpetratasi per decenni, e in Italia più che altrove, fa oggi gridare molti alla degenerazione oligarchica. In qualche misura la logica della delega è intrinseca alla storia dello Stato nazionale moderno e la creazione del welfare l’ha richiesta e ulteriormente rafforzata. L’Unione Europea avrebbe dovuto sciogliere alcuni nodi della sovranità nazionale anche per favorire un recupero dei livelli intermedi e locali di esercizio del potere. Qualcuno ricorda il principio di sussidiarietà, tanto di moda nei primi anni Duemila? Ma questo, come tanti altri bei principi della teoria politica, si avvera solo passando dalla “politica” al “politico”, passaggio evocato anche da Galli della Loggia. Io l’intendo così: abituarsi al fatto che, se voglio che la cosa sia “pubblica”, debbo comportarmi ed agire di conseguenza, facendomi “pubblico” anch’io. Sia come guardiano dello Stato-guardiano, sia come guardiano che si fa Stato nel microcosmo delle prime comunità che incontro subito dopo la famiglia. È faticoso, ma cura l’astenìa della democrazia. Rileggere Tocqueville.
Infatti, non c’è dubbio che c’è troppo Stato, anche cattivo purtroppo, maligno, negativo, ma è così forte la struttura parassitaria che lo munge che solo un intervento traumatico purtroppo può azzerarlo. Triste, drammatico, ma quale rivolta morale è possibile con la attuale disgregazione delle posizioni critiche? Non riescono a coagularsi, mi sembra.
O c’è una proposta seria di aggregazione? Non so niente di concreto di Passera, che ne sai? Ma per prendere voti bisogna blandire almeno qualche categoria, o no? E allora? L’unica aggregazione possibile è quella da partito d’azione?
La vita politica italiana è pregiudicata in maniera irreparabile da un’arcaica forma di governo basata sulla fiducia parlamentare, che non consente al corpo elettorale di far valere il proprio indirizzo politico, ma prevede una formazione dell’organo di governo che ne rimette la scelta di fatto al Parlamento, affidandola con ciò stesso ad un’oligarchia partitocratica, la quale può vanificarne i contenuti. Né il Governo è dotato di poteri così incisivi, che gli permettano di far valere un indirizzo politico diverso da quello dei Governi che l’hanno preceduto, così da consentire un reale rinnovamento della vita pubblica. A tale esigenza rimedia il sistema presidenziale o semipresidenziale, che attraverso la scelta diretta del Capo dello Stato garantisce il rispetto della volontà popolare. Ma tale assetto istituzionale non è stato ancora introdotto nel nostro ordinamento, in quanto osteggiato sulla base dell’assunto che esso sia una forma di governo autoritaria. Ma questo è falso perché, come accade nei Paesi di più intensa vita democratica, i maggiori poteri che spettano al Presidente sono l’unico strumento che ha l’esecutivo per far valere l’indirizzo politico del corpo elettorale. Se questi poteri mancano, si ricade in un regime consociativo, nel quale la gestione della cosa pubblica è affidata a burocrati, indifferenti agli indirizzi politici manifestati dal popolo, e con una classe politica la quale riduce i propri contrasti ad una lotta di potere fine a se stessa. Il fatto che queste riforme siano state disattese, ha portato ad una distorsione delle funzioni degli organi rappresentativi. Il Presidente della Repubblica, che nella Costituzione è organo super partes, mentre l’indirizzo politico è affidato al Governo, è di fatto diventato il massimo titolare dell’indirizzo politico della Nazione, che sceglie il Governo e ne controlla costantemente l’attività, così come accade nei sistemi semipresidenziali, nei quali però è eletto dal popolo; il che non accade nel nostro ordinamento. inoltre il Governo Renzi è risultato caratterizzato da un forte rafforzamento e accentramento dei poteri del Presidente del Consiglio. Questo però è avvenuto come realtà di fatto, attraverso il controllo di centri di potere, e non attraverso poteri espressamente previsti dalla Costituzione. L’altro settore nel quale dovrebbero essere introdotte adeguate riforme è quello delle autonomie territoriali le quali, per le modalità con cui sono state attuate – soprattutto attraverso le leggi Bassanini – costituiscono la fonte prima della rovina economica del nostro Stato. Le Regioni – così come gli altri enti territoriali minori – sono stati istituiti come enti parassitari, che vivono a carico dello Stato, il quale se ne addossa le spese di funzionamento, senza che vi sia alcuna responsabilità politica degli amministratori locali nei confronti della collettività rappresentata. Il che fa sì che essi siano incentivati a qualunque sperpero ed abuso, che viene premiato sul piano politico dai consensi dell’elettorato locale, il quale non risente in via immediata e diretta, ma solo mediata – in quanto facente parte della collettività nazionale -, il peso delle spese relative. A ciò si aggiunga che, a differenza di quanto prescritto per lo Stato, che è assoggettato al controllo della Corte dei conti, nei confronti degli atti amministrativi degli enti territoriali minori è stato abolito ogni controllo, anche solo di legittimità, che sia costituzionalmente garantito. il che fa sì che non vi sia alcun limite agli sperperi e agli abusi che si possono verificare, in quanto lo Stato è sempre obbligato a coprire ogni ammanco, qualunque sia il suo ammontare, e qualunque sia la causa che lo ha determinato. In mancanza di adeguate riforme che responsabilizzino la collettività locale, i tagli alla spesa degli enti territoriali minori, ai quali viene fatto ricorso, non possono raggiungere in maniera adeguata i propri scopi, perché si consente a tali enti di mantenere integralmente gli sprechi e gli abusi, e di ridurre invece le spese dei servizi essenziali, così da rendere i tagli stessi inefficaci e anche inopportuni. Queste sono le riforme occorrenti. In mancanza di interventi in tali settori, ogni riforma, alla quale fa riferimento l’articolo di Galli della Loggia, deve considerarsi inutile o, nella migliore delle ipotesi, del tutto marginale.
Sottoscrivo, e aggiungo: le recentissime elezioni regionali, specialmente in Emilia-Romagna, segnalano la disaffezione anche dell’elettorato locale, in questo caso verso l’ente regionale. Non è una svolta epocale, come qualcuno si è affrettato a dire, ma l’aprirsi di uno spiraglio, questo sì, di un varco da parte di una potenzialmente nuova e diversa domanda politica che attende una potenzialmente nuova e diversa offerta politica. E qui si pone il problema… Cercasi forze sociali e movimenti politici seriamente interessati a quella serie di riforme prospettate da Alessandro Catelani…
Cordialmente,
DB
Siamo di fronte, di fatto, ad un’assenza dei poteri e delle istituzioni. Il Parlamento ha perso la sua identità ed il Governo straripa colmando con la scusa dell’urgenza molte lacune appunto istituzionali. C’è una confusione dei ruoli per cui il caos è l’elemento attraverso il quale questa assenza dei poteri si muove senza regole. Prova ne è il sindacato diviso, unito, poi diviso. Quasi che lo sciopero generale possa risolvere i problemi del Paese. Si avverte lo scontro personale e narcisista. Una politica delle persone e non per le persone. Egoismo allo stato puro, nelle impunità ad ogni livello.
Non “straripa” tanto il Governo, come induce a pensare l’eccessiva facondia dell’attuale Presidente del Consiglio, ma sono, per ora, solo parole, quanto una presidenza della Repubblica che però non ha investitura né costituzionale né popolare per farlo legittimamente e dunque pienamente, con efficienza ed efficacia. Vedasi analisi dettagliata del costituzionalista Alessandro Catelani nel commento che ha lasciato qui sopra.
Un caro saluto,
DB
Caro Prof. Breschi,
“…se voglio che la cosa sia “pubblica”, debbo comportarmi ed agire di conseguenza, facendomi “pubblico” anch’io”.
Il problema è che la concezione che si ha della cosa pubblica, tra gli italiani, non è all’altezza del suolo che si calpesta.
Al di là dei motivi storici o politici che possono giustificare un tale atteggiamento (molto italiano), nella pressoché totale indifferenza generale le varie facce della criminalità organizzata devastano il paese per scopi privati, la sanità pubblica è eccellente solo in ambiti territoriali molto ristretti (tutto il resto è fatiscente), la scuola pubblica è solo un fantasma e le grandi opere artistico-architettoniche del nostro passato si sgretolano sotto l’esclusivo sguardo incredulo e preoccupato di qualche migliaio di addetti ai lavori. Personalmente ho seri dubbi sul fatto che il “pubblico” possa divenire interesse davvero condiviso. Soprattutto in una società dominata dall’homo oeconomicus, in cui la maggior parte delle energie individuali sono in ogni momento orientate ad aumentare redditi, potere e produttività. Se è così, è normale vedere oggigiorno individui tutti impegnati nel raggiungimento del guadagno personale più facile ed immediato a cui semplicemente tutto ciò che li circonda – la natura, gli oggetti e gli altri esseri viventi – è assolutamente indifferente.
Se poi lo stato non è neanche in grado di assicurare i servizi minimi e spesso si ricorda del cittadino solo quando deve esigere corrispettivi smisurati, la disaffezione per il pubblico non farà che aumentare… E, al contrario, diminuirà costantemente il benessere generale che è l’indice di una società organicamente orchestrata.
Distinti saluti
Fabrizio Catania
la premessa è sbagliata: la povertà NON è in crescita. Anzi, è diminuita in maniera straordinaria, in special modo in Cina e in India (qualche centinaia di milioni di poveri in meno). Il discorso di Galli della Loggia e di Breschi è tutto ideologico, ma nessuna democrazia ha mai promesso the moon in the sky. Le democrazie sono e rimangono tali: “potere del popolo”, se il popolo, interessato alla politica, informato sulla politica, partecipante e convinto di contare, decide con senso civico di farle funzionare (non necessariamente seguendo il piffero degli intellettuali editorialisti alla Galli della Loggia e alla Salvati).
Caro Prof. Pasquino,
non dichiaro in apertura di condividere toto corde le tesi di Galli della Loggia, anzi. Premetto solo, a conclusione del primo paragrafo, che quello sollevato nell’editoriale è senz’altro “un tema da discutere” e provo a farlo, nello spazio di un breve articolo.
Devo dire poi che Galli della Loggia, a onor del vero, parla di povertà crescente negli Stati europei, retti a democrazia, e non di potenze extra-continentali come Cina o India, che Lei cita. Forse è un po’ troppo eurocentrico? Non saprei. Comunque non sono certo il suo difensore d’ufficio, tanto meno dopo aver scritto un articolo che prendeva le mosse e poi le distanze da quanto ha scritto oggi…
Non mi sembra nemmeno, per quanto concerne me, di aver scritto che la democrazia abbia promesso lune (o mari o monti…), ma soltanto un benessere che si sta un poco affievolendo, quantomeno. Livelli salariali decrescenti, e in Italia i più bassi d’Europa, ci sono. Non è proprio che tutto sia rose e fiori, anche se la miseria vera è, per fortuna, lontana. Non sarà colpa della democrazia come sistema astratto, ma i cittadini non vanno tanto per il sottile, soprattutto se istigati dalle apocalissi quotidiane dei media. E’ stato il welfare a consolidare il consenso di una democrazia come quella italiana, al pari della libertà, è vero, ma sa meglio di me quanto a lungo molti, anche e soprattutto in Italia, anzitutto neofascisti dentro e fuori il Msi e comunisti del Pci e socialisti di sinistra del Psi, non apprezzassero – almeno a parole, che però contano – cotanta libertà, poiché “occidentale” e “borghese”, ossia “formale” e non “sostanziale”. Insomma, non è che le partecipazioni statali le hanno fatte solo per indole corrotta, anzi. Anche per consolidare la democrazia in Italia, e l’affezione pubblica ad essa.
Se poi la vuole sapere proprio tutta, e così rispondo anche al Prof. Ascheri, io credo che le democrazie che abbiamo, compresa quella italiana, sono già più di tanto come modus vivendi e sono quanto ci meritiamo, nel bene e nel male. Lo dico senza spocchia intellettuale, ma alla lettera. Come recita il proverbio, se c’è del male, come c’è, pianga – e si guardi negli occhi e nella coscienza – chi ne è cagion, di quello stesso mal… Ma anche per quel che vi è di bene. Sempre e comunque sono i cittadini la “cagion” di tutto, o di molto… Questo è il senso della chiusura del mio pezzo, e dunque confermo che la democrazia è comunque, in questo specifico ristretto significato, “governo del popolo”. Piaccia o no, funziona meglio o peggio a seconda di come questo, articolato in individui e gruppi, si comporta e si rapporta alla dimensione pubblica.
Insomma, Lei sostiene infine quel che anch’io, nella seconda parte dell’articolo, ho sostenuto. Dov’è dunque “il discorso tutto ideologico” del Breschi? O sbaglio?
Un caro saluto,
DB
la replica è, almeno in parte, convincente. Il discorso iniziale era tutto ideologico poiché non citava nemmeno un dato concreto, che non vuol dire numerico. Dovremmo sapere e dire ad alta voce che: 1. il numero delle democrazie è cresciuto e nessuna delle democrazie post-1989 è decaduta, anche se il Primo Ministro ungherese fa del suo peggio, e sembra averne molto!; 2. ovunque, che vuol dire dappertutto, si lotta contro l’autoritarismo in tutte le sue forme, militari, teocratiche, (in)civili, gli uomini e le donne all’opposizione lo fanno in nome della democrazia “occidentale”, oggi “universale”. Poi, è giusto che dichiariamo la nostra insoddisfazione per le democrazie realmente esistenti, purché alle dichiarazioni faccia seguito l’impegno, non con il telecomando, e l’indicazione del modo con il quale convincere i nostri concittadini. La democrazia mantiene la sua spinta propulsiva e siamo noi a dargliela.
Ho dubbi su poter curare la democrazia in Italia
Ariel Paggi
Tutto giusto, sia Galli che te. Le analisi giuste non mancano di certo.
Manca in Europa il contesto storico, temo forte. Decenni di assistenzialismo ci hanno abituato ad aver tutto dall’alto, anche gli interventi per farci uscire dall’assistenzialismo, divenuto invece fattore costituzionale, culturale. La banalità delle gare attivate, come quella che abbiamo vissuto a Siena per la Capitale della Cultura Europea, è emblematica nel suo vacuo consumismo ‘culturale’.
Anche la crisi si crede che possa risolversi così, cominciando infatti con interventi puramente di facciata, di ‘eventi’ come la storia delle Provincie e del Senato insegna.
Non so quanto il capitalismo cinese sia rigidamente programmato: se lo fosse veramente credo che non funzionerebbe. Non ci sarà molto di quel caos creativo del Dopoguerra quando tutti si davano da fare anche nelle piccole cose ma entro una chiara cornice di speranza collettiva?
Non c’era che marginalmente il ‘pubblico’ nei miei ricordi. I Comuni facevano il minimo indispensabile. La ‘cultura’ nella mia provincia era comprarsi il libriccino della Bur per poi scambiarselo con i coetanei e raramente aspettarsi di trovare roba nuova in biblioteca comunale, aperta poco.
Il bla bla bla non esisteva che per elezioni e per ovvi motivi tecnologici, si leggeva molto (non tanto i giornali), si ‘sentiva’ molto la radio e i ‘grandi’ parlare; non essendoci consumismo non c’era distrazione, non c’erano bisogni indotti, l’nasia di programmarsi il tempo. La vita era essenziale, e perciò anche i rapporti famigliari e tra generazioni più semplici.
Banalità, d’accordo, ma da ricordare oggi che la Complessità ci ha schiavizzato serrandoci in una gabbia burocratico-culturale pubblico-privata così fitta da non lasciare speranza. Altroché Renzi ! Neppure un carisma ben più robusto del suo può bastare in questa situazione.
La crisi è così grave che non ci è consentito di prenderne pienamente coscienza.
Paradossalmente pensiamo che qualche manovra economica (?) più robusta possa bastare. Detto molto tra di noi, e senza dirlo ai ragazzi che non vanno demotivati più di quanto già non siano, temo forte che senza macerie o interventi esterni imprevedibili non si potrà essere ‘costretti’ a cambiare.
Meno che mai basteranno le raccomandazioni dei ‘professoroni’, dei quali Renzi nella sua energica ‘semplicità’ giovanile ha intuito la sostanziale impotenza.
Il guaio è che non ha coscienza della propria. Guerra tra poveri, negazione della cooperazione, no?
Caro Mario,
concordo con la gran parte di quanto scrivi. Lo Stato può anche avere un ruolo di “volano”, ma non certo in Italia, e in questo concordo pienamente con te. Semmai temo che sia proprio lì la radice del male, se non di ogni nostro male, di moltissimi di essi. E non si può risolvere il male col male, anche il vaccino è comunque pur sempre un negativo che si contrappone alla malattia che intende curare. Male col male, lo stesso tipo di male, produce gattopardismo, nostra antica, cronica patologia…
Liberare le energie italiche, certo, ma oggi occorrerebbe liberare prima menti offuscate da logiche tutelari e paternalistiche che si sono incistate in noi, e ci hanno reso inclini alla passività e al parassitismo, al motto “io speriamo che me la cavo”…
Grazie, come sempre. Alla prossima.
DB