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Il grande schermo sotto il fascismo

recensione a: Alfonso Venturini, La politica cinematografica del regime fascista, Carocci, Roma 2015, pp. 222, € 23.

Questo libro esamina nel dettaglio le attività del regime fascista nel settore cinematografico, prestando attenzione tanto agli aspetti economico-finanziari, dalla produzione alla distribuzione, dalle importazioni alle esportazioni, quanto agli aspetti più squisitamente politico-ideologici, censura inclusa. Si concentra sui film di finzione, o di intrattenimento, dal momento che documentari e cinegiornali, essendo completamente sotto il controllo statale attraverso l’Istituto Luce, ossia un ente che dipendeva direttamente dal capo del governo, non consentono all’osservatore di oggi di cogliere la reale e complessa dinamica interna ai rapporti tra il regime e gli industriali. È dal tipo di legami con i suoi sottosistemi che si può valutare natura e concreto funzionamento di un sistema politico. Peraltro, esaminare il cinema di finzione significa occuparsi del grosso della produzione cinematografica e quindi di gran parte delle pellicole viste dal pubblico italiano durante il ventennio mussoliniano.

Dalla ricostruzione effettuata da Venturini vengono rimessi parzialmente in discussione alcuni punti apparentemente fermi della storiografia sul fascismo. Anzitutto, le vicende inerenti il rapporto tra regime e industria del cinema sembrerebbero sottolineare come le necessità del mercato piegassero in molte occasioni le esigenze ideologiche a quelle commerciali. La censura e le pur frequenti ingerenze governative non sempre premiarono film dichiaratamente propagandistici, che non così di rado furono sacrificati a favore di film d’evasione, in termini sia di investimenti economici sia di riconoscimenti dati dallo stesso regime, come nel caso della prestigiosa Mostra del Cinema di Venezia, istituita negli anni Trenta. Si veda il caso della coppa Mussolini per il miglior film italiano del 1935 assegnata infine a Casta diva di Carmine Gallone e non a Le scarpe al sole di Marco Elter (pp. 88-91). Dunque perse il secondo, “più in linea con la visione fascista”, e vinse il primo, “un appello alle arti in chiave antimilitarista” (p. 89). Altri gli episodi narrati, relative a quella come ad altre edizioni, in cui sempre “l’assegnazione dei premi si rivelò un delicato gioco di equilibrismo fra interessi di natura commerciale e di opportunità politica” (p. 88).

D’altro canto, va sottolineato come il regime fascista si avvalse di un apparato repressivo, in termini di censura, messo in piedi in epoca ancora liberale, esattamente a partire dal 1914, ancor prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Come scrive Venturini, “al nuovo regime restò solo da apportare alcune variazioni, […] beninteso nel segno di una maggiore potenzialità repressiva, ma che non alteravano o stravolgevano l’impianto preesistente” (p. 9). Da precisare la data dei provvedimenti legislativi in questione: 31 maggio 1914. Indirettamente si conferma, da un lato, che il fascismo fu uno degli esiti di quella lunghissima, estenuante e devastante guerra di “mobilitazione totale”, e, dall’altro, che il liberalismo conservatore di Antonio Salandra, staccandosi proprio attorno al 1914 dal giolittismo e occhieggiando ai vari nazionalismi, dentro e fuori l’area liberal-radicale, perse l’occasione di consolidare il processo di democratizzazione avviato all’inizio del secolo dallo statista di Dronero. In definitiva, dalla lettura di Venturini emerge l’idea che il liberalismo italiano subì una torsione e infine un totale pervertimento, a causa di un processo degenerativo innescato dalla Grande guerra e dai profondi e radicali sommovimenti da essa messi in moto, a cominciare dalla Rivoluzione bolscevica.

In termini di censura sui film il cambiamento “qualitativo” più che quantitativo si accentuò però nel 1934, quando i poteri di controllo, detenuti fino ad allora dal ministero dell’Interno, passarono alla Direzione generale della cinematografia. Fu così che ad amministrare la censura subentrò “un uomo del regime come Luigi Freddi” e non più un prefetto di carriera come Leopoldo Zurlo (p. 47). Ad essere colpiti furono prevalentemente i film pacifisti e antimilitaristi provenienti dall’estero, Stati Uniti in primis. Con Freddi si inserì inoltre un tipo di censura preventiva, anche se non riuscì mai ad essere “totale” come nelle intenzioni avrebbe voluto (p. 50) e soprattutto il criterio dell’opportunità politica non prevalse costantemente e tassativamente su quello del ritorno economico. “La ragione più comune di censura – scrive Venturini – era dovuta, però, a considerazioni di ordine morale” e anche “in ciò quindi c’era una perfetta continuità con il periodo precedente”, con un’accentuazione che sul tema era senz’altro dovuta all’avvicinamento prima, e alla conciliazione poi, tra governo italiano e Stato del Vaticano.

Nelle sue memorie Freddi, fascista statalizzatore quant’altri mai, “si compiacque di ricordare come la sua attività fosse in perfetta sintonia con la posizione della Chiesa al riguardo” (p. 52). E così si tagliarono scene allusive, se non esplicite, alla vita intima, oppure si vietarono film con protagonisti coppie divorziate, storie di adulterio o in cui risaltavano altri “vizi” e “peccati” denunciati dalla morale cattolica, come ad esempio il suicidio. Del resto, Freddi adottò persino criteri di ordine squisitamente estetico, che lo portarono, ad esempio, a sconsigliare caldamente lo stesso duce di proibire la distribuzione e proiezione in Italia di un film come Tempi moderni di Charlie Chaplin, definito da Freddi un autentico “poeta dello schermo” (p. 54). E Mussolini accondiscese e il film fu distribuito con successo di pubblico.
Va detto inoltre che spesso furono gli stessi produttori cinematografici americani ad operare quei tagli richiesti preventivamente da Freddi per ragioni di ordine politico (tipo la presenza di giudizi “antitaliani”, denigratori dell’italianità, oramai forzosamente identificata col fascismo), e ciò allo scopo di mantenere buoni rapporti commerciali. A conferma di quanto l’aspetto economico fosse rilevante per entrambe le parti. Lo stesso avvenne, in misura persino assai più massiccia, fra produttori americani e Germania nazista.

L’obiettivo coltivato da Freddi di una statalizzazione integrale tanto della produzione quanto della distribuzione cinematografica subì uno scacco decisivo con il fallimento di Scipione l’Africano, un “kolossal” il cui intento evidente era la celebrazione della conquista dell’Etiopia. Come ben sintetizza Venturini, “il film fallì sotto tutti i punti di vista: economico, perché comportò una notevole perdita di milioni alle casse dello Stato, e politico, perché lo scarso valore spettacolare e artistico vanificò tutta l’operazione propagandistica che era stata costruita attorno a questa pellicola” (p. 128). Non solo, l’insuccesso clamoroso provocò la caduta in disgrazia di Freddi “e contribuì a creare i presupposti per il capovolgimento della politica cinematografica del regime” (p. 129). Nonostante l’enorme sforzo “fascistizzante” profuso da Freddi, anche durante i quattro anni della sua “era” non mancarono frequenti e veementi critiche alla politica cinematografica messa in atto e conseguenti denunce di scarsa “passione fascista” rivolte all’operato della Direzione generale della cinematografia e del Ministero della Stampa e Propaganda. Dal 1937 il nuovo titolare di quest’ultimo dicastero, ribattezzato nel maggio Ministero per la Cultura Popolare, fu Dino Alfieri. Questi “rivendicava per il ministero il compito di mettere le regole, di stimolare e assistere, per usare le sue parole, ma lasciando ad altri, cioè ai privati, il compito di fare il cinema” (p. 134). Si tornò così, con il regio decreto legge del 16 giugno 1938, ai cosiddetti contributi “a pioggia”, al fine di aiutare tutti i film senza distinzioni di sorta. Il criterio divenne eminentemente commerciale, nel senso che “maggiore era l’incasso nelle sale cinematografiche, maggiore era il premio versato dallo Stato” (p. 136).

Aggiungo un’osservazione di carattere tanto storiografico quanto, soprattutto, politologico. Venturini definisce “totalitario” il disegno perseguito da Freddi in quanto rispondente al principio mussoliniano del “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”. Formula enunciata dallo stesso duce nel discorso celebrativo per il terzo anniversario della marcia su Roma, la quale evoca una dottrina statolatrica che non può essere, sempre in chiave politologica, schiacciata su quella di totalitarismo, quasi si trattasse di due superfici perfettamente combacianti. Del resto, tirando le somme, lo stesso Venturini conclude il suo lavoro ribadendo “il fatto che il cinema di finzione si è spesso rivelato un’arma propagandistica difficile da maneggiare per il regime” (p. 216). Con riferimento al ristretto ambito delle politiche cinematografiche, si ha cioè la netta sensazione che il fascismo spinse più sul lato della smobilitazione e spoliticizzazione delle coscienze del popolo-pubblico, che non su un indottrinamento ideologico generalizzato, martellante. Altri furono i settori interessati dalla pedagogia totalitaria. La scuola, ad esempio, la stessa università. Non sembra che fu così per i film di finzione, cioè una parte cospicua della produzione cinematografica di quel ventennio, nell’ambito della quale si procedette non tenendo conto dell’escalation totalitaria che il regime portò avanti sul piano più generale da metà anni Trenta in poi. Sul piano più generale l’intenzione è indubbia, e l’introduzione delle “leggi razziali” avvicinò ulteriormente il regime fascista al modello totalitario di Stato-partito (cfr. L. Di Nucci, Lo Stato-partito del fascismo. Genesi, evoluzione e crisi. 1919-1943, Bologna, il Mulino, 2009).

Peraltro, il libro di Venturini tocca indirettamente, ma non marginalmente, un altro tema classico della storiografia sul fascismo, ovvero l’ideologia di quel movimento. Ebbene, dall’analisi dei contenuti della cinematografia prodotta nel ventennio e dall’annesso dibattito culturale si evince che l’ideologia fascista faticò a definirsi all’interno del cinema. Non solo, all’osservatore odierno essa pare di difficile estensione al di là dei confini di un patriottismo acceso fino al nazionalismo bellicoso, di un culto dell’ordine e della gerarchia, di una morale di sacrificio per la nazione guidata dal “duce” Mussolini. Dalla lettura del libro si constata poi che la stessa bellicosità non poteva diventare nei film del ventennio un’esaltazione esplicita della violenza, com’era stato nella propaganda del primo fascismo, ossia lo squadrismo, pena la perdita di consenso da parte di quei ceti borghesi il cui sostegno si cercava di ottenere e consolidare (sulle contraddizioni presenti nel passaggio dal “movimento” al “regime” cfr. C. Baldassini, Autobiografia del primo fascismo. Ideologia politica, mentalità, memoria, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014). Un consenso non sempre di tipo attivo, spesso solo passivo. Questo è il primo punto.
Una ideologia “difficile da maneggiare” a fini propagandistici, perché sempre a rischio di corto-circuito fra istanze diverse (ora rivoluzionarie ora conservatrici, ora futuriste ora ruraliste). Questo è il secondo punto che emerge come conclusione dell’analisi sulle politiche cinematografiche messe in opera dal regime fascista. Con il suo razzismo biologico e persino ontologico, una sorta di antisemitismo cosmico, il nazismo apparve terribilmente più credibile, tetragono e penetrante. Maggiormente capace di sintetizzare aneliti “rivoluzionari”, o “eversivi”, e pulsione “conservatrice”. Il ritorno, il ripristino, la reazione radicale alla modernità, usandone tutti i mezzi tecnici messi a disposizione: queste le parole d’ordine del movimento hitleriano per un popolo dalla struttura del carattere di tipo autoritario, come evidenziò Erich Fromm nel 1941 nel suo celebre Fuga dalla libertà.

Sul piano della cinematografia, almeno alla luce della ricostruzione storiografica compiuta da Venturini, le incertezze e una sorta di corrente alternata finirono per prevalere, dimostrando la natura assai più compromissoria e “poliarchica” della dittatura fascista, che presentò non solo una “diarchia” con il Re (“monarchia fascista”, la definisce giustamente Paolo Colombo, storico delle istituzioni politiche) ma pure una “triarchia” con il Papa (il famigerato “clerico-fascismo” fu una realtà), senz’altro dopo il 1929 e nonostante ricorrenti tensioni e resistenze nel corso degli anni Trenta. È proprio in virtù di questa natura compromissoria del fascismo che la sua eredità nel secondo dopoguerra fu reale e persistente. Niente si insinua e si incista di più di quel che non tende o non riesce ad operare una Gleichschaltung (“allineamento”) sul modello nazista, ma si allea con quanto di compatibile a sé, in tutto o in parte, trova nella realtà sociale, politica ed economica preesistente.

[una versione assai ridotta di questo articolo è stata pubblicata come scheda di recensione su “L’Indice dei libri del mese”, XXXII, n. 12, dicembre 2015, p. 46]