recensione a: Mussolini socialista, a cura di Emilio Gentile e Spencer M. Di Scala, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 264, € 24
Tutto ebbe in inizio in Romagna. Furono le origini familiari e le radici ben piantate nella peculiare genealogia del socialismo italiano a determinare la cultura politica di Benito Mussolini. Se il fascismo come movimento politico sorse come una delle conseguenze della prima guerra mondiale e il fascismo come regime fu l’ulteriore esito dell’adattamento di un movimento ad un sistema di potere di cui puntò ad assumere il comando totale, resta il fatto che il mussolinismo, quale nucleo germinale e perdurante matrice del fascismo nelle sue varie fasi, nacque durante la formazione e la militanza socialista del giovane Benito. Questa è una delle considerazioni che si possono ricavare dal volume curato da Emilio Gentile e Spencer M. Di Scala.
Mussolini già fascista da socialista? Un tema della storiografia italiana apparentemente già dissodato e che proprio questa raccolta di studi rivela essere tutt’altro che esaurito e completamente acquisito. Anzitutto, come dimostra Marco Gervasoni, la cultura politica di Mussolini deve essere presa sul serio. Passaggi biografici essenziali furono senz’altro i periodi trascorsi prima in Svizzera, dal luglio 1902 al novembre 1904, e poi in Trentino, dal 6 febbraio al 26 settembre del 1909. Tanto Simone Visconti quanto Stefano Biguzzi ribadiscono con le loro puntuali ricostruzioni quanto le due esperienze al di fuori dei confini dell’Italia del tempo contribuirono a forgiare alcune caratteristiche psicologiche e culturali del futuro leader. Divenne giornalista e agitatore, e le due qualifiche trovarono una sintesi perfetta nella mente e nell’azione di questo giovane socialista romagnolo che avrebbe voluto essere chiamato il “Marat del proletariato”.
Nella esplicita rivendicazione della tradizione giacobina, aggiornata da un blanquismo che aveva conosciuto una certa fortuna anche nell’Italia di fine Ottocento, si conferma l’enorme peso che ebbe l’esperienza paterna nella formazione del giovane Mussolini. Il padre Alessandro, infatti, fabbro di Predappio, era stato a suo tempo militante del Partito socialista rivoluzionario fondato da Andrea Costa nel 1881. Il socialismo italiano era nato in un humus sovversivistico, insurrezionalistico, ostile allo Stato e alle istituzioni, attratto dalla predicazione anarchica, antimilitarista e antipatriottica. Era una cultura politica di tipo operaista, sulla cui base Mussolini nei primi quindici anni del Novecento, in corrispondenza del proprio apprendistato di militante e propagandista, operò una serie di innesti che risentivano sia del montante nazionalismo sia del clima di “estetizzazione della politica” provocato dalle avanguardie artistiche (fra cui il futurismo).
Lo stesso Di Scala ricorda quanto la fondazione di un partito socialista marxista fu a lungo ostacolata dalla presenza di un forte movimento anarchico, che ebbe le sue origini nelle idee e nella feconda azione di Mikhail Bakunin, a lungo attivo in Italia. L’anarchismo, con l’idea della necessità dell’uso della violenza per l’instaurazione di una società giusta ed eguale, lasciò tracce profonde in molti teorici italiani della sinistra e nell’ala rivoluzionaria del futuro Psi. Il fatto che l’ideologia di Mussolini operasse una sovrapposizione di linguaggi che mescolavano tradizioni in linea di principio molto distanti, quando non addirittura incompatibili, non deve sorprendere. Siamo infatti di fronte ad un agitatore il cui obiettivo divenne ben presto quello di trasformare, o costruire, un partito capace di abbattere il sistema politico vigente. Mussolini fu sempre poco interessato alla coerenza formale del proprio pensiero, quanto piuttosto all’efficacia di questa o quella idea carpita dentro o fuori il perimetro socialista. Fu semmai attento ad apparire il più ortodosso dei rivoluzionari nei confronti di riformisti e gradualisti, e il più eterodosso nei confronti dei sindacalisti, in modo da attrarli e collaborare con loro fino a quando questi gli servirono per spostare il più possibile a sinistra il Psi. La sua visione strategica restò sempre imperniata sul primato del partito, che intendeva trasformare in una macchina di mobilitazione permanente attraverso l’educazione, la propaganda e la capacità di creare miti politici in senso soreliano.
In questi anni di formazione ideologica e militanza politica l’obiettivo mussoliniano divenne quello di creare, attraverso le attività di agitatore e propagandista esercitate tramite la stampa, i comizi, i discorsi, gli scioperi e varie manifestazioni di protesta e contestazione anche violenta, una fede che animasse di rabbia indomabile e annientatrice i proletari e tutti gli emarginati, i reietti e gli esclusi dalla società borghese e capitalistica. Il 22 giugno del 1914 sulle colonne dell’“Avanti!”, che stava dirigendo da quasi due anni, Mussolini ricordava come agli occhi dell’Italia sabauda e liberale “Mazzini era un criminale, Garibaldi era un bandito, e i suoi soldati avanzi di galera”. Come è ben ricordato nel saggio di Emilio Gentile, il futuro duce del fascismo considerava il socialismo “un movimento d’idee che ha le sue basi nelle condizioni della società attuale e rappresenta nella sua negazione – uno stadio superiore di civiltà – un movimento d’idee che per estensione e profondità non può esser paragonato se non al cristianesimo”. Così scriveva negli anni a cavallo del 1910, precisando i contorni di un “idealismo rivoluzionario”, come egli stesso ebbe a definirlo, dove alla teoria si preferì sempre la prassi, perché in essa si riteneva tradursi integralmente il pensiero di Marx. Di questi si prendeva alla lettera la celebre affermazione secondo cui “l’arma della critica non può certamente sostituire la critica delle armi”. Il problema politico fondamentale era pertanto la trasformazione rivoluzionaria della società. Questo avrebbe dovuto essere il compito della vera filosofia, non certo quello di consentire un ulteriore indugio nella contemplazione astratta e inevitabilmente conservatrice.
La debolezza crescente nella leadership della classe dirigente liberale, l’ancor scarso consolidamento delle istituzioni politiche del regno d’Italia, una temperie culturale incendiata da dilaganti ideologie vitalistiche e irrazionalistiche e, infine, un contesto internazionale traballante fino al punto di deflagrare in un conflitto generalizzato e prolungato favorirono il giovane agitatore romagnolo nel ruolo di catalizzatore di molteplici e diverse spinte disgregatrici dell’ordine costituito. Sarebbero seguiti altri eventi e altri errori politici nel dopoguerra italiano per consentirgli l’ascesa al governo e quindi al dominio del paese, ma non poche premesse furono poste tra il 1911, anno dello scoppio della guerra italo-turca per la conquista della Libia, e il 1918, anno in cui andò a concludersi la prima guerra mondiale e si aprì una grave crisi interna provocata da smobilitazione postbellica e da una nuova mobilitazione ideologica e partitica di masse di reduci, e non solo, repentinamente e brutalmente politicizzati da quattro anni di conflitto.
In conclusione, non si può dire che nel Mussolini socialista vi fosse già tutto ricompreso il futuro leader fascista, ma sin da subito egli fu un aspirante sovversivo dell’Italia liberale e riformista. Era uno fra i tanti che agirono nella società italiana di quel primo quindicennio del Novecento. Fu colui che sfruttò meglio di altri il momento propizio e seppe trovare decisivi appoggi presso chi pensò di utilizzarlo quale più o meno docile strumento restauratore dell’ordine costituito. Fu invece la fine dell’Italia liberale, oltre che l’interruzione di un cammino pacifico verso la democrazia.
[versione ampliata dell’articolo uscito su «L’Indice dei Libri del Mese», XXXIII, n. 6, giugno 2016, p. 32]
Stimato Professore,
Mussolini nasce socialista e cresce socialista. Lei pone la cesura con la fine della prima guerra mondiale. Però il 1921 si apre con la nascita del PCI, scissione di Livorno e si chiude con il primo congresso del Partito fascista. Nel 1922 Facta si dimette, dopo che il Re aveva rifiutato di dichiarare lo stato d’assedio.
Tuttavia sarà Benedetto Croce a dare base filosofica al nuovo corso politico, in contrasto con qualsiasi teoria dello stato etico, sostenuta da Gentile. Per questo Croce sosterrà la distinzione tra liberalismo e liberismo. In altre parole si può avere la libertà dell’individuo senza un sistema sociale e politico libero. Sarà Einaudi a dire che Croce si sbagliava, perché ponendo la libertà dell’individuo in una situazione di metapolitica, il liberalismo rinnegava se stesso. Per Einaudi e per i pensatori liberali non ci può essere liberalismo senza liberismo. eccetto che per Croce, il quale ebbe a cuore la libertà dell’individuo e in spregio lo stato etico. Quando Einaudi obiettava a Croce i limiti della sua teoria erano gli anni ’30 del secolo scorso. Il partito nazionalsocialista fu fondato negli stessi anni ’30. Si comprende bene la conclusione della sua recensione. In questi anni ’30 il liberalismo aveva perso se stesso, e perdendo se stesso si portò dietro la libertà dell’individuo. Furono Einaudi e De Gasperi a fare un tentativo per resuscitarlo. Quella stagione ebbe vita breve e va dalle elezioni politiche del 1948 a quelle del 1953.
Negli anni anni dopo la creazione dell’iri, i tre quarti fell’economia dello stato era in mani
dello stato e la legge bancaria del ’36 stimata la migliore del mondo.
Lo stesso Galbraith, consiglere di Roosvelt e in giro per l’Europa per visionare i vari
welfare del continente disse che lo stato sociale era primo in graduatoria.
lo stesso Peron, addetto militare in varie capitali europee e poi in Torino apprezzò
lo stato sociale del regime mussoliniano. Gandhi in visita nell’italia nel 1931 elogiò
lo stato italiano… poi l’inghilterra lo mise in galera.
La Resistenza tranne l’ing. Weber non processò e non fucilò nessun industriale italiano,
forse che durante il ventennio si erano comportati bene… L’avv. Agnelli entrò nel CLN.
Un’analisi perfetta della formazione di un personaggio complesso e spiazzante.
Molto giusta la sottolineatura della formazione anarcoide, appresa dal padre e dalle influenze bakuniane del tempo e di quanto un cervello, indubbiamente ben funzionante, seppe apprendere dalle esperienze vissute in Svizzera ed in Trentino.
Mussolini cavalcò abilmente la tigre di un’economia disgregata e di un’Italia liberale e riformista debolissima.
La tua frase finale sintetizza perfettamente la formazione del personaggio ed i danni che produsse la sua ascesa. Seppe strumentalizzare molto bene coloro che credevano di strumentalizzarlo e scoppiò loro in mano, interropendo, come giustamente dici, “un cammino pacifico verso la democrazia “.
Grazie Danilo, è un articolo puntuale e perfettamente calibrato nel giudizio e nella scrittura che è, come sempre, lineare e preziosa.
Un caro saluto.
Definire il fascismo una dittatura è un’espressione invalsa presso gli storici che non rende la sostanza costituzionale su cui poggiava il regime (termine che trovo più adeguato) fascista: a norma dello Statuto albertino l’esecutivo rispondeva alla Corona, da cui traeva delega (anche se era seguita la prassi della fiducia parlamentare). Il re diede l’incarico a Mussolini nel ’22 e glielo revocò nell’estate del ’43, facendolo per giunta arrestare dopo. Se la Casa Savoia non avesse trovato utile il governo fascista per salvare la monarchia e l’apparato sociale borghese, se ne sarebbe sbarazzata prima. Non condivido il punto di vista che attribuisce in toto alla “dittatura” la restrizione delle libertà in Italia nel corso degli anni ’20. Un simile piano rientra nel progetto di tutela monarchico-borghese, che consentì sì ai fascisti di prendere il potere. Ma occorre ricordare che i liberali cercando di servirsi di questi in funzione antirivoluzionaria non fecero altro che portare a compimento una decadenza nazionale che già era maturata nel periodo umbertino (scandali bancari, Bava Beccaris, et similia). All’interno del fascismo confluirono poi quasi tutti (e non è da sottovalutare il fatto che Mussolini avesse invitato i socialisti a entrare nel suo primo governo, senza ottenere risposta positiva). Il clima creatosi nel primo dopoguerra, con la delusione per la “vittoria mutilata”, aggiuntasi ai precedenti fermenti sociali, creò in Italia un originale palcoscenico su cui Mussolini divenne il primo attore. Tuttavia anche qui non sono da trascurare alcuni dettagli. Il “mussolinismo” non coincideva con il fascismo, cui altri diedero apporti determinanti nella sua definizione (D’Annunzio, Gentile, i sindacalisti fascisti, et ceteri). Il clima di violenza che si instaurò tra i gruppi del fascismo contrapposti a marxisti e liberali è figlio di un contesto storico e ideologico internazionale, perciò non può essere caricato solo su una parte: i primi sovversivi antidemocratici erano stati di matrice marxista, tra cui si trovavano coloro i quali da cui l’Italia monarchica e liberal-borghese voleva liberarsi (durante la sparatoria dell’esercito sulla folla a Milano nel 1898 non c’era un governo fascista). La violenza, che è in ogni caso, in ogni luogo, in ogni tempo, da rifiutare, condannare, nella veste di strumento di risoluzione di qualsiasi controversia, colpì tutti: sono notissimi i casi di Gobetti e Matteotti, ma moltissimi ignorano l’uccisione del deputato fascista Casalini al fine di vendicare la morte del secondo. E mentre Gramsci stava in carcere, Croce stava in Senato (di nomina regia): tutto ciò a testimoniare che il telaio liberal-massonico, che aveva consentito al fascismo di assurgere alla guida del governo, era un meccanismo operante anche a difesa di liberali dissidenti. Individuare in Mussolini allora un capro espiatorio a posteriori di situazioni che avevano un più ampio margine di elaborazione sembra un’operazione storiografica che rievoca l’incendio della casa di Socrate e il suo reale processo a causa dell’essere stato maestro di Crizia e Alcibiade. Il duce da giovane fu un tipo impetuoso, un massimalista apprezzato da Lenin: riconoscendo tutti i suoi difetti e tutti i tragici errori del fascismo, non si può disconoscere che l’Italia degli anni ’20 e ’30 fosse un’insula felix se paragonata ad altri contesti socialmente più instabili, la cui sorte fu aggravata dalla grande crisi economica. Nel giovane Mussolini si può rintracciare un rivoluzionario marxista che imparò due lezioni: quella di una politica “machiavellica”, e quella che gli consentì di far evolvere la sua visione politica genuina in senso spiritualista. Al rivoluzionario si accompagnò dunque l’idealista (da qui la porta aperta a Gentile). Il fascismo è una forma di socialismo spiritualista, il comunismo è un socialismo materialista: fascisti e comunisti sono imparentati (Bombacci e la RSI docent). Credo che Plutarco avrebbe accoppiato Mussolini e Trotzkij: due idealisti sui generis che pagarono conti sproporzionati. Pertanto pongo il dubbio se sia da chiedersi: quanto Mussolini è stato un “utile idiota” della monarchia e della borghesia in Italia?
Allo scopo di non essere frainteso nelle mie valutazioni, indico come possibilità di approfondimento del mio punto di vista storiografico il mio saggio sulle ideologie novecentesche http://www.scribd.com/doc/74356376/La-morte-delle-ideologie
Concordo a pieno… è importante capire chi era Benito Mussolini prima ancora di essere il duce… e prima ancora quello del padre ideologico del fascismo. Un ragionamento importante che oggi più che mai è necessario
Sicuramente per capire la genesi del fascismo ed il suo attecchimento in Italia dopo l’evento della prima guerra mondiale bisogna sondare e valutare con attenta analisi proprio quella radicalizzazione della politica italiana foriera della caduta del giolittismo di cui il socialismo si era fatto portabandiera e soprattutto il ruolo del socialismo riformista e del sindacalismo rivoluzionario attori principali del dibattito prebellico in Italia che vedeva già la presenza di un Mussolini variopinto.
Sono d’accordo con lei. Bisogna capire il fascismo prima del fascismo. Se non si capisce che il pensiero di Mussolini viene da lontano, dalla rivoluzione francese, dal Risorgimento, dal sindacalismo ecc. non si capisce nulla della storia d’Italia. Vari elementi si fondono in un crogiolo originale: giacobinismo, l’idea che la storia è plasmabile a proprio piacimento, necessità dell’uso della violenza, ppolarismo, l’insurrezionalismo, ecc. aspetti teorici che però nascevano su un dato di fatto: l’eslusione del popolo dal processo unitario. Ma ci voleva la Grande guerra, la congiunzione della crisi del sistema degli stati europei con il non risolto nodo dell’inserimento del mondo del lavoro nello stato moderno per produrre una situazione esplosiva che Mussolini seppe cogliere nella sintesi del socialismo nazionale. Che dire? Ogni popolo ha la sua storia e noi dobbiamo tenerci la nostra.