Karl Löwith e la difesa della modernità contro se stessa

recensione a: Giorgio Fazio, Il tempo della secolarizzazione. Karl Löwith e la modernità, Milano, Mimesis, 2015, pp. 256.

Negli ultimi anni sono usciti molti studi dedicati al pensiero di Karl Löwith. Il lavoro di Giorgio Fazio si distingue per la capacità di dosare bene profondità di analisi e linguaggio filosoficamente rigoroso ma sempre vigile e attento a non sfumare nell’incomprensibile. Fazio ben riassume ciò che rende Löwith un pensatore degno di essere costantemente letto e meditato è da Fazio ben riassunto: il tentativo di costruire una “difesa della modernità contro se stessa” (p. 12), contro le logiche contraddittorie del processo di secolarizzazione nel quale essa va a consistere. La tendenza di fondo, quella infine risultata dominante, della moderna cultura occidentale e del pensiero filosofico contemporaneo giunto sino a noi è consistita nella sostituzione di Dio con la storia e con un’antropologia radicalmente immanentistica.

Fazio esamina passo dopo passo l’evolversi della riflessione löwithiana nel contesto del dibattito filosofico weimeriano. Ludwig Klages e la Lebensphilosophie degli anni Venti e la pressoché coeva “ontologia dell’esistenza cripto-protestante” di Martin Heidegger sono i primi autori e le prime posizioni teoretiche con le quali il giovane filosofo si confronta e dalla cui confutazione comincia a maturare una prima convinzione che lo accompagnerà nel prosieguo della vita e della carriera. In entrambe le posizioni teoretiche esaminate Löwith rinveniva una visione essenzialistica e conclusiva dell’uomo, sempre e comunque rinviato nella sua definizione ad una soluzione di tipo comunitaristico e omogeneizzante di quella che invece andrebbe riconosciuta come la sua costitutiva differenza da ogni altro simile. L’irriducibilità di ogni singolo uomo veniva mortificata fino all’annullamento. Tanto Klages quanto Heidegger, insomma, si mostravano refrattari a riconoscere e valorizzare “il pluralismo e la costitutiva impurità che caratterizza la convivenza umana” (p. 58). Ad addebito di colui che gli fu, per un certo periodo, maestro, si aggiunge un’ulteriore notazione critica, come rileva opportunamente Fazio, vale a dire il fatto che “l’analitica esistenziale di Heidegger non solo è animata da una lettura riduttiva della sfera pubblica moderna, ma non possiede neanche gli strumenti teorici per concepire un rapporto interumano, fine a se stesso, reciproco e responsabile tra io e tu” (p. 69).

Fondamentale nella futura evoluzione del pensiero di Löwith fu poi la lettura di Marx e la sua messa a confronto con l’opera di Max Weber. A dispetto dell’interpretazione lukácasiana del marxismo allora in voga, Löwith contestò l’idea che la critica sociale marxiana fosse avalutativa dal punto di vista etico, e intese pertanto dissotterrarne i presupposti antropologici e ideologici marcatamente anti-cristiani e anti-borghesi. Il “non detto” di Marx e del marxismo dell’epoca emergeva in piena luce se confrontato con la riflessione weberiana, assai più esplicita e trasparente nel proprio percorso genetico. Tanto in Weber quanto in Marx albergava un “movente nascosto”, un “interesse fondamentale”, ossia l’emancipazione dell’uomo da una condizione di assoggettamento ed alienazione imposta dalla modernità capitalistica (p. 86). Löwith coglieva perfettamente l’ascendenza nietzscheana presente nella epistemologia weberiana, la quale non riusciva a dare fondamento oggettivo ad una ricerca scientifica che, non potendo essere realmente “avalutativa”, finiva nei fatti per essere soltanto “disincantata”. D’altro canto, non occultando la soggettività dei criteri di valore, Weber svelava quanto rimosso dall’analisi di Marx: il processo di razionalizzazione innescato dal capitalismo non è di per sé teleologicamente orientato al suo superamento in senso rivoluzionario. Occorrerà sempre la decisione di un soggetto che interviene nella dinamica storica, di per sé tutt’altro che necessitata a muoversi in un’unica direzione prefissata. Detto ciò, Weber non intendeva “superare, insieme con la divisione del lavoro, l’umanità specifica del mondo razionalizzato, l’umanità estraniata da sé stessa” (p. 91), come invece era nelle aspirazioni di Marx. Löwith ne ricavò l’insegnamento secondo cui non può esistere umanità che “in questa o quella figura determinata” (p. 92), e la peculiarità dell’uomo risalta proprio nella capacità di non essere reificato rispetto a queste determinazioni inevitabili, necessarie per giunta. La responsabilità dell’agire individuale subentra alla felicità dell’esistere collettivo, questa la lezione appresa da una lettura di Weber quale critico dei presupposti antropologici della filosofia di Marx. Più nel dettaglio, “Löwith mette in questione l’assunto secondo cui rapportarsi a sé come a qualcosa di estraneo, esteriorizzarsi e oggettivarsi in ruoli e in forme sociali determinate e limitate, è in quanto tale segno di alienazione dell’uomo dalla sua autenticità umana. Come se questa esistesse già prima o al di là degli stessi processi di determinazione sociale cui l’individuo è rimesso nella realtà storico-sociale moderna” (pp. 93-94).

Karl Löwith (1897-1973)

Quanto si produsse in Germania e in Europa nel corso degli anni Trenta fu per Löwith, come per molti altri suoi compatrioti in analoghe condizioni, la scossa che ne condizionò il prosieguo della vita e dell’attività filosofica. Anzitutto ne determinò l’esilio che, dopo un breve soggiorno a Roma, lo portò prima, dal 1936 al 1941, in Giappone e quindi, dal 1941 al 1949, negli Stati Uniti d’America. Come rileva Fazio, negli scritti dell’esilio “interverrà una nuova esigenza: quella di recuperare parametri di misura assoluti in grado di veicolare il senso dei limiti ontologici dell’azione umana” (p. 111). Riconoscendo alcune delle obiezioni mossegli dall’amico Leo Strauss, con cui dal 1932 intratteneva una feconda corrispondenza, Löwith prese atto che “per salvare un metro di misura di ciò che è naturalmente umano è necessario guadagnare un parametro di riferimento sovrastorico, valido per ogni tempo” (ibid.). Il libro di Fazio dimostra che gli eventi storico-politici non fecero altro che esplicitare a pieno quanto già si agitava sotterraneamente nell’analisi che Löwith aveva fin lì condotto allo scopo di mostrare quanto le critiche radicali post-hegeliane del mondo cristiano-borghese fossero incapaci di risolvere il problema dell’alienazione dell’uomo moderno. Una condizione, quest’ultima, a cui si applicavano rimedi assolutamente peggiori del male e di cui non si vedevano invece le intrinseche potenzialità emancipatorie, peraltro già intraviste dallo stesso Hegel.

È in questo periodo della sua biografia umana e intellettuale, “gli anni della decisione” li chiama Fazio, che nascono le due opere più note di Löwith: Da Hegel a Nietzsche e Meaning in History (tradotto in italiano col titolo: Significato e fine della storia). In esse egli intese “mostrare come la secolarizzazione dell’escatologia cristiana abbia attraversato longitudinalmente l’intera storia del pensiero occidentale e sia stata alle origini della sue più profonde patologie culturali” (p. 121). Da questo punto di vista la seconda, cronologicamente successiva, delle due opere illumina ancor meglio la prima, la quale si dedica alla storia (filosofica) dello “spirito tedesco”. In tale spirito quelle patologie hanno trovato “il loro ultimo terreno di radicalizzazione e di estremizzazione” (ibid.). L’esito del processo di secolarizzazione è stata l’investitura dell’uomo quale signore indiscusso della storia, illimitato nelle possibilità di esplicazione della propria volontà di dominio e di potenza.

Convincente è anzitutto la critica a Heidegger, di cui Löwith mostrò bene sin dalla seconda metà degli anni Trenta quanto fosse spiritualmente omogeneo con l’atmosfera e la mentalità naziste. La recente pubblicazione degli heideggeriani Quaderni neri ha fornito la definitiva conferma. Löwith lo aveva coerentemente dimostrato sul piano squisitamente teoretico, tanto da scrivere nei suoi ricordi autobiografici pubblicati in Giappone nel 1940: “sono sempre espressioni di violenza quelle che definiscono il vocabolario della politica nazionalsocialista e della filosofia di Heidegger” (cit. a p. 147). Il nichilismo era all’origine tanto della filosofia primonovecentesca, inaugurata dalla sinistra hegeliana e soprattutto da Nietzsche, quanto dell’ideologia del movimento nazista, traduzione politica di massa di uno spirito, quello tedesco, di “eterna protesta” e che della distruzione aveva infine inteso fare un principio e un valore di intransigenza assoluta, un granitico mito mobilitante.

Fazio sottolinea come l’imponente quadro storico-genealogico ricostruito in Da Hegel a Nietzsche si concluda sostanzialmente con una domanda, ovvero “come fuoriuscire dalle logiche della secolarizzazione e salvare, nel tempo del disincanto, un metro di misura di ciò che è universalmente e naturalmente umano” (p. 172). Löwith avrebbe trovato fuori dall’Europa “nuovi stimoli per impostare una risposta” (ibid.). E così Meaning in History, pubblicata nel 1949 negli Stati Uniti (riedita poi in Germania nel 1953), è opera che non si limitò a ribadire e approfondire quanto acquisito nel capolavoro precedente, ma aprì una nuova fase di ricerca.

Löwith fu decisamente influenzato dal soggiorno in Giappone. Egli fu colpito dal fatto che nella Terra del Sol Levante tutti i capisaldi della civilizzazione europea dal punto di vista tecnico e materiale erano stati rapidamente impiantati e assorbiti senza una contemporanea assimilazione dell’ethos occidentale, da cui quegli stessi capisaldi erano originariamente scaturiti. Permaneva una cultura tradizionale che non conosceva alcun rapporto di opposizione fra natura e storia, e ricordava da vicino quel paganesimo che Löwith aveva fin lì ritenuto scomparso assieme alla civiltà greco-romana. Nell’antica cultura nipponica gli eventi, tanto naturali quanto storici, non erano considerati “né pieni di senso né insensati”, alieni da significati trascendenti o finalità morali (p. 176). E qui si fa più che mai pertinente e puntuale il rinvio di Fazio al modello della sapienza orientale del buddismo-zen quale riferimento importante per il pensiero di Löwith degli ultimi anni. Nel suo innesto con il modello greco dell’“ethos teoretico” nasce la proposta di un atteggiamento nei confronti della natura, fisica e umana, contrassegnato dalle idee di misura e di equilibrio, nonché da una “saggezza del presente” che della tradizione moderna conservi e rinnovi il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze e dei diritti universali dell’uomo (cfr. ivi, pp. 229-230).

Se il male è la hybris europea di chi pretende di conoscere e dominare il corso della storia, la terapia di Löwith viene presentata da Fazio come una sorta di “antropologia dell’ecoappartenenza”, una rinnovata relazione tra uomo e natura per sancire il rifiuto di ogni autoassolutizzazione e autodivinizzazione dell’uomo moderno.

[articolo originariamente apparso su «Filosofia politica», XXX, n. 2, Agosto 2016, pp. 358-361]

Giulio Aristide Sartorio, Tigre che lotta con serpente (1895-1899 ca.)
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3 pensieri su “Karl Löwith e la difesa della modernità contro se stessa

  1. Lowith, superbamente recensito da Danilo Breschi. Illuminante, drammatica attualità:
    “L’irriducibilità di ogni singolo uomo veniva mortificata fino all’annullamento”. Angoscioso, predittivo. Incombente minaccia, che l’odierno pensiero politico-culturale fatica a percepire.

  2. Magnifica recensione ad un libro importante e “corposo” che, come giustamente dici, è stato scritto con linguaggio rigorosamente filosofico ma attento all’assoluta comprensibilità.
    E’ prezioso il suggerimento che Karl Lowith andrebbe spesso riletto e rimeditato. Ogni volta si colgono sfumature nuove che confermano o, talvolta, riequilibrano la comprensione di alcune sue tesi
    Profondissima la critica ad Heidegger.
    Molto appropriata la forte sottolineatura di quanto il suo soggiorno in Giappone influì sul suo pensiero.
    Ben sottolineata la convinzione di Lowith di quanto quella società mantenesse una cultura che mai opponeva natura e storia e che fece ritrovare al filosofo quel paganesimo che riteneva scomparso con la civiltà greco-romana. Gli fece ritrovare quella “saggezza del presente” che, in tempi moderni, rinsalda “il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze e dei diritti universali dell’uomo”.
    Verissima “la teoria dell’ecoappartenenza” che, come tu ben dici , è “una rinnovata relazione tra uomo e natura per sancire il rifiuto di ogni autoassoluzione e autodivinizzazione dell’uomo moderno”.

    Molti complimenti Danilo, hai scritto una bellissima recensione di godibile lettura, nonostante le “asperità” dell’argomento.
    Un caro saluto.
    Annamaria

  3. Giudico molto interessante quella serie di aspetti in cui si mette in risalto il fatto che dalla tradizione giudaico-cristiana sia emerso nella Civiltà occidentale un movente di condizionamento sociale da cui non si può prescindere nella comprensione storica. Questo ha messo in moto dinamiche molto complesse, e di vasta portata, culminanti, per quanto concerne determinati dettagli, nella nascita del sistema capitalista (così come appunto visto da Weber). Capire che tale organizzazione sociale non genera spontaneamente conseguenze in grado di poter produrre un cambiamento del suo assetto, è un’operazione intellettuale, profonda e intelligente, che supera la visione marxista. La prospettiva di un’evoluzione dell’Occidente verso un “Brave New World” è un’idea che ho esaminato nel mio saggio sul romanzo distopico di Huxley, mettendo proprio in evidenza questo possibile passaggio alla volta di forme di secolarizzazione weberiane al grado massimo di irrazionalità. Rinvenire nell’irrazionalismo cristiano occidentale il fattore di tragici lati negativi degli eventi vissuti lungo l’arco dei secoli, costituisce, a mio modesto parere, data la difficile confutabilità di simile giudizio storiografico, procedura scientifica e obiettiva. Nel caso in cui si coglie questa dimensione all’interno della storia tedesca appaiono infatti nitide le ragioni del fenomeno nazionalsocialista: naturalmente si tratta anche qui di una fenomenologia articolata, la quale tuttavia senza il tronco alle cui radici sta Lutero, molto probabilmente, non avrebbe trovato accesso nel mondo. La vocazione volontaristica dello spirito tedesco può essere considerata un equivalente della ricerca del successo nell’etica capitalistica. La complementare vocazione nazionalistica (si veda Fichte) non è altro che il rovescio della medaglia. L’origine dell’antisemitismo nazista ha pertanto la sua causa in retrostanti momenti di elaborazione (pseudo)concettuale (di cui fa parte il superomismo): il Mosè della Germania caduta in balia del nazionalsocialismo è Lutero. Quando Löwith osserva che nella civiltà nipponica il capitalismo non ha fatto presa con lo stesso spirito dell’Occidente, fa notare una cosa rilevantissima: cioè che il sostrato sociale di quel popolo orientale è legato a un sistema religioso “liberale”, non fonte di nevrosi (e per tal motivo richiama l’antico paganesimo, positivo, greco-romano). Infatti un prestatore d’opera giapponese non dovrebbe vedersi nei panni di qualcuno vittima dell’insuccesso nel meccanismo della predestinazione protestante; dovrebbe, in maniera più sana, seguire un’etica (del dovere) che ricorda la sostanza di quella stoica alla base dell’Impero romano. Quando allora si parla di difesa della “modernità”, credo più opportuno ragionare di “depurazione”: nella misura in cui l’Occidente sia in grado di recuperare le sue radici positive, trovando un equilibrio tra la persona e la comunità, fra i concetti di solidarietà (uguaglianza) e di libertà (mediati da quello di “fraternità”, vale a dire il cemento di una società sana, non utopica, la quale dà a ognuno secondo i suoi meriti e secondo i suoi bisogni).

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