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Meglio di niente o niente di meglio?

di Franco Biagioni

Meglio di niente/niente di meglio. So che l’autore ha previsto la possibilità di rovesciamento del titolo: “niente di meglio”, e a me la locuzione, rovesciata, piace quasi di più. Lo spirito con cui si propone è positivo, e ha in uggia tutte le lamentele che si fanno, a volte gratuitamente, sulla nostra società: direi che alla base sta la convinzione che “non è vero che si stava meglio quando si stava peggio”, ma quando si stava peggio si stava peggio davvero (pag. 58). Quindi: bando ai laudatores temporis acti, che, da parte loro, se glielo proponessimo, si guarderebbero bene dal tornare al tempus actum. Sarà che ormai siamo troppo abituati ai comfort della vita moderna, che il nostro ventre è pingue e abituato a mangiar bene, e si disabituerebbe male. Quanto al far la guerra credo proprio che non ci adatteremmo: meglio avere un esercito di professionisti, e che ci pensino loro. Poi, per completare, abbiamo anche un esercito di badanti che ci sollevano dall’accudire i nostri vecchi. Allora, di che ci lamentiamo, se non c’è niente da lamentarsi? No, c’è di che lamentarsi, eccome! ma dobbiamo vedere le lamentele all’interno del sistema, per migliorarlo, non contro il sistema; ché, facendolo cadere, ci potremmo ritrovare dalla padella nella brace.

Per dire che cos’è che non va, mi torna alla mente una frase di Aleksandr Isaevič Solženitsyn: “È noto perfino in biologia: condizioni troppo favorevoli non sono vantaggiose per gli esseri viventi. E oggi è nella vita della società occidentale che il benessere ha cominciato a rivelare il suo volto funesto“. Ci troviamo nella condizione di una società arrivata al massimo del benessere, e molte delle contingenze negative possono aver origine proprio da questo; e sono state aggravate, o comunque rese più evidenti, dalla globalizzazione seguita al crollo dei regimi comunisti, che ha gettato l’Italia in un contesto mondiale, con la conseguente perdita di “quelle favorevolissime condizioni geopolitiche che le consentivano di concentrare scelte economiche e politiche entro la sola dimensione nazionale e locale” (pag. 24). Ebbene, la sfida è: può avere questa società, dentro di sé, le forze per migliorare i propri aspetti negativi?

Secondo Danilo Breschi, sì. Basta cercarle e riproporle seriamente all’uomo occidentale. Dove si cercano? L’autore individua quattro direttrici di ricerca, e in base ad esse articola i capitoli del suo libro: Storia, Politica, Religione, Educazione. È in questi quattro ambiti che bisogna cercare. La democrazia occidentale, o democrazia liberale, che ha come primo presupposto la libertà, da una parte consente all’uomo, a ciascun uomo, l’affermazione dei propri valori; dall’altra ha bisogno di esser nutrita di questi valori. La presenza incombente sulla nostra società, la nube che la minaccia, ma anche la malattia sottile, inavvertita, che la consuma, è, secondo Breschi, e non posso non concordare con lui, il nihilismo.

Nihilismo: la perdita di valore dei valori. Ora la libertà civile è una condizione dell’uomo nella società, non è di per se stessa un valore dell’uomo; propria dell’uomo è la libertà di arbitrio. La prima consente il libero esercizio della seconda: ma la seconda deve avere dei contenuti ideali. Non è alla libertà civile che spetta di riempire la libertà di arbitrio degli uomini: spetta alla cultura, attraverso, appunto, la storia, la politica, la religione, l’educazione.
Invece, lamenta Breschi, della storia si può dire che è sopraffatta dalla cronaca: cronaca superficiale, autoreferenziale, acritica, che si impone attraverso tutti i mezzi di comunicazione, e con la sua “insostenibile leggerezza … parifica, appiattisce e ottunde tutto”; l’auspicio è il ritorno a una cultura critica, “che fa poggiare meglio i piedi per terra in modo da spiccare meglio, e con più forza, il volo” (pagg. 10-11).

Riesaminando criticamente la storia dell’Italia unita, possiamo prendere consapevolezza dei vizi che il nostro paese si trascina dietro e che gli impediscono di rinnovarsi: sono mancate le condizioni che avrebbero “consentito l’edificazione di uno stato veramente unitario e uniforme”, perché è stato trascurato il “bene pubblico” per fini di parte; abbiamo avuto una burocrazia pesante e incapace di rinnovarsi e facile a cadere nella corruzione; abbiamo avuto il peso morale di quello che l’autore chiama “atavismo”, e quello economico del debito pubblico eccessivo, oltre al fenomeno tipicamente italiano della “questione meridionale” e delle mafie. Occorre prendere coscienza di questi nostri limiti e cercare di correggersi.
“A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti …” cantava il Foscolo. Ecco, le egregie cose: sembra che da noi nessuno sia disposto a impegnarsi in qualcosa di grande. Forse solo nello sport, qualcuno ci prova. Quello che manca è la passione per l’epica, quella passione che l’autore ammira nel cinema americano, o che abbiamo conosciuto a scuola nelle grandi epopee classiche, che tiene vivo il mito della tradizione e della Patria: “noi italiani, ed europei tutti, dovremmo capire quanto abbiamo perso recidendo i legami con le nostre antiche radici greche”.

Mancano le grandi narrazioni, che sollevino il pensiero dalle beghe di tutti i giorni per risvegliare grandi ideali. “Come non capire quanto una comunità di cittadini liberi, cioè critici e responsabili, si nutra di epica?”. E come possiamo, nei programmi scolastici, togliere spazio all’epica? E come mai il nostro cinema non si attenta a saggiare il genere epico, che pure, negli Stati Uniti, prospera? Come dicevo sopra, abbiamo un esercito di professionisti, e la guerra, nella dannata ipotesi, la farebbero loro. Ma non è questione di fare la guerra, si tratta di quell’eroismo quotidiano che dispone a confrontarsi con la vita in modo più serio.

Nel libro si parla di democrazia: e si propone anche una definizione che, per essere utile, deve riferirsi alla democrazia così come opera e non a quello che dovrebbe essere. Sulla scorta di Giovanni Sartori, l’autore intende la democrazia elettorale come “quel sistema in cui e con cui si decide chi deciderà le questioni riguardanti il vivere associato”. Si tratta quindi di un governo “fondato sull’opinione (pubblica) e sulla libertà” (pagg. 98-99). Alla base della democrazia è quindi l’opinione che ognuno (ma ognuno vuol dire tutti) si fa delle cose, non la verità, perché una democrazia fondata sulla verità diventerebbe coercizione. È quindi il regno del pluralismo, in cui tutte le opinioni hanno lo stesso peso, ma anche il regno in cui prevale l’opinione più seguita, l’opinione della maggioranza, che può ben non essere la migliore. Si parla di preferibilità di un’opinione rispetto a un’altra, “non di verità” (pag. 101). Ma il fatto che non si dia differenza di valore fra le varie opinioni, porta al relativismo.
D’altra parte senza relativismo il sistema non vivrebbe: il problema nasce quando si va a decidere di questioni di valore che vedono il popolo diviso: questioni antropologiche, questioni sulla vita, sulla morte, sulla famiglia mettono in crisi il sistema democratico, perché su questi temi non è praticabile il compromesso: al compromesso si può accedere su questioni di interesse, ma non su questioni di principio, perché il principio è di per sé non soggetto a gradazione: in questo ambito vedo la più grande e più pericolosa criticità delle democrazie. Mi sembra che esse funzionino bene solo quando il popolo, tutto il popolo condivide gli stessi principi, e si viene a compromesso solo sugli interessi. Nel nostro mondo, che, oltre che diviso sui fondamentali, tende a diventare anche multiculturale, il problema è destinato a ingigantirsi.

La democrazia liberale vive nella cosiddetta “classe media”, che oggi non comprende solo ceti dirigenziali e impiegatizi abbastanza privilegiati, ma anche buona parte della classe operaia, che ha raggiunto elevati livelli di benessere. Ma, in seguito alla crisi economica, la classe media oggi è in declino: l’autore parla di “erosione della classe media”, col rischio che la parte meno privilegiata di essa abbandoni la fiducia nella democrazia per rifugiarsi nel populismo. Un buon servizio non l’ha fatto la sinistra ex marxista, i cui accademici sono stati conquistati da “postmodernismo, multiculturalismo, femminismo e teoria critica”, dimenticando gli interessi di quei lavoratori che erano il loro target, e che costituiscono oggi il tessuto della società democratica.

Citando Francis Fukuyama, l’autore rileva la necessità di una critica del liberalismo all’interno del liberalismo stesso, che dovrebbe: non considerare più i mercati “un fine in sé”; ripensare (è da tanto che si dice!) i fondamenti dell’economia neoclassica; rivedere la validità del “PIL come misura accurata del benessere nazionale”; proporre “una critica della globalizzazione… connessa ad una aggiornata e democratica idea di ‘interesse nazionale’” (pag. 65). Con questo atteggiamento, l’autore ritiene che il liberalismo potrebbe essere in grado di rispondere alle istanze di una società che cambia e a trovare al suo interno “un riequilibrio tra i principi di libertà e uguaglianza, suoi cardini insostituibili”, che consenta di affrontare le sfide sempre nuove che gli vengono proposte. E le nuove sfide ci saranno sempre, perché “la storia non finisce mai, perché è la politica a non finir mai. Finché l’uomo abiterà questo pianeta” (pag. 66).

Un’altra sfida che si pone oggi alle democrazie occidentali, e a cui avevo già accennato, è quella del “pluralismo” e di quello che, con una parola di moda, si chiama “multiculturalismo”. È una sfida nuova, conseguente ai flussi migratori che, in questi ultimi anni, stanno aumentando in modo esponenziale. L’autore, citando Nicola Matteucci, osserva che bisogna mettere in chiaro che pluralismo e multiculturalismo non sono la stessa cosa: “se pluralismo è l’accettazione del nuovo e del diverso all’interno di un confronto pacifico di leale concorrenza, ciò non significa che ogni novità e ogni diversità possano essere incamerate e gestite all’interno della logica della convivenza politica liberal-democratica” (pag. 90). Bisogna interrogarsi “su quanta diversità può tollerare una società” (pag. 92) per essere governabile.

È chiaro che il problema è costituito soprattutto dagli immigrati islamici. Se l’appartenenza etnica e l’identità religiosa costituiscono “matrici esclusive e totalizzanti di identità, la politica si paralizza e la società civile deperisce fino all’inciviltà. Pertanto l’integrazione è risorsa per chi arriva e necessità per chi riceve” (pag. 92). La costituzione di ghetti, in cui gli immigrati restano isolati, è inopportuna e, come dimostrano i fatti, pericolosa. E certo la sfida è difficile, e non è detto che se ne venga a capo: non se ne viene sicuramente a capo senza “la buona volontà di chi è inizialmente ospitato”. Che questa buona volontà ci sia possiamo solo sperarlo.
Si è detto della necessità di un’iniezione di valori nella società liberale attuale: chi più della religione potrebbe assolvere alla funzione di fecondare la società con valori che possano sfidare il nihilismo contemporaneo (e il relativismo che ne è il terreno di coltura)? Invece l’autore lamenta che “il mancato aiuto di una religione che si senta (anche) europea, perché nata dall’incontro di fede e ragione, aggrava la situazione” (pag. 22). Il Cattolicesimo dovrebbe avere proprio queste caratteristiche: ma ci sono sintomi che le stia perdendo, e rischi di diventare una religione volontaristica. Questo, secondo l’autore, è stato particolarmente avvertito all’avvicendarsi di due papi così diversi: Benedetto XVI, di cui basterebbe ricordare il famoso discorso di Ratisbona per inserirlo in una linea di conciliazione di fede e ragione e di ragionevolezza della fede, e Papa Francesco, che ha un atteggiamento piuttosto diverso: in lui la critica del sistema economico-politico occidentale rischia di sconfinare nel populismo, e il cattolicesimo di apparire “come una religione della giustizia sociale piuttosto che della salvezza” (pag.148). Basti pensare ai frequenti richiami alla povertà. Pesa inoltre la sua provenienza da una “terra lontana”, che lo rende meno aperto alla comprensione dell’Europa e dei suoi problemi.

Quarta direttrice, l’educazione. Qui vengono a tema concetti di grande peso: intelligere, in senso etimologico intus legere: non si tratta di una razione di nozioni da imparare, ma di avviare alla capacità di vedere dentro alle cose; e prenderle sul serio: non si può ridurre tutto a satira, a comicità; sarebbe una strada verso il nihilismo. Filosofia, intesa nel suo senso di “amore della sapienza”; non studiare solo per acquisire una qualifica o un’abilità, ma studiare per sapere, per incamminarsi sul percorso che porta a una meta che è descritta in un concetto che è forse il più pesante di tutti: verità. Verità che non è mai definitivamente raggiunta e posseduta, ma esige che “lo sforzo e la tensione” (pag. 158) verso di lei non cessi mai.

Sullo sfondo del problema educativo sta la scuola: e la scuola deve essere amata e rispettata da chi si occupa di lei: in particolare bisogna tenere sempre presente che “il lascito più prezioso della scuola” è l’idea di studio come metodo. Non si può pretendere di insegnare tutto, si deve dare agli studenti il metodo che consenta loro di affrontare lo studio di qualsiasi cosa: di intus legere. Nel tempo di Internet è ancor più necessario, per non smarrirsi nella rete, avere “cultura storica e spirito critico”, perché, afferma Werner Herzog, “Internet non ha struttura. Ma la struttura deve essere in te” (pag. 162).

Quindi quattro pilastri – storia, politica, religione, educazione – che l’autore pone all’attenzione, e alla responsabilità, innanzi tutto di chi governa e di chi fa opinione, ma anche di ciascuno di noi, perché rifletta sulla necessità di lavorare seriamente a migliorare la nostra società: che non sarà certo perfetta (quando mai c’è stata una società perfetta?), ma è sicuramente una ricchezza da coltivare: è “meglio di niente”, è cioè un principio di libertà e di civiltà a cui non dobbiamo rinunciare, ed è aperta al contributo che tutti possiamo dare per renderla migliore. Oltre tutto, all’orizzonte, non si profila “niente di meglio”.

Mauro Pagliai Editore, Firenze 2017, pp. 192, € 12

In vendita presso: librerie, circuito Unicoop Toscana e on-line: http://www.mauropagliai.it/php/sl.php?bc=41&idlibro=6688