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La civiltà della crisi

di Michele Monserrati (Visiting Assistant Professor of Comparative Literature and Romance Languages, Williams College, MA, USA)

recensione a Danilo Breschi, Meglio di niente. Le fondamenta della civiltà europea, Mauro Pagliai, Firenze 2017, pp. 192, € 12.

“Meglio di niente” invita a fare una riflessione sulla crisi italiana ed europea, indicando una delle ragioni del suo prolungarsi nel modo superficiale con cui i cittadini sono stati abituati a non riflettere e a non approfondire le notizie quotidiane, da parte di canali di informazione sempre più appiattiti sul presente e sulla cronaca nera. Per chi abbia l’abitudine di leggere giornali e guardare notiziari di altri paesi non sfuggirà di notare che questa ossessione per la ‘cronaca nera’ (fino al punto da rivelare con ‘assoluta’ precisione il numero di coltellate che il figlio ha inferto alla madre dopo averla picchiata e strangolata, ecc.) è un fenomeno soprattutto italiano, tanto da pensare che, in fondo, i pregiudizi dei viaggiatori europei ottocenteschi in Italia, sugli italiani come popolo violento, impulsivo e passionale, non siano poi del tutto infondati e inattuali.
Il libro quindi si propone come contributo al tema della crisi della civiltà europea, esplorando uno dopo l’altro i suoi cardini fondamentali, così come si esplora il corpo di un malato per vedere se, e dove, si deve intervenire per trovare la cura. Con questa premessa si apre un libro fatto di capitoli brevi, tutto sommato indipendenti ed estemporanei, eppure ricchi di giudizi lucidi e coraggiosi, che non temono di essere in netto conflitto con idee correnti e opinioni ben consolidate. Ad esempio l’autore, parlando della fucina di miti americani e di storie esemplari rappresentato da Hollywood, lamenta la mancanza in Europa (e in Italia) di un racconto “epico” delle sue fondamenta (p. 53), quando si fa fatica a trovare radici storiche comuni in Europa, oltre a personaggi storici che si elevino dalla loro appartenenza nazionale per diventare personaggi simbolo, riconosciuti e apprezzati in tutta Europa. Il paragone con Hollywood risulta quanto mai ambizioso, se pensiamo che l’Europa manca di un vero e proprio ‘cinema europeo’ che non sia la sommatoria di grandi film nazionali; di conseguenza manca una lingua comune con cui questa ‘epica’ dovrebbe esprimersi.
Oppure, si vedano le critiche ad uno dei personaggi più popolari e celebrati del pianeta, Papa Benedetto, in contrasto con gli elogi a Papa Ratzinger, sul cui giudizio storico pesano le accuse di aver coperto fin troppi casi di preti pedofili, che sono poi emersi e hanno creato un danno irreparabile all’immagine della chiesa cattolica nel mondo. La forza di questo libro, in definitiva, consiste, a mio parere, nel proporre giudizi inattuali e controcorrente, come la rivalutazione del pensiero di Francis Fukuyama, sulla cui irrilevanza nessuno ormai dubita, o l’importanza di recuperare l’immaginario poetico del fanciullino, per navigare attraverso la nostra epoca secolarizzata. Insieme a questi giudizi temerari, il libro presenta tematiche cruciali su cui difficilmente si può non essere d’accordo con l’autore, come il fenomeno del “familismo” italiano, il cancro della mafia e i problemi strutturali del Mezzogiorno che sono i problemi storici dell’Italia, senza affrontare i quali non si può pensare seriamente di costruire un futuro.
La prima sezione del libro si apre con una riflessione molto bella sull’Europa attuale, che sembra incapace di produrre una coscienza storica che ne chiarisca le origini e le direzioni future del proprio percorso, per appiattirsi su un presente percepito come eterno. Viene da pensare se sia la società odierna europea ad avere abbandonato lo studio del passato, o se piuttosto è il passato a rappresentare un metro di paragone inadeguato per capire un presente che è caratterizzato da una accelerazione tecnologica mai vista nella storia (con questa rapidità).
La seconda sezione del libro (“Il peso della politica”) parla, tra le altre cose, dell’ormai accertato fallimento delle politiche ‘multiculturali’. Le politiche multiculturali sono anche datate, in quanto rispondono a una logica che vede nell’immigrazione un fenomeno prescrittivo, che cioè si può regolare e contenere con norme, mentre gli ultimi anni si è assistito all’immigrazione come un fenomeno di massa, di cui si può quasi esclusivamente prendere atto, cercando soluzioni al suo interno per offrire coesione e armonia tra le varie componenti etniche. Accettando l’immigrazione come il ‘geist’ della nostra epoca, le soluzioni calate dall’ ‘alto’ lasciano il tempo che trovano, mentre più efficaci sarebbero forme di integrazione che nascono dal ‘basso’, che richiederebbero lo sforzo dello stato nell’educare i cittadini a vivere con il ‘diverso’.
Il libro si conclude, un po’ a sorpresa, con una condanna della pornografia, come espressione di una società maschilista che commette violenza sulle donne. Se il problema sollevato è senza dubbio grave, è comunque una versione assai riduttiva di un fenomeno che ha implicazioni nella cultura, nel linguaggio e nel costume degli italiani e pervade il discorso pubblico, al di là delle sue manifestazioni più plateali. Le soluzioni che l’autore propone, “un patto di mutuo soccorso” (p. 190) tra sessi, richiedono un approfondimento ulteriore e una riflessione che pure non manca in altri capitoli del libro.
Al termine di questo viaggio attraverso una impressionante quantità di questioni che il libro è capace di assorbire e assemblare, il lettore che, guardando la copertina del libro, si aspettava una sorta di trattato sulle “fondamenta della civiltà europea” rimane un po’ interdetto. L’impressione è che l’autore abbia indicato i fondamenti di un edificio che non esiste.
Alla domanda “che cos’è la civiltà europea? Qual è la sua consistenza storica e di pensiero?” Il libro non risponde (né potrebbe farlo). Tra l’altro la scelta dell’immagine di copertina che riproduce il monumento funebre di Nereida, di stile greco ma di origine persiana e costruito nell’attuale territorio turco, non fa che aumentare i dubbi sui confini e la presunta omogeneità storica della civiltà europea. Il sospetto che mi è venuto alla fine della lettura del libro è che la parola “crisi” (di cui l’autore parla come di una ossessione dei nostri giorni) altro non sia, forse, che l’unica caratteristica fondante della nostra civiltà europea. Qui soccorrono le parole del filosofo iraniano Javad Tabatabai nel suo saggio “L’incomprensione delle civilizzazioni: il caso della Persia”, ad un certo punto scrive: “Identità, per come è intesa nel mondo islamico – contrariamente alla concezione europea –, è identità come uniformità, monotona e monolitica; l’identità europea è ciò che è solo perché è plurale e in evoluzione. Vive della crisi e nella crisi; il pensiero islamico ha difficoltà a comprendere questo stato di crisi permanente, dal momento che l’identità nel mondo islamico è la nostra ‘autenticità’, la quale è inoltre autentica solo in quanto rimane intoccabile, immutata e immutabile”. Rispetto ad altre civiltà lunghissime e stabili (come la civiltà cinese, egizia, o giapponese), la civiltà europea è stata attraversata da continue invasioni esterne e guerre che hanno reso la “crisi” una situazione permanente (con la sola eccezione, forse, del periodo medievale) e distrutto la costruzione di una omogenea civiltà.
Per fugare questi dubbi, riesco ad apprezzare la sofisticata e variegata riflessione di questo libro non tanto come trattato sulle “fondamenta della civiltà europea” ma come una sorta di “manuale di sopravvivenza nell’era di internet e degli smarthphone”, che l’autore offre ai lettori che non si rassegnano alla piattezza del quotidiano, e di come spesso ci viene raccontato.