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Professore aggregato di Storia del Pensiero Politico presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi Internazionali di Roma - UNINT.

Il sottosuolo dimenticato delle elezioni comunali

Chi ha vinto in queste ultime elezioni comunali? La sinistra. Chi ha perso? La sinistra. Ma come? I cali sono del Movimento 5 Stelle, sull’orlo del tracollo. È vero. I cali sono del centrodestra, in particolare della Lega, ma direi soprattutto di una Forza Italia che, fatte salve le elezioni regionali in Calabria, si sta riducendo a terza forza della coalizione (assai sotto il 10% in molte città, Milano inclusa). È vero. Cresce complessivamente Fratelli d’Italia, forse meno del previsto. Vera anche questa considerazione, che rimanda al punto di partenza. La sinistra ha perso anch’essa perché in queste elezioni amministrative a vincere è stata l’upper class, i ceti benestanti, comunque da reddito e istruzione medio-alti, a perdere sono state le classi subalterne, il proletariato e il sottoproletariato.

Ebbene sì, queste classi esistono ancora. Anzi, oggi ben più di ieri. Negli ultimi quindici anni, tra la grande recessione del 2008 e la più recente crisi pandemica, i ceti medi si sono davvero impoveriti e molti singoli e famiglie hanno visto drasticamente diminuire il proprio tenore di vita, scivolando in non pochi casi oltre la soglia di povertà. Ma il tutto è rimasto invisibile, a parte le periodiche lamentazioni che durano lo spazio della notizia dell’annuale rapporto Censis o Caritas. A novembre scorso proprio il Censis segnalava 23,2 milioni di italiani che hanno dovuto fronteggiare difficoltà con redditi familiari ridotti, 9 milioni sono ricorsi a parenti o banche, mentre altre 600mila persone sono diventate povere (per il 2020 l’Istat ha registrato oltre 2 milioni di famiglie e 5,6 milioni di individui in condizioni di povertà assoluta). In termini di apprendimento già i dati Ocse-Pisa del 2018 hanno segnalato che circa un quarto dei 15enni italiani non raggiunge le competenze minime in matematica, lettura o scienze. Inoltre hanno messo in evidenza le differenti prestazioni a seconda dello status della famiglia d’origine: tra i ragazzi che appartengono a famiglie che si collocano nel quintile socioeconomico più basso la quota di coloro che non raggiungono le competenze minime in lettura è pari al 42,% contro il 13,8% dei coetanei che vivono in famiglie benestanti. Idem in matematica: le rispettive quote ammontano a 40,6% e 10,9% e in scienze a 38,3% e 11,4%.

Dopo le elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre scorso possiamo dire che il processo di proletarizzazione e depauperamento socio-culturale della società italiana è ormai conclamato. È emerso anche politicamente e si è tradotto in rassegnazione. Si dirà che questo è l’esito del fallimento del movimento grillino, che aveva intercettato anche la protesta di chi stava soffrendo una prolungata crisi economica, occupazionale anzitutto, dovuta all’epocale transizione industriale e tecnologica a cui dagli anni Novanta tutto l’Occidente è sottoposto dalla nuova globalizzazione finanziaria e digitale. In parte è così, ma tutto sommato è un bene. Nel senso che è finito un equivoco. I Cinque Stelle non sono mai stati un genuino movimento popolare, di lavoratori e per i lavoratori. Sono stati un esperimento dall’alto, audace e sagace per certi versi, che la Casaleggio e Associati ha tentato con successo. La loro cultura politica, però, non aveva granché della sinistra di tradizione socialista, sennò il lato assistenzialista o di sussidio statale, mentre nullo era l’intento realmente emancipativo a favore delle classi subalterne. “Uno vale uno” è servito soltanto ad accreditare una nuova non-élite come élite di governo, che ha trovato, sull’onda del voto popolare, accesso nelle stanze dei bottoni. L’incompetenza e l’improvvisazione al potere. Per il resto, si è pensato con il sussidio statale di aver trovato la risposta alla questione sociale. Al netto della sua cattiva applicazione, il reddito di cittadinanza non è vera politica sociale di sinistra. L’obiettivo è e deve sempre essere quello del lavoro (e dell’istruzione pubblica) come veicolo di emancipazione individuale e collettiva.
Di politico-culturale il M5S ha avuto solo il giustizialismo, ossia un elemento della sinistra post-comunista che, perso il marxismo, poi la socialdemocrazia, ha recuperato l’azionismo, ideologia elitaria, sofisticatamente intellettualistica, della storia repubblicana. L’ha quindi abbinato all’antipolitica, ripresa dal versante qualunquista, anch’esso fenomeno risalente ai primordi della nostra Repubblica, proprio di una destra postfascista, o meglio a-fascista, oppure anti-antifascista. Sostanzialmente non-ideologica. Niente di realmente popolare, il qualunquismo. Populista, semmai.

Dell’ultima tornata elettorale un dato domina su tutti. In questo primo turno delle amministrative si è registrato un record negativo in termini di astensionismo. Ha votato infatti il 54,69%. In pratica un elettore su due non si è recato alle urne. A questo dato si collega un altro: da Roma a Milano, da Napoli a Torino e persino a Bologna gli abitanti del centro storico sono andati al seggio elettorale in misura superiore a quelli delle periferie, le quali hanno spesso disertato le urne. A Torino, nella circoscrizione 5, su 92 mila persone aventi diritto oltre 52 mila non lo hanno esercitato, praticamente più di una persona su due. Ha votato il 43,5%: più del 13% in meno rispetto al 2016. Nella circoscrizione 6 (Barriera Di Milano, Barca, Falchera, Rebaudengo) si è addirittura registrato un 42,9% (12 punti in meno rispetto a cinque anni fa). Soltanto in centro (51,43%), nelle circoscrizioni 4 e 8 sono andati a votare oltre la metà degli aventi diritto (rispettivamente, il 50,7 e il 50,6%). A Milano l’affluenza è stata addirittura del 47,72% e solo in un municipio su 9 (il terzo) si è superato il 50% (50,86%, per l’esattezza).

A Roma, dove ha votato il 48,83% degli elettori con una diminuzione di otto punti percentuali rispetto al dato del 2016, il municipio dove si è votato di più è stato quello che va da San Lorenzo ai Parioli e comprende anche la zona di Villa Borghese (il II): qui sono andati a votare il 56,67% dei romani. Il municipio dove è stata maggiore l’astensione è il VI, più periferico, che comprende Tor Bella Monaca e Torre Angela, dove ha votato il 42,85%, ovvero sei punti in meno rispetto alla media. Ad esser puniti, si dice, sono stati soprattutto i partiti di centrodestra (a Roma, in particolare FdI; la Lega non vi ha alcun radicamento storico) e appunto i Cinque Stelle. Ma la diserzione delle urne da parte degli abitanti delle periferie dovrebbe essere preoccupazione allarmante per il maggior partito della sinistra, il Pd, che così ancora si definisce. Quanto alla destra che pretende proporsi come sociale, resta molto lavoro da fare, al netto del tranello fascismo/antifascismo in cui continua a cadere con estrema facilità.
Il fatto che ad arretrare siano stati centrodestra a trazione leghista e cinque stelle potrebbe far pensare che il populismo non è più apparso così popolare. Resta però il dato di una scelta maggioritaria per l’astensione, peraltro in un voto per una carica pubblica, quella di sindaco, che pareva la più vicina ai cittadini e la più potenzialmente efficace dopo la riforma del 1993, quella che ha introdotto l’elezione diretta del primo cittadino. Dunque il 3 e 4 ottobre scorsi hanno vinto la sfiducia e la disillusione. Evidente che certe promesse non sono state mantenute e chi si è presentato non ha convinto affatto. Così continuando, la democrazia, da sistema rappresentativo delle varie componenti della società, sempre più numerose quelle quanto più complessa diventa questa, rischia di ridursi ad un gioco di società che ogni cinque anni si organizza per poco più di un terzo della popolazione. Gioco per la società affluente, si sarebbe detto un tempo. Di chi ha redditi, livelli di istruzione, tenori e stili di vita medio-alti. Aristotele avrebbe parlato di “oligarchia”, noi oggi di “plutocrazia”; in ogni caso, il governo dei ricchi.

Può darsi si tratti di un caso, può darsi sia capitato nel momento in cui le alternative latitano, dato che sono quasi tutti al governo della nazione. Tenuto però conto che si è trattato di una consultazione a livello locale, dove a prevalere sono solitamente i temi ed i problemi di quel dato territorio, pare proprio che la politica praticata da governanti eletti dai cittadini non appaia più credibile quale strumento di soluzione. L’impressione è che la metà dell’elettorato italiano si sia presa una pausa di riflessione. Un 25-30% lo sta facendo da decenni, cosicché non ci si avvicina più alla soglia del 70% dei votanti per gran parte delle consultazioni elettorali. Ciò può essere ancora fisiologico in cosiddette democrazie mature. Manca però all’appello un 20% di elettori, che in certi casi è addirittura un 25-30%. Per tutti questi l’ulteriore impressione è che manchi un partito dei lavoratori salariati, precari, saltuari, dei disoccupati, sottoccupati, inoccupati, di chi, in generale, è in condizione economica, sociale e culturale subalterna, discendente. Non sente parlare più di emancipazione, forse non ne ha nemmeno mai sentito parlare. Se sì, ha smesso di credervi. Per questo non vota da tempo o ha appena smesso di farlo.

La nostra democrazia soffre di una sempre più grave crisi della rappresentanza. C’è tanta domanda inascoltata, incompresa. È sul lato un tempo sinistro dello spettro politico che il vuoto maggiormente si avverte, proprio quando chi dice di rappresentarlo conquista la guida delle principali città italiane. Manca una forza nazionale che metta al centro del proprio discorso e della propria azione quel tipo di emancipazione un tempo rivendicata a sinistra: lavoro (che renda liberi e indipendenti), istruzione (una scuola che sia davvero ascensore sociale), qualità della vita e lotta al degrado urbano (casa di proprietà e quartiere riqualificati, sicuri, tali da poter crescere una famiglia). Si parla tanto di crescita, oggi. Non so se sia la stessa cosa, se tocchi le stesse categorie sociali. La politica non è morta, dorme. Saranno le donne e gli uomini dell’attuale sottosuolo dimenticato a svegliarla, oppure anche loro si assopiranno per accomodarsi alle metamorfosi oligarchiche delle nuove sedicenti democrazie?
In sintesi: se vogliamo restare nell’orizzonte delle democrazie liberali contemporanee, ossia di sistemi rappresentativi a legittimazione popolare attiva, la questione sociale va ricompresa e posta al centro dell’azione politica, altrimenti si cambia forma di governo e ci si avventura in un futuro tutto da decifrare.

[pubblicato su “Il Corriere Nazionale“, 7 ottobre 2021. Si ringrazia il Direttore, dott. Antonio Peragine]