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Siete pronti a diventare Jedi? L’etica ai tempi della tecnica

Siamo immersi in un mare di tecnologia. Anzi, risucchiati dalla scintillante voragine di schermi e monitor. Nessuno è escluso. Nessuno è salvo. Nemmeno l’Oriente. Non certo quello giapponese, il primo ad essere catturato dal lato luminescente della potenza tecnologica. Non parliamo poi della Cina, che scegliendo la globalizzazione dopo il massacro degli studenti a piazza Tienanmen (tieni a mente Tienanmen, sempre!), ha deciso di cavalcare la tigre della modernità più avanzante e galoppante, dirompente, imbrigliandola con ferrea determinazione alla tirannia del Partito unico. Il tentativo è andato a buon fine, tantoché il terzo millennio pare annunciare un esordio contrassegnato quanto meno da un condominio imperiale, tra Stati Uniti d’America e Cina. Secondo le stime del Center for Economics and Business Research, la Cina supererà gli Stati Uniti e diventerà la prima potenza economica mondiale nel 2028, con cinque anni di anticipo rispetto al previsto. Un altro regalo di questa pandemia da Covid-19, virus originatosi in Cina e da lì diffusosi in tutto il mondo. La sperimentazione tecnologica in tutti i campi, da quello industriale a quello militare, dal biologico al farmaceutico, sta facendo della potenza del Dragone qualcosa che ricorda l’Impero Galattico della saga di Guerre Stellari. Mai epoca fu più comprensibile attraverso le categorie della fantascienza.

Secondo alcuni critici la saga cinematografica ideata da George Lucas apparterebbe maggiormente al genere fantasy. Comunque sia, è evidente che alla base di quella storia pulsa forte il cuore di un romanzo cavalleresco, genere letterario sorto attorno alla metà dell’XI secolo. Siamo in pieno Medioevo. Quando pensiamo a quell’epoca la prima immagine che ci viene in mente è quella dei cavalieri. Ciò si deve proprio a questa letteratura, a cominciare dal ciclo carolingio e da quello bretone (o arturiano). Evidenti la mitizzazione e la conseguente idealizzazione di un’intera epoca che ne sono conseguite come eredità per il nostro immaginario contemporaneo, ancora in parte tardo-romantico. Ma soffermiamoci un attimo a riflettere con saggezza e consapevolezza storica. Dalle invasioni barbariche del IV secolo in poi l’Europa centro-occidentale era stata oggetto di ininterrotte scorrerie di genti armate, migrazioni di massa di intere popolazioni provenienti dalle steppe e dai confini orientali del declinante impero romano. Di cavalieri ben poca traccia. Tutt’altro che paladini della povera gente. Piuttosto sanguinari guerrieri, figli della inesausta belligeranza germanica. Razzie e saccheggi come fonte primaria di sussistenza. Tutto altamente instabile. Esposto costantemente al disordine. Non poteva continuare così. Ed ecco la funzione fondamentale che svolse all’epoca la Chiesa cattolica apostolica romana nel processo di civilizzazione europea. Fu con la Riforma dell’XI secolo che il clero vincolò la classe guerriera alle ideologie cristiane. Prese così avvio la Cavalleria. Il vescovo di Laon, dall’altisonante nome di Adalberone, definì in un poema dedicato a Roberto il Pio, re dei Franchi, la natura e funzione politica, sociale e culturale del guerriero cristiano:

La Chiesa con tutti i suoi fedeli forma un solo corpo, ma la società è divisa in tre ordini. Infatti, la legge degli uomini distingue due condizioni: il nobile e il servo non sono sotto una stessa legge. I nobili sono guerrieri, protettori della Chiesa, difendono con le loro armi tutto il popolo, grandi e piccoli, e ugualmente proteggono sé stessi. L’altra classe è quella dei servi. Dunque, la città di Dio, che si crede essere una sola, è in effetti triplice: alcuni pregano (oratores), altri combattono (bellatores) ed altri lavorano (laboratores). Questi tre ordini vivono insieme e non possono essere separati; il servizio di uno solo permette l’attività degli altri due e ognuno di volta in volta offre il sostegno a tutti.
[Adalberone di Laon, Carmen ad Robertum regem, trad. it. di M. L. Picascia].

Mattia Preti, San Giorgio (1676-1678)

Nasceva il Cavaliere. Questi si ergeva a difensore della società cristiana. Al mestiere delle armi il guerriero redento doveva abbinare saldamente la cortesia e il rispetto dell’avversario. Doveva seguire un codice etico. Ferrea e intransigente doveva farsi la sua condotta. Prima di ricevere l’investitura, lunga e faticosa era dunque la via del guerriero cristiano, cavalier servente. All’epoca delle Crociate la sua figura si sarebbe poi fusa con gli ordini monastici. Sorsero così gli ordini religiosi cavallereschi. Il cavaliere è definitivamente divenuto la figura normativa che incarna le virtù cristiane. Normativa perché dovrebbe farsi modello. Non più la faida, ma il duello. Non più l’amor carnale, ma quello cortese. Il nemico si sconfigge, nettamente, ma non si uccide, o quanto meno non è necessario. È lo stesso codice di un membro dell’ordine Jedi di Guerre Stellari.

Cosa c’entra mai tutto questo con la tecnica? Mi viene in mente un volumetto pubblicato in Italia alcuni anni fa. Il suo autore, Karl Popper, non è il prototipo del cavaliere. Non certo a prima vista. Non lo è, però, solo per chi non abbia mai visto Guerre Stellari. Altrimenti sa che un grandissimo Jedi, se non il più grande, certamente per saggezza, è il minuscolo Yoda. Apparentemente inerme, è invece enorme la sua conoscenza della Forza. Proprio come l’intelligenza di Popper nei confronti della potenza della Tecnica. Torno così a sfogliare le pagine di Tecnologia ed etica (pref. di D. Antiseri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013). Questo agile libretto consente di poter immediatamente apprezzare l’acume del saggio Popper, ispirato per un’intera vita, quasi centenaria, ad un razionalismo equilibrato e autocritico, peraltro espresso con linguaggio piano e comprensibile da tutti. Ne consiglio la lettura. Il volumetto contiene tre testi che riproducono, rispettivamente, una conferenza ed un dibattito a cui il filosofo austro-inglese partecipò nel settembre del 1992 con alcune personalità della politica, della cultura e dell’economia tedesche. A ciò si aggiunge una breve intervista a cura di un giornalista tedesco.

Karl R. Popper (1902-1994)

Invitato dall’Unione Industriale Automobilistica Tedesca (Vda), Popper affronta il tema del rapporto tra tecnologia ed etica. Punto di partenza della conferenza è l’analisi del movimento dei Verdi, che, all’epoca già affermatosi a livello internazionale, aveva però avuto in Germania il primo sviluppo importante con annesso successo politico-elettorale già dalla fine degli anni Settanta. Popper non si nasconde che molti dei nostri attuali (negli anni Novanta come trent’anni dopo) problemi ecologici derivano dall’esplosione demografica. Una Terra sovrappopolata produce «permanentemente tutti gli errori ecologici possibili» ed è dunque evidente che «un movimento verde razionale» potrebbe risultare alquanto utile alla collettività. Una sorta di sentinella in servizio permanente effettivo che ci mette in guardia e suona l’allarme ogni qualvolta i nostri comportamenti possono effettivamente mettere in pericolo l’ecosistema. Effettivamente, però. Pertanto la messa in guardia e l’allarme devono giungere da analisi rigorosamente scientifiche e non pregiudizialmente avverse all’uso della tecnologia. Popper invece registra un’ostilità preconcetta dei Verdi tedeschi nei confronti della tecnica e delle scienze della natura. Ciò è peculiarmente tedesco, egli sostiene. Dipende dal fatto che «i tedeschi si fanno impressionare dai loro filosofi anche quando questi filosofi dicono delle assurdità incomprensibili, che purtroppo sui tedeschi fanno una profonda impressione».

Principale bersaglio della critica popperiana è dichiaratamente Heidegger e il suo lascito intellettuale, assai più vasto ed influente di quel che si potrebbe pensare. Popper non usa mezzi termini: «Io ritengo Heidegger un impostore, un falsario, e lo disprezzo perché lo ritengo un vile e un opportunista». E aggiunge: «La sua fama mondiale è uno scandalo per la filosofia, sia essa tedesca o internazionale». Il segreto del fascino esercitato dalla filosofia heideggeriana consisterebbe tutto nella banalità di un discorso rivestito con un linguaggio fumoso ed incomprensibile. L’effetto finale è che il lettore «constata di aver già pensato per conto proprio qualcosa del genere, ed è fiero di comprendere un’opera così profonda», o meglio, apparentemente tale. Si tratta di un «inquinamento linguistico» grave almeno quanto quello ambientale. Secondo Popper, il tono apocalittico spesso usato dai Verdi tedeschi, e non solo, induce a non prestare più ascolto ad altri argomenti meno isterici e più ponderati, rischiando così di farci prendere sotto gamba quelli che restano pericoli e minacce effettive in tema di ambiente ed equilibrio demografico ed ecologico. Popper invita a indossare e mai dismettere i panni di «cittadini intellettualmente responsabili, razionali e critici».

Non dobbiamo perciò dimenticare quel che lo sviluppo della tecnica ha fatto negli ultimi cento anni. Le sue conseguenze sono state anche di natura etica, perché è grazie alla tecnologia che alcuni ideali si sono potuti trasformare in realtà. Riduzione di alcune disuguaglianze sociali ed emancipazione della donna, ad esempio, sono state conseguenze dirette dei progressi compiuti dalle scienze applicate. Oggi sono percepite come valori perché possibili se soltanto si vuole, non più impraticabili per natura, ma esclusivamente per mancanza di volontà politica. Lo stesso problema demografico può essere affrontato dalla tecnologia, in sostituzione di quel che fino a ieri era stata la soluzione più frequente ed efficace, ovvero le carestie. Ecco il risvolto etico della tecnica. Se comfort e progresso farmacologico hanno determinato l’attuale sovrappopolazione, la stessa scienza offre la possibilità di un controllo delle nascite che per Popper non ha niente di maltusiano, ma è la possibilità di fare in modo che «non sia partorito nessun figlio non voluto». E qui il filosofo chiude la sua conferenza, aprendo però tutto un fronte di discussione estremamente delicato, che mette in gioco non soltanto la fede religiosa ma anche il tema dei diritti di soggetti terzi, come il nascituro. La soluzione pare darla sempre Guerre Stellari, perché il suo universo espanso, fatto di pianeti e satelliti immaginari, presuppone una serie di campagne di colonizzazione spaziale, anche feroci, spietate, fatte da compagnie commerciali per conto terzi. Si pensi solo alla potentissima Federazione dei Mercanti. Dunque popolare altri pianeti? Non sarebbe necessariamente incruento, né ecocompatibile o sostenibile, ma chissà cosa ci riserverà il futuro.

Popper, anche nel dibattito che segue la conferenza, non si sottrae a temi scomodi né evita affermazioni impopolari, dichiarando, ad esempio, di aver «considerato la guerra del Golfo necessaria» e che, «se siamo per la pace, in date circostanze noi dobbiamo combattere per la pace». Siamo nel 1992 e all’epoca il filosofo valutava persino la possibilità di un intervento militare Onu in Jugoslavia per por fine alla guerra civile che stava all’epoca cominciando a dilagare. Compare anche uno dei temi cari all’ultimo Popper: la televisione come “cattiva maestra”. Se la democrazia, come del resto la stessa civilizzazione, è «regolamentazione, restrizione e limitazione della violenza», un uso spregiudicato della televisione, specie nei confronti di un pubblico di minori, comporta rischi gravissimi. Torna così l’idea della licenza da conferire a chi opera nel mondo della comunicazione televisiva, per responsabilizzarlo, dal momento che fa uso di un «potere educativo enorme». Resta il problema di chi controlla i controllori: quis custodiet custodes? Ed eccoci di nuovo con i Jedi. Platone dà la mano a George Lucas. Passaggi di consegna. Il peso enorme di esserne all’altezza.

In conclusione, il messaggio di Popper è che la tecnica crea anche civiltà, perché «può renderci non solo più liberi, ma può metterci in grado di adempiere sempre meglio ai nostri doveri naturali». Come a dire che il liberalismo popperiano, fallibilista e falsificazionista, contempla anche qualcosa che «non viene assolutamente messo in dubbio, che dovrebbe far parte del nostro comportamento, della nostra stessa vita». Il dovere, appunto. Ed è questo che mi interessava proporvi, cortocircuitando la romantica letteratura cavalleresca, nonché la sua versione 4.0, fantascientifica e fantasy, con il neolilluminismo moderato del vecchio Popper.

La saga di Guerre Stellari ripropone l’ideale cortese-cavalleresco in un universo totalmente immerso nella tecnologia, nel suo dominio, il più assoluto, anche disumano, ma persiste una ricerca del limite. Ritrovar l’umano di natura nell’artificiale iper-tecnologico e nell’alieno. Tra droidi e cloni, sabbipodi, jawa, wookiee (come il mitico Chewbecca) e numerose altre specie viventi, abitanti, ora conviventi ora confliggenti, di altrettanti pianeti e satelliti, la sfida è sempre quella: difendere e promuovere ideali e virtù quali la fede (nella Forza come nella lotta contro il suo lato oscuro), nonché la temperanza, l’onore, l’eroismo e la continenza. Etica ai tempi della tecnica? Possibile? Non ho risposte in tasca, ma solo la domanda giusta. Ed è un buon punto di partenza. Ottimo, direi, perché l’unico. Socrate insegna. Siete pronti a diventare i nuovi Jedi? Vi ricordo solo una clausola: né denaro né successo saranno le ricompense, ma soltanto l’adempimento di un dovere. Etico, appunto.

Il maestro Yoda portato in spalla dal giovane Luke Skywalker

[articolo pubblicato su «L’intellettuale Dissidente. Rivista di agitazione culturale», 11 gennaio 2021. Si ringrazia Davide Brullo]