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Yukio Mishima. Enigma in cinque atti

recensione di Federico Magi

“Se volete davvero incontrare il diverso, il totalmente Altro in letteratura, non potete non leggere Mishima. Tutto il resto si colloca un gradino sotto, almeno in termini di alterità, di estraneità rispetto ai nostri codici consueti, di sistema e antisistema. Non c’è analoga trasgressione bacchica perpetrata nella forma più apollinea possibile, non si trova una misurata dismisura paragonabile alla sua. Ghiaccio incandescente e fuoco vitreo, un vulcano in piena eruzione che si ritrova inchiavardato in una bomboniera di finissimo cristallo: solo l’ossimoro può alludere all’effetto provocato dalla lettura di una pagina mishimiana” (p. 19).

Partirei proprio da qui, da queste parole che invitano alla lettura, attraverso le quali il professor Danilo Breschi ci introduce il poliedrico e geniale artista nipponico Yukio Mishima, per celebrare la sua persona e la sua opera, a 50 anni esatti dalla sua spettacolare ed enigmatica dipartita, consumatasi il 25 novembre del 1970 per mezzo del seppuku, il suicidio rituale del samurai. Molto si è scritto e argomentato sul gesto, in questo mezzo secolo che ci distanzia dal tragico evento; un gesto che ha sovente oscurato la sublime letteratura del grande romanziere giapponese, alla luce del quale si è voluto inquadrare, se non addirittura ingabbiare, sia l’uomo che la sua arte. Un gesto meditato, studiato nei minimi termini e portato a compimento secondo le modalità immaginate. Un gesto di protesta, unico nel suo genere, ed oltremodo eclatante. Un gesto che però non spiega ne esaurisce l’uomo e l’artista Mishima. Yukio Mishima. Enigma in cinque atti, è un saggio che ci propone alcune interessantissime chiavi di lettura per provare a venire a capo del mistero Mishima, partendo da due principi d’indagine imprescindibili per chiunque voglia addentrarsi in un territorio tanto vasto, complesso ed eterogeneo: amore e competenza. Amore per il personaggio e per la sua opera, perché senza l’amore, inteso come sentimento che smuove montagne e immagina universi, nessuna fredda competenza, pur la più dotta e puntuale, può catturare davvero la nostra attenzione oltre la soglia di una contingenza che al massimo può diventar stanca nozione. Divulgare invece Mishima come ha fatto il professor Breschi è un voler empatizzare col lettore, tentare l’ardua impresa di prestare i propri occhi, i propri sentimenti e le proprie emozioni a qualcuno che probabilmente non incontreremo mai, ma che in quei momenti di appassionata lettura diviene una sorta di compagno di viaggio che ci cammina idealmente a fianco. Lo stesso effetto che, suppongo, abbia avuto Mishima sull’autore dell’opera che ho scelto di presentarvi.

Il viaggio che narrativamente ci propone il professor Breschi è, in ossequio alla tradizione estremo orientale e giapponese in particolare, un percorso circolare. Addirittura inverso, nell’ordine con il quale ci viene proposto. L’epilogo come prologo e il prologo come epilogo. Si parte in effetti dalla morte e si conclude con la “genesi”, ovvero quando, intorno ai 20 anni, al culmine di una guerra persa che cambierà irrimediabilmente l’assetto sociale, politico e culturale del Giappone, il giovane letterato Kimitake Hiraoka sceglierà di firmarsi Yukio Mishima. Lungo il tragitto c’è tutto il Mishima che Breschi riesce a metterci, sia come uomo che come letterato. Ci sono i suoi romanzi, per mezzo dei quali, attraverso alcuni stralci illuminanti, l’autore cerca di scandagliare l’intimo dell’artista giapponese, fino a immergersi nell’antro più oscuro per poi riemergere alla luce del sole, allo scintillio dell’acciaio, abbagliato dal caleidoscopio dei suoi “colori proibiti”. Ampio spazio è dedicato anche a influenze e assonanze letterarie, alle connessioni interculturali, al sentimento di fascinazione-repulsione nei confronti della letteratura e dei costumi occidentali. Breschi si avvale del supporto di Nietzsche, Kierkegaard, Dostoevskij, Rilke, Baudelaire, Wilde, Proust, Camus, D’Annunzio ed altri grandi della letteratura e della filosofia degli ultimi due secoli, non tanto per spiegare Mishima attraverso categorie occidentali, che sarebbe operazione fuorviante se non addirittura inutile, né tanto meno per focalizzarsi su ciò che, nella letteratura dell’artista nipponico, si possa trovare di derivativo rispetto a tali eminentissimi colleghi, quanto per rimarcarne l’assoluta unicità. L’indagine dell’autore su questo aspetto peculiare, ovvero l’unicità di Mishima, è proprio il cuore pulsante del saggio che ci propone. D’altronde, ce lo dice già all’avvio: “In tutta la letteratura del Novecento non c’è alcunché di paragonabile a Yukio Mishima, scrittore per tre volte candidato al Nobel. A stento Louis-Ferdinand Céline, Ernest Hemingway, William Burroughs o Pier Paolo Pasolini possono unire fino ad analoga vertigine un così grande talento letterario ed un altrettanto enorme dispendio esistenziale. La radicalità ed esplosività della fusione che Mishima compie di arte e vita sono inimitabili, anche perché la condotta quotidiana della sua vita così come la sua prosa sono reciproco elogio di forma e compostezza”. Il perché è presto spiegato: “Eccedendo, tutti loro inciampano, rotolano, precipitano, Mishima no”. Senza andare oltre, nel riportare gli stralci attraverso i quali Danilo Breschi, mescolando anch’egli, a suo modo, lirismo ed essenzialità espositiva, ci invita a proseguire nel viaggio alla scoperta di Mishima, ho voluto esemplificare attraverso questi virgolettati il presupposto dal quale l’autore parte per sviluppare la sua indagine. Scoprire il perché gli altri precipitano e Mishima no è, a ben guardare, l’elemento fondamentale per provare a venire a capo dell’enigma Mishima, o quanto meno per ben istradarsi nel tentativo di risolvere il mistero. L’intero saggio ruota attorno al disvelamento dei motivi di questa unicità, senza voler mai giungere a verità assolute, ma fissando ben saldi alcuni punti essenziali. Tra di essi c’è certamente la distanza tra la cultura giapponese e quella occidentale, che nel caso di Mishima si fa ancora più marcata ed evidente proprio per l’inattualità del suo ideale patriottico e reazionario volto a recuperare il valore divino dell’autorità imperiale, disconosciuto da Hiroito con l’avvento dell’occupazione americana, ma già vacillante lungo l’arco del periodo della Restaurazione Meiji.

Breschi sceglie forse l’unica via possibile per provare a restituire al lettore la moltitudine Mishima, utilizzando sé stesso come specchio la cui immagine riflessa arriva inevitabilmente trasfigurata al lettore. Trasfigurazione però necessaria, avvalorata dalla competenza in materia e dall’appartenenza alla nostra stessa cultura occidentale. È davvero lodevole il tentativo di penetrare l’intimo dell’artista nipponico, quasi di psicanalizzarlo ma con devozione, se mi passate il termine, senza mai voler alterare contesto, background culturale e le effettive influenze che le esperienze di vita ebbero sulla sua letteratura. Anche la scelta dei romanzi analizzati ci dice molto su quali aspetti sceglie di privilegiare il professor Breschi nella sua indagine, portando ad evidenza, tra i tanti, due testi in particolare: Il padiglione d’oro e Colori proibiti. Il tutto racchiuso in una struttura pensata, come dicevo in apertura, in maniera circolare e divisa in atti come un’opera teatrale, ognuno dei quali preceduto da un folgorante aforisma dello scrittore e filosofo colombiano Nicolas Gomez Davila. Il titolo scelto omaggia apertamente l’intenso lungometraggio di Paul Schrader, prodotto da Francis Ford Coppola e George Lucas, sulla vita di Mishima: Mishima – Una vita in 4 capitoli (1985). Il film è un concentrato di affascinanti sequenze oniriche e simboliche ispirate da tre romanzi (Il padiglione d’oro, La casa di Kioko, Cavalli in fuga), suggestivamente mescolate a stralci biografici. Interpretato da uno straordinario Ken Ogata e contrappuntato dall’ipnotica colonna sonora di Philip Glass, è un’opera assolutamente da recuperare.

Morto suicida a soli 45 anni, proprio al culmine di un cambiamento epocale che avrebbe ulteriormente aggravato, ai suo occhi, le sorti del Paese del Sol Levante, Yukio Mishima ha incarnato e ci ha donato, attraverso i suoi romanzi, diversi personaggi. Nessuno di essi però ha voluto o potuto interamente svelare, pur nelle loro eccentriche caratterizzazioni, cosa ci fosse davvero dietro la maschera. Quella della correttezza ufficiale, che indossò giovanissimo durante le sue Confessioni, cominciò a calarla ripetutamente nell’ultimo decennio della sua vita, fino ad abbassarla del tutto il 25 novembre del 1970, quando scelse di congedarsi da questo mondo. “La verità è la somma delle contraddizioni in cui incappano gli uomini intelligenti”, sentenzia Davila nell’introduzione al “prologo come epilogo”, ma ciò non è ancora sufficiente a risolvere l’enigma evidenziato nel titolo, perché Mishima – rispetto al mondo e al tempo che l’avrebbe ospitato – era da considerarsi una sorta di alieno. Da quale lontanissimo pianeta fosse stato catapultato sull’arcipelago giapponese non ci è dato sapere, come non sapremo mai se il 25 novembre, quello che mostrò alle telecamere durante il Proclama e pochi istanti prima di squarciarsi il ventre, fosse il suo vero volto o l’ultima delle tante maschere che indossò lungo il corso della sua straordinaria esistenza. Ciò che sappiamo, e che Danilo Breschi ci chiarisce ulteriormente in questo suo saggio-omaggio appassionato, è che Yukio Mishima riuscì a far convivere, in una miscela esplosiva e difficilmente ripetibile, etica ed estetica, pensiero e azione, corpo e spirito, arte e vita. E scusate se è tanto, forse davvero troppo per la dilagante aridità dei giorni nostri.

“Il problema Mishima risiede tutto qui. In quegli ultimi momenti si condensano l’enigma e lo scandalo che rendono ancora oggi difficile un apprezzamento e una valutazione critica dell’opera mishimiana che siano fondate sul documento, ossia la gran mole di pagine scritte, e non sull’emozione o, peggio, sul pregiudizio. Che quest’ultimo sia avverso o favorevole poco cambia, perché in entrambi i casi l’ideologia fa aggio sull’opera, la offusca, ne impedisce il completo dispiegamento” (p. 179).

[recensione originariamente uscita su Lankenauta.it il 5 gennaio 2021. Si ringraziano Autore e rivista]