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1914-2014: “l’ospedale mostra che cosa è la guerra”

La prima guerra mondiale, quel che all’epoca fu chiamata “Grande Guerra”, scoppiò il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia a seguito dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria-Ungheria, con l’attentato compiuto da Gavrilo Princip a Sarajevo (Bosnia Erzegovina) esattamente un mese prima. Il conflitto si concluse oltre quattro anni dopo, l’11 novembre 1918. Quest’anno, e in queste settimane, ricorre dunque il centenario dell’evento che, più di ogni altro, ha sconvolto l’Europa e il mondo, innescando una serie di fenomeni, dai totalitarismi alla decolonizzazione, dall’accelerazione tecnologica alla progressiva marginalizzazione politica dell’Europa alla globalizzazione finanziaria, che avrebbero segnato e condizionato tutto il resto del ventesimo secolo e l’inizio del ventunesimo. Senza quell’evento tutto sarebbe stato differente, o assai più lento e graduale. Un profondo smarrimento morale da lì ebbe inizio, e si aggravò nei trent’anni successivi, attraversando l’intero continente europeo.
Come ricordarlo? Con le pagine di chi, appena diciottenne, arruolato nell’esercito tedesco, combatté al fronte dal 1916 in poi. Questi sarebbe poi diventato, anche a seguito dell’esperienza al fronte, un grande scrittore, autore di celebri romanzi che conquistarono persino Hollywood, che li tradusse in film di successo. Sto parlando di Eric Maria Remarque e del suo Niente di nuovo sul fronte occidentale, composto nell’arco di appena sei settimane ma pubblicato solo due anni dopo, nel 1929. Circa dieci anni dopo, dunque, il reduce trovò la forza per esprimere l’inesprimibile. E lo fece come pochi altri.
Leggerlo resta ancora oggi un esercizio fondamentale per chi voglia preservarsi dalla seduzione della guerra, sognata come duello epico ed eroico, cavalleresco e sublime. Dal sogno alla realtà, dall’illusione alimentata dalla retorica e dalla propaganda nazionaliste alla rivelazione dell’orrore allo stato assoluto, della disumanizzazione integrale compiuta da uomini resi macchine da macellazione, propria e altrui. Lungo questo passaggio si dispiega l’incisiva, telegrafica e intensissima, tambureggiante narrazione di Remarque. Ne riporto alcuni brani, e tanto basti a ricordare cosa fu quel che ebbe inizio cento anni fa e durò oltre quattro anni.

Kantorek era il nostro professore: un ometto severo, vestito di grigio, con un muso da topo. […] Nelle ore di ginnastica Kantorek ci tenne tanti e tanti discorsi, finché finimmo col recarci sotto la sua guida, tutta la classe indrappellata, al Comando di presidio, ad arruolarci come volontari. […] Codesti educatori tengono spesso il loro sentimento nel taschino del panciotto, pronti a distribuirne un po’ ora per ora. Ma allora noi non ci si dava pensiero di certe cose. […] nessuno poté tirarsi fuori; a quell’epoca persino i genitori avevano la parola “vigliacco” a portata di mano. Gli è che la gente non aveva la più lontana idea di ciò che stava per accadere.
[…] Di Kantorek ve n’erano migliaia, convinti tutti di far per il meglio nel modo ad essi più comodo.
Ma qui appunto sta il loro fallimento. Essi dovevano essere per noi diciottenni introduttori e guide all’età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al progresso; insomma all’avvenire. […] Mentre essi continuavano a scrivere e a parlare, noi vedevamo gli ospedali e i moribondi; mentre essi esaltavano la grandezza del servire lo Stato, noi sapevamo già che il terrore della morte è più forte. Non per ciò diventammo ribelli, disertori, vigliacchi – espressioni tutte ch’essi maneggiavano con tanta facilità; – noi amavamo la patria quanto loro, e ad ogni attacco avanzavamo con coraggio; ma ormai sapevamo distinguere, avevamo ad un tratto imparato a guardare le cose in faccia. E vedevamo che del loro mondo non sopravviveva più nulla. Improvvisamente, spaventevolmente, ci sentimmo soli, e da soli dovevano sbrigarcela.

La prima linea è una specie di gabbia in cui si soffre l’attesa nervosa di ciò che sta per avvenire. Viviamo sotto la traiettoria incrociata delle granate, nella tensione dell’ignoto. Sopra di noi pende il caso. Quando un colpo arriva tutto quel che posso fare è di rannicchiarmi; dove vada a battere non posso sapere, né influirvi. È appunto questo che ci rende indifferenti.

Mezzogiorno. Il sole scotta, il sudore ci abbrucia le palpebre, lo asciughiamo con la manica, spesso vi si mescola sangue. Spunta la prima trincea un po’ meglio conservata: […]. Non si arriva proprio al corpo a corpo, perché gli altri sono costretti a retrocedere. […] Ma siamo trascinati in avanti, esseri senza volontà, eppure pazzamente selvaggi e furibondi, bramosi di uccidere poiché quelli di là sono ora i nostri nemici mortali, e i loro fucili, le loro granate, sono dirette contro di noi, e se non li sterminiamo, essi stermineranno noi.
La bruna terra, la terra rotta, scheggiata e scura coi suoi riflessi grassi sotto il sole, è come lo sfondo di questo incessante, sordo automatismo, di cui il nostro ansimare misura il ritmo quasi meccanico; le labbra sono aride, la testa più confusa che dopo una notte di orgia, e brancoliamo così in avanti, sempre in avanti, mentre nelle nostre anime logorate e ferite anch’esse, si imprime penosamente il quadro indelebile della terra bruna e grassa sotto il sole, dei soldati rantolanti e morenti, che giacciono lì come se fosse una cosa naturale, e ci afferrano per le gambe e gridano, mentre noi li oltrepassiamo correndo. […]
Alla prossima volta sibila una seconda bomba e ci fa strada pulita. Avanzando di corsa ne facciamo volare a manate entro i ricoveri, la terra trema, è uno schianto, un gemito, vapore e fumo, si sdrucciola su brandelli viscidi di carne umana, su corpi sfasciati; io cado in un ventre aperto, sopra il quale sta un berretto d’ufficiale, ancora nuovo e pulito. […] gli eventi ci hanno consumati; siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremmo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.

La guerra di posizione odierna richiede cognizione ed esperienze speciali: […]. Fuoco tambureggiante, fuoco d’interdizione, cortina di fuoco, bombarde, gas, tanks, mitragliatrici, bombe a mano: son parole, parole, ma abbracciano tutto l’orrore del mondo. […]
Vediamo vivere uomini a cui manca il cranio; vediamo correre soldati a cui un colpo ha falciato via i due piedi e che inciampicano, sui moncherini scheggiati, fino alla prossima buca; un caporale percorre due chilometri sulle mani, trascinandosi dietro i ginocchi fracassati; un altro va al posto di medicazione premendo le mani contro le budella che traboccano; vediamo uomini senza bocca, senza mandibola, senza volto; troviamo uno che da due ore tiene stretta coi denti l’arteria del braccio per non dissanguarsi; il sole si leva, viene la notte, fischiano le granate, la vita se ne va goccia a goccia.
Ma quel pezzetto di terra sconvolta sul quale stiamo viene mantenuto contro le prevalenti forze nemiche: poche centinaia di metri soltanto si dovettero cedere. E per ogni metro c’è un morto.

Grigio è il mattino; era ancora estate quando andavamo avanti, ed eravamo centocinquanta uomini. Ora fa freddo, è autunno, cadono già le foglie e le voci suonano stanche: “Uno, due, tre, quattro…”; arrivate a trentadue si fermano. […] Un minuscolo manipolo sfila nel freddo mattino.
Trentadue uomini.

Dai rami pendono cadaveri. In una forcella c’è un soldato, nudo, con l’elmo ancora in testa, del resto non un filo indosso. Il torso è rimasto lassù, le gambe mancano.

Soltanto l’ospedale mostra che cosa è la guerra.
Io sono giovane, ho vent’anni: ma della vita non conosco altro che la disperazione, la morte, il terrore, e la insensata superficialità congiunta con un abisso di sofferenze. Io vedo dei popoli spinti l’uno contro l’altro, e che senza una parola, inconsciamente, stupidamente, in una incolpevole obbedienza si uccidono a vicenda. Io vedo i più acuti intelletti del mondo inventare armi e parole perché tutto questo si perfezioni e duri più a lungo.

Otto Dix, Trittico della guerra (1929-1932)