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Quel che resta della destra

di Giovanni Orsina

Che cosa vuol dire «destra» in politica, oggi? E c’è davvero bisogno di partiti che si collochino a destra, e da destra ambiscano a governare, oppure potremmo benissimo farne a meno? Se osserviamo quel che è accaduto in Italia negli ultimi tre anni, le due domande ci appaiono più che legittime.
La «destra storica» – la destra berlusconiana che è vissuta dal 1994 al 2011, nella stagione della repubblica bipolare – si muoveva in sostanza lungo tre linee. La prima era quella, propagandata ben più che praticata, della «rivoluzione liberale»: meno Stato e più mercato. La seconda, appoggiata fra il 2001 e il 2008 agli Stati Uniti di Bush junior, era la politica estera atlantista. La terza, conservatrice sui temi sociali e bioetici e ispirata dal pontificato di Benedetto XVI, ha raggiunto il culmine nel 2005 col referendum sulla procreazione assistita. Le tre linee, inoltre, portavano la destra berlusconiana ad assumere un atteggiamento critico nei confronti dell’Europa, ma non antieuropeista.
Per varie e diverse ragioni – a cominciare dal cambio della guardia a Washington e in Vaticano – oggi in Italia un’identità conservatrice non può più fondarsi su quei pilastri. Non solo. La crisi economica e l’antieuropeismo montante hanno restituito una ragion d’essere robusta alla destra protestataria e radicale, gonfiandone l’elettorato – al di qua, ma anche al di là delle Alpi. Tanto che il problema di come tenere insieme in uno stesso schieramento moderati ed estremisti, se dal 1994 al 2008 in Italia ha tormentato soprattutto la sinistra, negli ultimi anni s’è spostato sul versante opposto. Oggi l’area elettorale e culturale di centro destra, oltre a essere in crisi di identità, si trova così schiacciata fra i «due Mattei»: Matteo Salvini da un lato, accampato sul terreno della destra ostile all’Europa; Matteo Renzi dall’altro, che sempre più dilaga al centro. E non è affatto impossibile che diventi irrilevante: «invenzione» di Silvio Berlusconi, prodotto della crisi di sistema dei primi anni Novanta, il centro destra che non ha saputo riformare le istituzioni, organizzarsi in partito né dotarsi di una classe politica robusta potrebbe benissimo essere cancellato dalla nuova crisi di sistema che s’è aperta nel 2011 e dall’appassire del leader di Arcore.
Che così accada o non accada, dipenderà sia dalle strategie degli uomini di quella parte, sia dalla riforma del sistema elettorale. La linea che ha seguito Berlusconi negli ultimi mesi, schiacciata sul governo, non è certo la più adatta a proteggere lo spazio elettorale e politico fra i «due Mattei». Soprattutto le sue ultime iniziative sui patti di convivenza e sull’immigrazione, al contrario, sembrano fatte apposta per ridurre quello spazio ai minimi termini. Al di là del merito delle decisioni e del modo nel quale ci si è arrivati, sorprende il tempismo: che bisogno c’era di dare un colpo ulteriore all’identità già periclitante di Forza Italia, proprio nel momento in cui Renzi e Salvini, con manovra a tenaglia, danno l’assalto all’elettorato che fu berlusconiano?
Una prima possibile risposta a questa domanda è che Berlusconi, abbandonata ormai del tutto l’idea di poter tornare maggioritario, stia puntando a fare di Forza Italia il socio di minoranza del Pd – un po’ come i socialisti coi democristiani. Una seconda possibile risposta è che stia perseguendo un disegno lungimirante: un bipolarismo maturo fra due forze liberali, politicamente vicine l’una all’altra, al quale si arriverà quando il centro destra sarà stato del tutto rinnovato da un lungo periodo di opposizione. Le due ipotesi presuppongono leggi elettorali ben diverse: nel primo caso il mantenimento del proporzionale; nel secondo, al contrario, una riforma che dia vita a un sistema fortemente maggioritario. Altre possibili interpretazioni hanno poco a che vedere con la politica, ma sono o psicologiche – Berlusconi, in definitiva, potrebbe essere poco interessato al futuro del centro destra –, oppure aziendali.
La situazione è del tutto aperta, e bisognerà vedere nei prossimi mesi in quale direzione evolverà. Al termine di questo ragionamento, però, la seconda delle domande che ponevo in apertura è rimasta ancora inevasa: ma che cosa importa all’Italia che ci sia una forza robusta di centro destra moderato? Importa, in realtà, e molto. Per almeno due ragioni. In primo luogo perché il sistema politico che si sta delineando in questi mesi, imperniato sull’egemonia del Pd di Renzi e sull’opposizione vociante ma sterile di grillini e leghisti, è inevitabilmente destinato sul medio periodo a rivelarsi del tutto disfunzionale. In secondo luogo perché certe esigenze «di destra» diffuse nell’opinione pubblica – sulla sicurezza, ad esempio, o sull’immigrazione – sono destinate a farsi più forti nel prossimo futuro, ed è bene che trovino anche delle risposte moderate. Lasciare che se ne occupi soltanto la Lega – non per caso in crescita nei sondaggi, e pronta adesso a ritentare la conquista del sud – non è indice di grande saggezza.

[Art. pubblicato su “La Stampa”, 26 ottobre 2014, con il titolo redazionale “La destra che rischia la scomparsa”]

Giovanni Orsina
Professore di Storia Contemporanea
LUISS-Guido Carli di Roma