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Il Medioevo delle città: una lunga durata italiana? In ricordo di Jacques Le Goff /1

di Mario Ascheri

L’ultimo libro di Le Goff, dedicato alla periodizzazione della storia, ha riproposto il grande tema della lunga durata, che per noi vuol dire essenzialmente ‘Lungo Medioevo’: in che termini e fino a quando?
Alla memoria del grande collega francese voglio dedicare le ultime pagine (qui senza note) di un articolo pubblicato nel 1997 in “Le Carte e la Storia”.
Se penso che le riflessioni che seguono sono state scritte vari anni prima del disastro in-credibile che sta vivendo una città come Siena (cui ho dedicato ora una rapida sintesi fino ai giorni nostri presso la Biblioteca dell’Immagine di Pordenone) posso ben dire che a volte a pensar male ci si azzecca. Avrei preferito essere un profeta incapace e fallace. Ma vediamo:
“Siamo perciò di fronte a una situazione molto contraddittoria, di cui credo si paghino ancora gli effetti oggi. Perché?
Il problema è che da un lato la città comunale italiana è cresciuta grazie allo sviluppo di un ethos di partecipazione civile, che per qualche tempo ha favorito a sua volta il radicamento di un’incredibilmente larga partecipazione alla vita politica come in pochissime altre aree europee s’è verificata. Ed è stata, quel che più conta, una partecipazione secondo criteri orizzontali, di parità tra i suoi membri: siamo all’aequalitas che sostanzia quest’ideologia repubblicana e che ha motivato tanti sacrifici per la piccola patria, come le ultime resistenze repubblicane di Firenze e di Siena attestarono chiaramente.
Dall’altro lato, però, questa aequalitas cittadina è stata sentita solo entro le mura, in quanto si è negata la stessa aequalitas a chi era fuori delle mura. Cosi s’è impedito il sorgere d’una identità più ampia, che sarà di nuovo impossibile entro lo ‘Stato a proiezione regionale’, riproducendosi infatti puntualmente al suo interno il rapporto contrattuale di inclusione/esclusione, anche se a un altro livello. Per questa via ogni potere esterno alla città è stato sentito come un potere con cui rapportarsi con prudenza, ossia evitando di omologarsi: se esso offre minore resistenza, è da sfruttare, se invece si dimostra più forte sarà da blandire, per ottenere il massimo possibile.
Con una ulteriore conseguenza bivalente: che cioè la massima valorizzazione della propria unità, della compattezza della propria cultura, elemento di coesione e ricchezza della città, consente ai ceti dirigenti in positivo di essere più forti alle contrattazioni – ora con gli interlocutori inferiori, ora con quelli superiori – e quindi di strappare i privilegi più vari, ma con ciò rafforza anche la loro tendenza ad alimentare e a conservare il particolarismo, facendo poi sentire ogni lesione dei privilegi conquistati/strappati come una lesione d’un patrimonio tradizionale acquisito.
Di qui anche, ed è il risvolto negativo, la sempre in agguato degenerazione della ‘virtù’ repubblicana, ugualitaria, partecipativa, in senso esclusivo e corporativo; di qui un ethos unitario che si crea miti finissimi, come quello del ‘ben comune’, ma che alimenta anche una concezione organicistica della società urbana che tende a chiuderla in se stessa e a farla divenire autoreferenziale, con un’albagia di tipo nobiliare tanto più forte quanto più la città è sentita come una grande famiglia, rassicurante, ma anche soporifera e perciò chiusa all’avventura – superato definitivamente il periodo eroico e concorrenziale del ‘Dugento’. Non a caso, quante città italiane si sentono ancora oggi il ‘centro del mondo’, il vertice più alto della civiltà italiana ecc.?
Il problema serio, poi, è che questo senso vivissimo della collettività urbana s’è incontrato felicemente (nel senso neutro di ‘facilmente’, ‘perfettamente’) e durevolmente con la tradizione interclassista cattolica, contraria allo scontro dei ceti sociali e favorevole all’unum corpus cittadino benedetto sia in armi, in occasione delle sue guerre anche offensive, sia quando raccolto pacificamente in preghiera ad ascoltare il Verbo dall’arcivescovo, spesso o per tanto tempo espressione della stessa élite locale, nella cattedrale urbana. Questa non a caso era finanziata più che direttamente dai fedeli, dallo stesso Comune locale, che quando era ‘Stato’ riuscì anche (stavo per dire: di conseguenza) a stringere accordi con il Papato in modo da controllare le cariche ecclesiastiche maggiori del territorio come facevano i principi, mentre poi i privati dell’élite cittadina pensavano al resto con i patronati di chiese e cappelle.
Sono processi che concorsero, in conseguenza e unitamente alla crisi della pratica e dell’ideologia di ‘Popolo’, a creare quel mondo (per certi aspetti) immobile d’Ancien régime che ha dimenticato di regola (c’è anche Venezia, naturalmente!) i conflitti clamorosi d’un tempo tra ‘Stato e Chiesa’.
Ora il conflitto ci può essere, ma è conflitto di potere più che di culture, e se mai espressione di nuovo delle resistenze che le élites locali con le loro complicità politiche sono in grado di opporre – ad esempio all’Inquisizione, sentita giustamente come pericolosa, perché in parte ‘nazionale’, libera dai condizionamenti locali.
Rimasero così soltanto i conflitti entro il ‘sistema’, per così dire. Per il resto il mondo urbano conosce un’integrazione sostanziale di laico ed ecclesiastico, che si rafforza mano a mano che ci si addentra nell’età moderna, quell’età che finalmente, e paradossalmente, realizza di fatto in Italia il disegno teocratico medievale – quel dominio delle anime che Giovanni Botero capì essere il segreto d’un governo stabile e definitivo. In altre parole, in età moderna a livello urbano sembrano trovare compiuta realizzazione quei sogni di concordia, laica e religiosa, che erano stati soltanto sogni nel tardo-medioevo.
Ora il conformismo regna perché in città società e istituzioni si confondono nel loro sforzo di apparire ed essere fonti di un impiego caritatevole per tutti, anche se dequalificato, e sublimano la loro tensione totalizzante nelle infinite occasioni pubbliche coinvolgenti in tutto o in parte la popolazione dalle grandi processioni alle feste patronali e ai tipici giochi, dal palio al pallone, alle infinite riunioni delle confraternite e delle arti, che suggellano quella concezione organicistica e ‘sociale’ che fa apparire un vivace pluralismo istituzionale, di enti, ospedali, scuole, associazioni varie. Ma è un pluralismo essenzialmente di facciata, che non può nascondere l’assenza della dimensione del contrasto, del conflitto, della lotta, sentiti infatti come un ‘male’ nella tradizione ecclesiastica quando non si compongano in una delle dimensioni preordinate, ‘sociali’ appunto, collettive. La fortissima presa che hanno talune parole d’ordine attuali, diffusissime nel lessico politico, non deriverà anche dall’essere esse così radicate nella nostra cultura urbana?
Comunque sia, questa fusione di società e di istituzioni compattate dai miti cittadini e dalle cerimonie religiose (in senso lato: anche i palii lo sono) rafforza enormemente le élites cittadine mistificando i conflitti di classe. Le città è come se fossero a ceto unico, non solo perché vivono sotto la nozione astratta del ‘cittadino’ ereditato dalla tradizione romanistica, ma perché il loro ceto dominante pur formalizzato come nobiltà è in sostanza l’unico ceto cittadino. La nobiltà tende a confondersi con il clero per la comune egemonia e funzione didascalica e normalizzatrice, mentre gli esclusi dal gioco non hanno nessuno spazio istituzionale come ceto, e ci si preoccupa soltanto di appagarli come comparse nella scena collettiva.
Questo è l’altro aspetto, drammatico sul lungo periodo, del nostro pensiero repubblicano di origine comunale, visti i suoi fortissimi condizionamenti ecclesiastici.
(1/2. Continua)