Il Grande Inquisitore /2

Professore, ci resta almeno un altro tema, tipicamente dostoevskijano, da toccare, quello del male.

Dal capitolo che precede il quinto del libro V de I fratelli Karamazov, non casualmente intitolato Ribellione, deduciamo che a convincere Ivan della validità dell’ateismo sia la sofferenza innocente dei bambini. Questo è un problema cruciale, da sempre. Da Leibniz a Jonas, attraverso la tragedia della Shoah, è la vecchia questione della teodicea: se Dio esiste ed è buono, da dove viene il male?
In Dostoevskij il tema della sofferenza innocente è un filo rosso che percorre l’intera sua opera, da Povera gente, a Memorie dalla casa dei morti, a Umiliati e offesi, sino a I fratelli Karamazov. Sempre Dostoevskij ha mostrato una grande attenzione per i più i deboli e gli indifesi. Sovente sono le figure vilipese delle donne e dei bambini a portare i vari personaggi dei romanzi alla interrogazione sulla esistenza di Dio. Precisamente come avviene nel testo della “Leggenda” attraverso la figura di Ivan.
Nella mia lettura, l’argomentazione di Ivan coincide con quella del Grande Inquisitore, ed è una argomentazione atea, tale da giustificare – razionalmente – la perdita della fede. Per il Grande Inquisitore, infatti, un mondo così corrotto e necessitante l’intervento totalmente umano della chiesa non può essere stato creato da Dio. Ma questa negazione demoniaca non può essere rivelata agli uomini. Perciò la chiesa – di cui il Grande Inquisitore è il “sommo sacerdote” – circonfonde la cruda verità col mistero, facendo credere alla gente che Dio esista, mentre, in realtà, c’è solo il nulla. Questa è la sua persuasione.
La chiesa del Grande Inquisitore interviene perciò nel mondo coi miracoli, ossia con la medicalizzazione e col portato del progresso umano scientifico, estendendo, almeno di un poco, i limiti sociali, con un certo benessere. Imponendo, infine, la propria autorità, peraltro richiesta a gran voce dalla massa dell’umanità debole che non riesce a sopportare il peso della autentica libertà.
Mistero, miracoli e autorità sono dunque le potenti leve con cui il Grande Inquisitore intende governare un mondo di fatto svuotato della presenza di Dio.
Dostoevskij, attraverso la persona di Alioscia, contrapponendosi intimamente alla visione di Ivan e quindi dell’Inquisitore, intende altresì giustificare il mondo, a prescindere da tutto il male che esso contiene, perché il male non mette realmente in discussione l’esistenza di Dio che è buono. Il male per Dostoevskij è un difetto di bene intrinseco alla libertà donata da Dio all’umanità. È il prezzo della libertà. Il male è una riduzione del bene.
Il concetto è esemplificato da Alioscia che – da novizio del monastero – è la figura tipo del benedicente, ossia di colui che è in grado di vedere e di amplificare il bene, totalmente affidato – come appare ed effettivamente è – al suo staretz Zosima, quindi al Cristo, a Dio. In questo modo Dostoevskij sostanzialmente imputa il male alla vita umana vissuta nell’ateismo di fatto. Ciò non significa un invito a vivere da bigotti illusi da una fede che protegge da ogni male. Tutt’altro: lui mette sempre insieme libertà e amore. E l’amore cristiano – come in Cristo stesso – ha un alto prezzo di sangue da pagare. La sfida posta al male da Dostoevskij tocca un livello altissimo.

Che cos’è allora l’amore per Dostoevskij?

Nel suo monologo, Ivan spiega a suo modo che l’amore del prossimo è una mera assurdità. Argutamente sostiene che si può amare solo un prossimo che sia molto lontano, non quello così prossimo da risultare insopportabile agli occhi e al naso. Ivan mette le dita dentro le piaghe della nostra umanità, come ben possiamo avvertire interrogando noi stessi.
Qui ritorno ad esprimere quello che, secondo me, è il pensiero fondamentale di Dostoevskij – e pure il mio personale pensiero da uomo in ricerca [che non osa definirsi sicuramente credente]: l’amore è l’espressione della vita di fede in Cristo, una vita che non ha più paura della morte, perché la morte è già stata vinta. Da San Paolo l’appello cristiano credente è a non avere paura, mentre – da quel che io vedo – l’uomo occidentale contemporaneo è un uomo dominato dalla paura della morte e perciò costantemente e pesantemente condizionato nelle sue scelte dalla sua stessa paura. La paura della morte porta perciò l’uomo a negare l’amore, lasciando libero campo al male.

CRISTIANESIMO CONTEMPORANEO

Lei non ritiene – contrariamente a questa idea di Dostoevskij – che la paura abbia una sua ragion d’essere anche nell’esistenza cristiana?

Certamente l’obiezione è corretta. Ma qui ho voluto mettere in evidenza, con Dostoevskij, che l’essere umano che non ha paura della morte – in Cristo – è capace di aprirsi, di donarsi, di sacrificarsi, di compiere gesti sacri, nel senso di gesti che riconoscono il sacro che c’è nel mondo e perciò santificano il mondo liberando la santità.
Questo è quanto, secondo me, si evince da una lettura franca, non surrettizia, delle pagine dostoevskijane di cui ci stiamo occupando.

Quel che lei dice, con Dostoevskij, funzionerebbe anche a livello comunitario e collettivo?

Da osservatore analitico, mi sembra di poter dire che la paura – che è sempre paura della morte – è oggi più radicata in noi e ossessiva di quanto fosse solo cinquanta anni fa.
Questo mi sembra l’effetto – per certi versi minaccioso per la fede – che le scienze applicate hanno esercitato e continuano ad esercitare abbondantemente sulla nostra vita comunitaria e collettiva. Prendiamo solo, ad esempio, la medicina: il medico si è ormai sostituito – sto chiaramente semplificando – al sacerdote.

Che cosa è dunque venuto meno – forse anche nel magistero cattolico – al cristianesimo contemporaneo?

Manca, secondo me, l’insistenza su quello scarto o su quella eccedenza che senz’altro oggi continua a far scuotere la testa all’intellettualità dominante, iperlaicista o atea. Il messaggio cristiano dovrebbe costantemente recuperare e ripetere ciò che Nietzsche è invece riuscito a togliere dalla nostra testa, ossia dovrebbe costantemente ribadire la trascendenza di Dio.
Per me, la sfida del cristianesimo contemporaneo è riuscire a dire qualcosa che racconti il mondo reale senza scadere nelle favole – come non a caso diceva Nietzsche -, ma in maniera da persuadere che tutto non inizia e non finisce qui, perché c’è l’aldilà.
Probabilmente è una sfida che non si gioca nell’autaut, come nel passato, bensì nell’et-et. Si tratta di riuscire a ridestare nel pensiero il tema della trascendenza di Dio, senza cadere nella facile irrisione. Il comunismo ateo ha perso, ma il materialismo storico ha di fatto permeato le menti con la persuasione che le nostre idee sono semplicemente il frutto delle condizioni materiali. Non ci si pone neppure più la domanda profonda: perché? Con questa persuasione che ci portiamo dentro, non è più possibile, ad esempio, pregare. Mentre io penso che possiamo continuare a pregare e, nel mentre, dobbiamo rimboccarci le maniche, anche nel pensiero.

IL CATTOLICESIMO DAVANTI A DOSTOEVSKIJ

Qual è stata la critica cattolica a Dostoevskij specie in riferimento alla “Leggenda del Grande Inquisitore”?

La critica è quella che la parte cattolica ha mosso tradizionalmente a una certa ortodossia, ossia di sfociare nello spiritualismo disincarnato perdendo il contatto con la realtà terrena. La critica di Romano Guardini, ad esempio, è stata mossa in tal senso. La formazione cattolica ci induce facilmente a pensare che con questa realtà mondana bisogna pur fare i conti, operando nella stessa e accettando molti compromessi.
Ho usato l’espressione “una certa ortodossia” perché neppure la chiesa ortodossa era ed è immune dal compromesso con le cose di questo mondo. Anche Dostoevskij ne era consapevole.
Parlando da storico, dico che l’assorbimento dall’esterno da parte della chiesa universale di elementi non propri – “romanizzandosi” e ingaggiando presto rapporti di forza – ha consentito alla stessa di resistere nei secoli e pur tuttavia di conservare il nucleo evangelico. Se non fosse stato per il lavoro di San Paolo – prima – e per l’intuizione di una serie di vescovi che a Roma hanno sopperito al disastro politico della caduta dell’Impero romano – poi -, forse oggi non saremmo qui a parlare del cristianesimo e del cattolicesimo, pur con la relativa marginalità che le chiese hanno assunto in questa nostra epoca.
Penso che davvero la storia dell’occidente coincida in buona misura con la storia della chiesa. Ci sono state compromissioni che hanno naturalmente indotto critiche così come eresie che hanno portato agli scismi. Penso che Dostoevskij si sia posto nel solco di queste critiche che da sempre vengono mosse alla chiesa, dal di fuori e dal di dentro. A queste appunto, con Guardini, si può ribattere che ci deve pur essere una chiesa, con una sua struttura, con una sua gerarchia e con un tanto di regole che consentano di conservare e di trasmettere la purezza del vangelo.
Io penso ora che la vitalità del cristianesimo risieda nella convivenza dialettica – a volte persino polemica – delle diverse voci, più o meno versate in senso istituzionale ovvero evangelico profetico. Non dico niente di nuovo. Se fosse venuto meno l’aspetto istituzionale, da storico, ritengo che anche l’aspetto evangelico più puro ne avrebbe, quantomeno, fortemente risentito. Sto riflettendo, ad esempio, su quanto la permanenza di una struttura a Roma sia importante per tanti cristiani sparsi oggi nel mondo quali minoranze religiose perseguitate o comunque osteggiate. Da osservatore esterno, ma interessato, mi viene da dire che bisogna stare attenti a criticare tanto la struttura da arrivare a buttarla giù.

Dostoevskij è oggi un ponte di comunicazione tra chiesa ortodossa e chiesa cattolica?

Dostoevskij ha avuto questa grande arte di raccontare storie. Sappiamo meglio oggi rispetto a ieri quanto l’arte della narrazione possa facilitare la comprensione e la comunicazione in genere, quindi come possa, in questo caso, facilitare la comunicazione – anche forse teologica – tra le due chiese. Aggiungerei alla partecipazione a questo dialogo su – e grazie a – Dostoevskij anche le chiese evangeliche, naturalmente.
Sicuramente Dostoevskij è un autore la cui lettura consente di mettere sul tavolo le carte che contengono tutte le tensioni critiche presenti tra le chiese e dentro ciascuna di queste. Ma altrettanto sicuramente il confronto con Dostoevskij può aiutare ad interrogare l’una dal punto di vista dell’altra chiesa e ciascuna al proprio interno. Dostoevskij è veramente uno scrittore la cui lettura porta ad una reazione feconda, sia individualmente, sia comunitariamente.

LA GRANDE RUSSIA

Quale è stata la considerazione di Dostoevskij e delle sue opere in Unione Sovietica?

Nel periodo sovietico Dostoevskij, in generale, ha avuto lo spazio che non poteva comunque non ottenere un classico nazionale della letteratura mondiale: era talmente ingombrante che non poteva essere fatto scomparire. Ma per tanti aspetti è stato considerato dalla gerarchia – specie nel periodo aurorale bolscevico-leninista e primo-stalinista – quanto di più lontano dall’ideologia ufficiale ci potesse essere, non foss’altro perché, negli ultimi suoi romanzi – in particolare ne I demoni e I fratelli Karamazov – si era mostrato assai avverso al radicalismo rivoluzionario e molto più vicino allo zarismo.
Dalla precedente opera Memorie dalla casa dei morti, scritta dopo la prigionia e i lavori forzati ad Omsk, Dostoevskij poteva inoltre, agli occhi del regime, far trasparire la continuità della sua dolorosa esperienza coi gulag sovietici. Gli è stato rimproverato quindi un pessimismo di fondo decisamente contrario all’ottimismo imposto dalle autorità sovietiche al popolo russo. Non dimentichiamo infine l’ateismo di stato: non poteva essere considerato popolare uno scrittore ossessionato, per certi versi, dall’idea di Dio.
Si sa che i regimi sanno adattare le proprie posizioni in funzione del mantenimento assoluto del potere. Possiamo interpretare con questa chiave – a modo di instrumentum regni – la successiva riabilitazione operata da Stalin, contemporanea alla ricostruzione della chiesa ortodossa, da contrapporre, ancor più radicalmente, a quella cattolica occidentale, considerata maggiormente nemica.
Nel 1956, dopo Stalin, in occasione del settantacinquesimo dalla morte dello scrittore, è stata ripubblicata l’edizione completa delle opere di Dostoevskij in dieci volumi: è stato il momento più alto della sua riabilitazione in URSS.

E in Russia dopo la caduta della Unione Sovietica?

Direi che non è stato abbandonato il criterio di usare la letteratura nazionale per realizzare consenso, con Dostoevskij forse più che con altri autori. Gli esperti dicono che Vladimir Putin citi molto più Dostoevskij di Tolstoj, perché molto più utile al suo scopo. Ritengo che sia possibile ravvisare un uso, a geometria variabile, di Dostoevskij secondo le stagioni e le convenienze politiche russe. Ricordo come il primo Putin – quindi quello posto a metà del primo decennio del nostro secolo – inaugurando a Dresda, con Angela Merkel, un monumento a Dostoevskij, abbia fatto il discorso sulla “bellezza che salverà il mondo” e abbia sottolineato quindi l’aspetto dell’armonia e della pace tra i popoli. Mentre già un anno dopo circa, in un’altra circostanza ufficiale in onore di un’altra grande gloria nazionale, ossia Puškin, abbia detto che la l’Europa senza la Russia – ovvero la sua cultura – non è vera Europa.
Più recentemente – col progressivo allineamento tra potere politico e chiesa ortodossa – si è intensificata la propaganda culturale che tiene insieme autocrazia, ortodossia e nazionalità. Per questo motivo all’opera e alla figura di Dostoevskij sono stati affidati un ruolo non indifferente, proprio perché, evidentemente, la visione politica della sua maturità si presta alla bisogna. Henry Kissinger – il già segretario di stato americano con Nixon e Ford – ha avuto modo di dire che per capire Putin bisogna leggere Dostoevskij: penso che sia azzeccato. Ad esempio, per capire le attuali crisi sociali nei Paesi dell’ex URSS, si possono rileggere I demoni nell’ottica di Putin, ove i demoni sono i soggetti liberali occidentalisti che insufflano false idee di libertà e di democrazia volte a destabilizzare i popoli e a distoglierli dai valori veri, quelli tradizionali.
Da un critico letterario – profondo conoscitore della cultura russa – quale Cesare De Michelis, ho appreso il concetto di “russità”, ricavabile dal significato della parola russa podpol’ja tradotta in italiano con sottosuolo – da cui Memorie del sottosuolo o Ricordi del sottosuolo – ove la stessa parola significa nella lingua russa l’intercapedine tra il pavimento calpestabile e il terreno gelato sui cui poggiavano le umili abitazioni del popolo per l’evidente esigenza di difendersi dal freddo: ebbene questa intercapedine veniva riempita dalle famiglie del popolo delle cose più vecchie, più tradizionali, ma anche le più care.
Ecco, allora, che l’uomo del sottosuolo Dostoevskij – come ogni uomo russo – è colui che appoggia fermamente i piedi su questo tipo di sottosuolo culturale tipicamente russo. Ciò che quindi noi interpretiamo come materiale culturale di genere conservatore e persino reazionario, per la cultura e la politica russa significa oggi pretesa di rappresentanza ed espressione più fedele e più forte dell’anima del popolo russo.

[Il Grande Inquisitore/2– Intervista a cura di Giordano Cavallari, originariamente apparsa su “SETTIMANAnews.it“, 21 febbraio 2022]