A mio modesto avviso, Giovanni Orsina è uno dei più interessanti e originali storici contemporaneisti italiani della sua generazione (è nato il 31 dicembre del 1967). Lo è perché fa storia con filosofia, vale a dire che sa cogliere le complesse logiche sottostanti le dinamiche storiche che esplora sempre con dovizia di dettagli, ricchezza di bibliografia internazionale e agilità di penna. In altre parole, pensa la storia di cui si impegna a ricostruire le vicende. Pensa e ripensa, osando proporre ipotesi interpretative di lungo periodo che rivelano fili nascosti che intrecciano il presente al passato e pongono premesse parzialmente condizionanti il futuro. Questa capacità di analisi, non così scontata, ce l’aveva già dimostrata con Il berlusconismo nella storia d’Italia (Marsilio, Venezia 2013; tradotto in inglese nel 2014 per Palgrave Macmillan) e la riconferma ancor di più oggi con La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio, Venezia 2018, pp. 183, € 17).
Il libro tenta di rispondere ad una serie di domande che da alcuni anni agitano chiunque si interroghi sullo stato presente dei costumi occidentali, in generale, e degl’italiani, in particolare. Ad esempio, a proposito di questi ultimi, prendiamo i dati di un sondaggio del gennaio di quest’anno: come mai il 54% degli intervistati pensa di essere in credito con l’Italia, di aver assai più dato che ricevuto dal proprio Paese, mentre solo il 7% si sente in debito? Come mai il principale accusato di insolvenza è la classe politica? Ha davvero promesso felicità e benessere in passato, recente e remoto, e ha poi disatteso miseramente un’aspettativa da essa stessa creata? Se ciò fosse vero, perché l’ha fatto? E se non fosse vero, perché tanti italiani attribuiscono alla classe politica di aver formulato una tale promessa e di averla poi tradita? E, infine, come mai il ceto politico non si è prodigato e non si prodiga per contrastare una simile illusione?
Orsina prova a rispondere a queste domande che stanno al fondo del fenomeno noto a tutti col nome di “antipolitica”. Un fenomeno che parrebbe oggi essersi incarnato alla perfezione in un tipo di formazione politica “forse unica al mondo”, ossia quel Movimento 5 Stelle dimostratosi “capace di trascendere la divisione tra destra e sinistra e di attingere all’antipolitica pura”.
Per condurre la propria analisi, lo studioso romano si serve di alcune guide di eccellenza. Anzitutto Alexis de Tocqueville. Questi, nei due volumi della sua Democrazia in America, dimostra come l’assetto sociale democratico si fondi sull’uguaglianza delle condizioni e si basi su una promessa e su una pretesa. La promessa che ciascun individuo possa (e debba) ottenere pieno e assoluto controllo sulla propria esistenza. L’autogoverno di sé, di tutti e di ciascuno. La pretesa, progressivamente avanzata da tutti, che quella promessa sia mantenuta. Ma tra promessa e pretesa sorge “la contradizion che nol consente”: da un lato, la democrazia dichiara di garantire la piena espressione del volere di ogni singolo cittadino, ch’è tale davvero se può rivendicare diritti, dall’altro lato, il funzionamento del sistema democratico si ha solo se i suoi cittadini desiderano, sì, ma solo entro certi limiti. La democrazia, per sua logica interna, “spinge gli individui a desiderare fuori da quei limiti e così facendo mette costantemente in pericolo la sopravvivenza proprio di quel tipo di cittadino del quale non può fare a meno”.
Inoltre, l’assetto democratico, consolidandosi nel tempo, influisce negativamente su alcune caratteristiche dell’uomo (e donna) che vi abita. Primo: “chi vive in quella società la conosce di fretta”, quel che conta è la ricerca del benessere materiale, dunque la vita pratica, e non v’è più tempo per studiare e approfondire. “Ama le generalizzazioni facili, che sembrano dischiudere ogni porta. Ama le nozioni che hanno un’immediata ricaduta pratica, e tende a ignorare la conoscenza astratta”.
Crescendo il valore dell’uguaglianza come principio di legittimazione, il cittadino democratico tende a diffidare di qualsivoglia autorità e a confidare unicamente nelle proprie opinioni (che, peraltro, mai saranno propriamente sue). Scriveva quel preveggente di Tocqueville: “ciascuno si chiude, dunque, strettamente in se stesso e pretende, da qui, di giudicare il mondo”. L’internauta di oggi, sovranista da tastiera, era già prefigurato negli anni trenta del diciannovesimo secolo.
Secondo: chi vive in democrazia soffre per l’evidente impossibilità di far coincidere l’ideale con il reale, l’affermazione di principio del “tutti uguali” e “tutto è possibile” a fronte della persistenza e continua riproduzione di gerarchie e ineguaglianze. La sofferenza si traduce in insoddisfazione e irrequietezza croniche.
Terzo: se il valore supremo è la totale autodeterminazione individuale, l’isolamento è l’esito fatale. Sincronico (ciascuno vive per conto suo ed estraneo agli altri, fatta parziale eccezione per la famiglia e la ristretta cerchia di amici), ma anche diacronico (esiste solo la mia generazione; nessun legame con quella precedente, nessun senso di responsabilità verso quella successiva).
Ci sono una serie di contrappesi, ammetteva Tocqueville, e li vedeva all’opera nell’America di duecento anni fa. Non li enuncio in questa sede, per concentrarmi invece sul fatto che il loro venir meno avrebbe innescato tutte le conseguenze negative sopra elencate. A fine anni venti del ventesimo secolo, José Ortega y Gasset riteneva che la diga fosse franata e l’uomo democratico ormai degenerato nell’“uomo-massa” dai tratti psicologici simili al “bambino viziato” e al “signorino insoddisfatto”. A questo punto, un siffatto tipo umano come può garantire quel legame sociale di cui la democrazia, al pari e ancor più di ogni altro regime politico, ha bisogno per esistere?
La democrazia (liberale) vive di duri presupposti morali che pretendono senso e rispetto del limite da parte di chi in essa vuole vivere. In altre parole, tanti diritti quanti doveri. Ogni squilibrio nella distribuzione degli uni come degli altri comporta la fuoriuscita da un sistema che proclama libertà ed eguaglianza per tutti, e che ingenera al riguardo aspettative crescenti.
La psicologia di chi vive in democrazia è dunque uno dei temi fatti oggetto di maggiore attenzione da Orsina. Sulla scia di altre guide (Tom Wolfe, Richard Sennett, Christopher Lasch, Gilles Lipovetsky), egli rinviene a partire dalla metà degli anni sessanta una fase storica, i cui effetti durano tutt’oggi, in cui il progetto di autodeterminazione soggettiva integrale è stato rilanciato con forza, anche modificandosi per alcuni aspetti. Ne è conseguita una trasformazione radicale della politica occidentale. Il fattore scatenante si è generato a livello antropologico e sociologico: l’avvento del narcisista come tipo umano prevalente nelle nostre società. Se nel primo ventennio post-seconda guerra mondiale l’uomo-massa si era convertito, per una serie di ragioni storiche, nel cittadino capace di autolimitarsi, a metà anni sessanta è riemersa, per altrettante ragioni storiche, la pretesa che la promessa democratica fosse realizzata nell’immediato, tutta e subito. Esplosero le esigenze della liberazione dell’individuo, dell’emancipazione dai vincoli politici, giuridici, morali di società che ancora avevano troppo del periodo prebellico. Cambiò l’interpretazione delle cause della degenerazione e crollo delle giovani democrazie europee degli anni venti: non più dovute alle contraddizioni interne di società di masse iper-esigenti, ma alla repressione delle istanze di queste ultime. Era giunto il tempo di liberare uomini e donne dal peso della tradizione e di mantenere la promessa democratica di società di individui pienamente autogovernantisi. A partire dagli anni settanta si sarebbero resi sempre più visibili i tratti psicologici del narcisismo, diffusi tra ampi strati della popolazione. Le élite politiche occidentali si sarebbero quindi indebolite nei decenni successivi proprio nel tentativo di soddisfare, o di arginare, il rilancio della promessa di assoluta emancipazione individuale. Avrebbero così agito a partire dagli anni settanta lungo cinque direttrici: 1) modificando il quadro istituzionale, e favorendo il decentramento e rafforzando meccanismi di democrazia diretta, come il referendum; 2) ampliando i diritti individuali (con una crescita della spesa pubblica che, fra il 1970 e il 1980, nelle economie avanzate, sale rispetto al Pil dal 35 al 43% e il deficit statale dall’1 al 5%, a fronte di un calo del tasso di crescita medio dal 4 al 2,5%); 3) cedendo, o accettando che sia ceduto, potere a organismi tecnocratici e giudiziari; 4) cedendo, o accettando che sia ceduto, potere a organismi sovranazionali; 5) allargando gli spazi e rafforzando l’autonomia del mercato.
In una sintesi, che Orsina sa essere semplificatrice, ma non del tutto fuorviante, si può sostenere che “negli anni settanta governi di sinistra tendono a soddisfare la richiesta di emancipazione individuale ampliando in misura considerevole il campo dei diritti; negli anni ottanta governi di destra sia assecondano sia arginano quella richiesta facendo forza sul mercato”. Tra fine anni ottanta e anni novanta le destre finiscono per abbracciare la cultura dei diritti, e le sinistre il mercato. Più o meno esplicitamente, più o meno volentieri. Niente di illogico, però: tanto i diritti quanto il mercato “affondano entrambi le radici nella promessa radicale di emancipazione individuale che tanto i conservatori quanto i progressisti decidono di fare propria”. Ed è così che anche la distinzione tra gli uni e gli altri cessa di avere senso. Più niente da conservare, più nessun progresso da perseguire.
Arriva poi la più grande crisi economica occidentale dai tempi del 1929, e la frustrazione da promesse mancate esplode. “Populisti” sono chiamati coloro che, con sempre maggior consenso elettorale, scagliano rabbia e risentimento contro quelle élite che, tra anni settanta e novanta, hanno finito per amalgamarsi, tra realtà e immaginario collettivo, in un unico elemento, l’establishment, tanto ingeneroso quanto autoreferenziale, esclusivo ed escludente. Inizia la fase storica nella quale viviamo, con i suoi stili comunicativi, le sue retoriche.
In questi ultimi anni stiamo constatando altro ancora: che chiunque si avvicini a ricoprire il ruolo di governante, dunque di élite, sia pur nuova e alternativa, finisce rapidamente a ricoprire il ruolo di capro espiatorio (affascinanti pagine vi dedica Orsina sulla scorta della lettura di Elias Canetti). Eppure, paradosso quasi inedito nella storia, si vuol chiamare a rispondere chi non ha potere effettivo, chi nei fatti non prende le decisioni ultime, definitive, davvero incidenti la vita economica e sociale dei cittadini degli stati nazionali. Però l’odierna impotenza della politica (tradizionale: quella dei governanti nazionali e locali) è colpa della stessa politica, almeno di quella che ha prevalso nei decenni precedenti, restia o incapace di far comprendere e imporre che “rinuncia” e “servizio” sono parole imprescindibili del lessico democratico.
Difficile, a questo punto, capire come fare affinché la democrazia smetta di mordersi la coda. Orsina avanza alcune possibili soluzioni, premettendo che “sono tutte o deboli, o assai poco desiderabili”. Mi preme segnalarne tre. Se il problema consiste nell’espansione dell’autodeterminazione soggettiva, la storia della democrazia ha mostrato due modi di limitarla: “facendo forza sulle strutture sociali e sui valori tradizionali da un lato, e sulle circostanze storiche dall’altro”. Valori tradizionali ispirati al senso del limite e della misura non si ricreano a tavolino. Le stesse catastrofi – o emergenze storiche – non si prenotano, e non possiamo certo augurarcele. Potrebbero anche solo distruggere, e non innescare alcuna reazione virtuosa pro-democratica, come accadde, con fatica, nel corso della seconda guerra mondiale.
La terza “ipotesi di governo delle contraddizioni democratiche” che Orsina propone passa per il senso comune, ovvero “per la speranza che quanti abitano le democrazie conservino un patrimonio sufficientemente consistente di realismo, ragionevolezza, pazienza e moralità”. Anche il senso comune può nascondere veleno nella sua coda, ma su qualcosa (e qualcuno) si dovrà pur fare affidamento per una ripartenza. Orsina accetta la sfida della modernità e condivide lo spirito con il quale Eugenio Montale scriveva nel 1963: “Io amo l’età in cui sono nato perché preferisco vivere sul filo della corrente anziché vegetare nella palude di un’età senza tempo: quella che, certo per nostro errore, ci appare l’età dei nostri antenati”.