Guglielmo Ferrero (1871-1942) è uno di quegli scienziati sociali che non hanno mai guadagnato lo statuto di “classico”, pur avendo prodotto analisi e persino schemi teorici di grande forza interpretativa che sono stati più volte ripresi e rielaborati dalle generazioni successive di studiosi del potere e della dinamica dei processi di mutamento sociale. Basti pensare alle riflessioni sul concetto di legittimità elaborato nel volume sul Potere, uscito originariamente a New York nel 1942.
Pochi anni fa, nel 2013, l’editore Rubbettino ha meritoriamente riproposto la traduzione di un lavoro uscito postumo, nel 1951 in francese, e pubblicato in Italia per i tipi della SugarCo vari decenni dopo, nel 1986. Si tratta di Le due rivoluzioni francesi (nuova edizione a cura e con introduzione di Alessandro Orsini).
Le due rivoluzioni a cui accenna il titolo non si riferiscono tanto alla distinzione tra una prima e una seconda fase. La prima, connotata positivamente perché promotrice di costituzionalizzazione del sistema politico francese, con la sostituzione del principio elettivo a quello ereditario e l’introduzione del diritto di opposizione; la seconda, invece, contrassegnata negativamente dalla dittatura giacobina e dal Terrore del 1793-94, che vanificò buona parte della spinta propulsiva ed emancipativa iniziale. Questa distinzione era già stata elaborata in epoca termidoriana da Madame de Staël, fatta propria da Benjamin Constant e portata avanti da una storiografia etichettata come “liberale”.
La novità della lettura di Ferrero sta nell’adozione di un quadro teorico capace di coniugare storia e sociologia. Ne scaturisce un’idea di rivoluzione attraversata sin da subito da un’ambivalenza e una contraddizione laceranti, condizionanti l’evoluzione successiva. La storiografia che fino ai primi del Novecento aveva prevalso era o “di destra” o “di sinistra”. Gli storici di destra, scrive Ferrero, avevano addebitato la Rivoluzione, derubricata a poco più di un fenomeno di follia collettiva, alla lunga e penetrante azione corrosiva della filosofia del diciottesimo secolo, l’Illuminismo. Le colpe sarebbero state insomma di Voltaire, Diderot, Rousseau e altri philosophes. A simili tesi Ferrero replica così: “è innegabile che questa letteratura esercitò una profonda influenza sull’élite intellettuale che diresse, o sembrò dirigere, la Rivoluzione. Ma le masse che agirono in quel periodo non avevano letto né il Contrat social né le altre opere rivoluzione del secolo XVIII. Né si può negare che la Rivoluzione sia stata un grande movimento di massa. Il punto debole della versione di destra è di non spiegare il crollo della più antica civiltà europea”.
La versione di sinistra, dal canto suo, intendeva spiegare tutto con il livello di oppressione dell’antico regime, con una mancanza di libertà assoluta. L’analisi storica del periodo antecedente l’estate del 1789 non giustifica una simile descrizione, sostiene Ferrero sulla scorta di tesi già avanzate un secolo prima da Tocqueville. Ancora troppi ceti beneficiavano infatti di quel sistema per poterlo noi giudicare tout court come tirannico e insopportabile per la stragrande maggioranza della popolazione. Resta qualcosa di incomprensibile al fondo della Rivoluzione francese, che Ferrero riassume argomentando come segue:
“Il problema principale è di spiegare come i principi della Rivoluzione abbiano condotto a un risultato assolutamente opposto a quello che ci si attendeva. Si voleva conservare la monarchia e si mozzò la testa al re e alla sua famiglia. Si voleva instaurare un regime di libertà con il diritto di opposizione, e quattro anni più tardi la Francia sprofondò in uno spaventoso dispotismo. Si proclamò la fraternità da una parte fra le classi sociali e dall’altra fra i popoli, ed ecco che ci s’impegnò contemporaneamente nella guerra civile e nella guerra generale contro l’Europa, che quasi senza interruzione, si protrasse per ventidue anni, fino al 1814!”.
Vi sono infatti due accezioni del termine rivoluzione e due modalità con cui essa si presenta nella storia: come nuovo orientamento dello spirito umano e come rovesciamento di una vecchia legalità. Le due rivoluzioni sono, rispettivamente, costruttiva e distruttiva. Mentre la prima è lenta e può impiegare secoli per dispiegarsi interamente, la seconda è addirittura tumultuosa, e sovente travolge tutto quanto incontra davanti a sé. La rottura della legalità, la sovversione improvvisa e completa delle regole vigenti da secoli, comporta la fine di una garanzia di stabilità e, di conseguenza, con il suo crollo “il terrore s’impadronisce degli spiriti”.
Nell’estate del 1789 si produsse forse il primo, senz’altro il più grandioso, esempio di evento storico e politico che combinò sin da subito le due modalità del fenomeno rivoluzionario. “Due rivoluzioni di natura diversa, l’una creatrice, l’altra distruttrice, si sono realizzate contemporaneamente, e la distruttrice ha offuscato, deviato le forze creative che ha finito col paralizzare e annientare. Sta qui”, conclude Ferrero, “il segreto della Rivoluzione francese, la chiave di tutte le sue contraddizioni” e delle sue complesse e durevoli conseguenze.
Il 14 luglio è la data simbolo della Rivoluzione francese. E a ragion veduta. Ferrero ci aiuta a comprenderlo a pieno. Intorno a quella data successe che “crollò improvvisamente la vecchia legalità monarchica, e in pochi giorni tutti gli organi del potere rimasero paralizzati. Le caserme e i conventi si svuotano; l’esercito si disperde; i soldati non obbediscono più agli ufficiali e gli ufficiali non osano più dare ordini ai soldati; la polizia e la giustizia non funzionano più; nessuno paga più imposte; i castelli e i conventi vengono assaliti e saccheggiati”. In altre parole, un “fenomeno unico al mondo di crollo subitaneo e totale di una vecchia legalità!”. Unicità ribadita dal fatto che si trattò di esplosione, o meglio implosione, in pieno periodo di pace, senza spinte e forzature provenienti dall’esterno. Fu un cedimento strutturale improvviso, vertiginoso e inarrestabile.
Nemmeno la prima rivoluzione russa, quella del febbraio 1917, può essere avvicinata all’evento francese. Due anni e mezzo di guerra mondiale premevano come premessa. In Francia, come ricorda Ferrero, “tutto crollò in sei settimane”. Quel che si verificò fu a dir poco eccezionale: nel giro di pochissimo tempo si sollevò una disobbedienza generalizzata. “Le masse si rivoltano perché avvertono la paralisi dell’autorità e l’autorità cessa di agire perché sente che le masse le sfuggono. Di qui la catastrofe”.
Come tutti i crolli tanto fragorosi quanto improvvisi, anche in questo caso il frutto cadde d’un colpo a seguito di un processo di maturazione lento e profondo. Risalente nel tempo. In assenza di riforme, il frutto marcì. A partire dal XVII secolo, la politica fiscale della monarchia francese era stata “una vera e propria sfida alla ragione e al senso morale”. La monarchia cominciò a vendere tutto, e facendo ciò, a svendere se stessa, la propria forza di legittimità. Il discredito fu profondo e generalizzato. Magistrature, titoli nobiliari, incarichi militari e giudiziali, persino il diritto di lavorare: tutto fu messo in vendita. Pur di far cassa, il re consentì la venalità di qualsivoglia carica pubblica. Ciò gli alienò il tradizionale sostegno della nobiltà, del clero e dell’alta borghesia. Sin dai primi decenni del Seicento, la monarchia di Francia cessò di cercare la collaborazione di queste classi, affidandosi ad esecutori prezzolati. Ciò spiega la mancata convocazione degli Stati Generali per oltre un secolo e mezzo, dopo il 1614.
Crollato il sistema normativo e amministrativo monarchico nelle quattro settimane successive al 14 luglio del 1789, la storia di quel decennio meglio noto come Rivoluzione francese è da intendersi come lo “sforzo disperato per creare una nuova legalità” che sostituisse quella precedente. E, per riuscirci, “occorsero venticinque anni!”, commenta Ferrero.
Lezioni da trarre? Senz’altro una: il 1789 “ci mostra quanto sia facile rovesciare e difficile edificare una legalità. Venticinque anni per ricostruire ciò che quattro settimane avevano distrutto!”. E tutto ciò si deve al fatto che diventa come un bolide lanciato a trecento kilometri all’ora e senza guida qualsiasi società che venga lasciata “in balia di uno stato permanente di paura”. Una totale e subitanea assenza di normatività istituzionale, assicurata e diffusa, ingenera un’autentica psicosi collettiva. E la barca dello Stato, senza timoniere e con l’intera ciurma in ammutinamento, sbanda a destra e a manca. A maggior ragione se il mare presto si agita e una burrasca si profila all’orizzonte.
[Articolo originariamente pubblicato su “Il Pensiero Storico“, n. 3 (numero monografico dedicato a “Storia, Miti e Ideologie”), Giugno-Dicembre 2017]