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Tra Scilla e Cariddi della politica italiana, l’impossibilità di cambiare

Vent’anni dopo: oggi come ieri, Tangentopoli uno e Tangentopoli due, la vendetta, o meglio la testimonianza che niente è cambiato. Ci siamo frastornati, e ci hanno frastornato, con la nuova coppia oppositiva che ha rinnovato i periodi più bui della nostra storia pre-repubblicana e repubblicana. Sulla scia della permanente e strisciante guerra civile italiana che ci trasciniamo quanto meno dal primo dopoguerra, anno 1919, ci siamo scannati tra berlusconiani e antiberlusconiani, anni Novanta e Duemila.

Destra e sinistra, fascisti e antifascisti, berlusconiani e antiberlusconiani, e così abbiamo continuato a cullarci dentro le sicure dande di un sistema binario che ci ha preservato nelle nostre sicurezze e abitudini politiche anche dopo il crollo del Muro di Berlino e l’avvento dell’ultimo stadio della globalizzazione. Incuranti di un mondo che si stava trasformando radicalmente, di un’integrazione europea che avallavamo da beati incoscienti senza capire, o senza che chi di dovere ci spiegasse, che i trattati europei e la moneta unica avrebbero chiesto molto in cambio e molto anche in termini di cambiamento nostro interno. Nel frattempo abbiamo proseguito a recitare gli stessi copioni dentro scenografie rinnovate.

Dalla Prima alla Seconda Repubblica, ovvero: dal primo al secondo tempo di una partitocrazia assembleare sorta con la Costituzione del 1948, un sistema politico nel quale l’assemblea tiene in pugno l’esecutivo e i partiti tengono in pugno l’assemblea, per usare una fulminante definizione di Luciano Cafagna. Ci attendiamo che Benigni, dopo aver ricordato gli indubbi valori contenuti nella prima parte della Carta del 1948, sottolinei nel suo prossimo spettacolo tv, annunciato per il 17 dicembre, quanti inciampi e ostacoli al rinnovamento democratico siano insiti nello stesso assetto istituzionale vigente, ovvero nella forma di governo configurata dagli articoli della seconda parte. Temo però che si limiti all’ormai vecchio e inutile rimpianto per quanto ancora inattuato di quella stessa costituzione.

Il fallimento più grande della cosiddetta “rivoluzione liberale” annunciata da Berlusconi sta proprio nel fatto che la sua ventennale presenza sulla scena politica italiana quale dominus delle competizioni elettorali, nonché più volte presidente del consiglio, non ha minimamente scalfito la struttura partitocratica e assembleare che ha consentito e consente tuttora che il denaro pubblico sia sperperato e dirottato su spese improduttive. E la corruzione è solo uno dei canali di questo sperpero immane: incrementi del 40% nelle spese regionali, del 600% (dal 1993 ad oggi) nei rimborsi elettorali ai partiti, anche quelli defunti, i cui patrimoni acquisiti con le precedenti legislature continuano ad essere gestiti da associazioni e fondazioni create e dirette da parlamentari in pensione o ancora attivi presso nuovi partiti e partitini. Insomma Berlusconi, volente o nolente, ha svolto la funzione di specchietto per le allodole che ci ha distratto e sottratto alla comprensione di come fosse in atto una rigenerazione repentina del sistema partitocratrico e clientelare sorto molti decenni prima Tangentopoli e proseguito allegramente e persino più vigorosamente in questi ultimi vent’anni. In modo trasversale, altro che destra e sinistra!

Se solo ci si azzarda a fare un po’ di “scienza” della politica nostrana, si rischia la paralisi e il pessimismo cosmico, perché si scopre di essere una cittadinanza imbarcata su un mare tempestoso chiuso e stretto tra Scilla e Cariddi. La navigazione verso approdi salvifici sembra impossibilitata, fagocitati come siamo dentro un maelström che ci fa girare vorticosamente a vuoto su noi stessi, come l’Ulisse dantesco travolto da un “turbo” che per “tre volte il fé girar con tutte l’acque” e “infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.

Continuando sulla falsariga della metafora mitologica, diciamo che Scilla è la partitocrazia assembleare. Il contesto postfascista e postbellico spiega le scelte del momento, ma il contingente è diventato il permanente, anche quando mutando contesto il sistema ha reso obsoleti o superflui, perché divenuti inefficaci, i pregi, e ha mantenuto i difetti, aggravatisi per assenza di cure e rimedi. Frammentazione, polarizzazione e deriva oligarchica dei partiti, a detrimento della crescita di una cittadinanza politica attiva, sono stati solo alcuni dei difetti emersi e dilagati nel tempo.

La nostra Cariddi è la partecipazione politica, specialmente sotto forma di partecipazione elettorale, vissuta come continuazione del tifo calcistico con altri mezzi. Non importa se si abbia torto o ragione, questo il ragionamento, è comunque il mio partito. La mia fede, e i simboli e le bandiere, persino i colori, contano più del resto. Right or wrong, it’s my (political) party.

Queste due estremità sono gli angoli di uno spazio fortificato dentro il quale i margini di manovra sono ridotti. È un sistema che si autoalimenta, dall’alto e dal basso delle istituzioni, con le leggi partitocratiche e il voto di appartenenza (a cui si aggiunge quello clientelare, che Scilla produce da sé).

Possibili soluzioni? Indichiamo sommariamente due ipotesi, tanto per provare a innescare un dibattito tra personalità più competenti di noi.

Prima ipotesi. Una formazione politica assolutamente di nuovo conio, formata da giovani entusiasti e persino dannatamente ingenui ma immuni da tentazioni affaristiche e clientelari, ottiene una maggioranza larghissima, attorno al 60% minimo, prende la maggioranza assoluta dei seggi e impone nel giro dei primi 100 giorni un taglio drastico dei costi della politica, a partire dalla grande farsa, e truffa, dei rimborsi elettorali (lievitati fino agli oltre 500 milioni di euro dell’ultima campagna elettorale nazionale del 2008). Probabilità di riuscita, ovvero che ciò accada: pari a zero. Partiti consolidati e di antica discendenza, pur malridotti rispetto ai tempi d’oro della Prima Repubblica (quella del primo tempo), potranno sempre contare sulla tifoseria politica e la fedeltà elettorale nei secoli dei secoli.

Destra e sinistra, in Italia, sono etichette che servono a perpetuare questo attaccamento fideistico ad una politica intesa come modo per essere sollevati dalla fatica di essere cittadini attivi, anzitutto con l’uso della propria testa, o, se si vuole dirla in modo più colto, dell’autonomia della ragione politica. L’importante è definirsi, prima di ogni altra cosa, di “sinistra” o di “destra” in modo da tranquillizzare i propri elettori e le proprie convinzioni ereditarie (la famiglia è il garante per il mantenimento di questa tradizione, un’altra forma di familismo amorale). Se sei di destra vorrà dire che sei “contro i comunisti” di ieri e di oggi, palesi o camuffati, e anzi lo proclamerai a gran voce e digrignando i denti in modo che appaia chiaro e rassicurante per i tuoi elettori, e ciò basterà ad esser votati per sempre, vita natural durante. Se sei di sinistra vorrà dire che sei “contro i fascisti” di ieri e di oggi, palesi o camuffati, e anche qui lo griderai ai quattro venti, e ciò basterà a garantirti quote sufficienti per avere un ampio numero di seggi, e conseguentemente un’ampia fetta di rimborsi elettorali, o come vorranno chiamarli alla prossima gattopardesca riforma sul finanziamento pubblico ai partiti.

Si dirà che oggi il consenso ai partiti, specie a quelli tradizionali, che si muovono su schemi dicotomici risalenti alla Guerra Fredda, sono in via di estinzione, o comunque drastica riduzione. Sì, è vero, almeno in parte, ma gli eredi del mondo comunista e di tutto ciò che vuole riproporsi come prosecuzione, “aggiornata” ovviamente (!), della sinistra antifascista, sono ancora in grado di garantirsi tra il 20 e il 30 per cento dei voti. Lo stesso dicasi per gli eredi del mondo anticomunista, più o meno conservatore (termine davvero oggi senza più senso, politicamente parlando, almeno in Italia), più o meno liberale (termine fuorviante oggigiorno, ma che può servire ancora a convincere molti elettori che si è anticomunisti e anti-sinistre). Tra il 25 e il 35 per cento dei voti lo valgono sempre, anche quando una parte dell’elettorato cosiddetto moderato (?) si astiene e non va a votare, secondo una tendenza in passato più frequente a destra che a sinistra.

Attenzione: parliamo di percentuali interne all’universo dei votanti, il che significa di una percentuale che probabilmente scenderà ancora, ma quel che conta è chi va a votare, non chi si astiene, come dimostrano sistemi politici quale quello americano. Insomma, qui non si vede via d’uscita.

Seconda ipotesi. Di fronte all’ennesima impasse decisionale e alla cronica instabilità governativa, rese drammaticamente evidenti dalla mancanza di una vera maggioranza politica dopo le prossime elezioni, si potrebbe decidere di convocare le elezioni per una nuova assemblea costituente e riscrivere così le regole del gioco in termini di rapporto tra esecutivo e legislativo. In tal modo si arriverebbe finalmente a spezzare le sbarre della gabbia d’acciaio dell’assemblearismo partitocratico e a cancellare la “democrazia (ma leggi: oligarchia) dei partiti” istituita nel 1947. Probabilità di riuscita: meno che zero.

Se anche dalle urne della primavera del 2013 non uscisse una maggioranza politica ben definita e coesa al suo interno, e la pressione dei mercati internazionali e della speculazione finanziaria obbligasse a rimpasti o alla creazione di un nuovo governo tecnico super partes, quindi sovrapartitico, è evidente che si farebbe di tutto pur di non andare alla riscrittura delle regole mediante il ricorso alla sovranità popolare.

Qualcuno potrà pensare che il ragionamento qui svolto favorisce, consapevolmente o meno, il movimento di Beppe Grillo e qualsiasi qualunquismo e populismo antipolitico di oggi e di domani. Confido io in Grillo e nei “grillini”? No, eccezion fatta per quel tanto di appello ad un nuovo impegno e una rinnovata partecipazione dal basso che il Movimento 5 stelle sollecita. E valore aggiunto potrebbe essere quella sua trasversalità rispetto al discrimine destra/sinistra che lascia a tratti intravedere. Nonostante quel tanto di beneficio che può portare ogni voluntas destruendi di qualcosa che è marcio e inquinante, con il grillismo temo però si vada poco avanti. Occorre aggiungervi qualcosa.

Certamente serve qualcosa che scardini un sistema arrugginito nelle sue pratiche clientelari e affaristiche, i cui gangli restano però ben oliati periodicamente da nuovi escamotages legislativi, dal momento che il diavolo, si sa, è nel dettaglio, ovvero nei cavilli di ogni italico testo legislativo. Chi ha in mano il potere di fare – e disfare – le leggi ha in mano tutto in un Paese retto da un sistema parlamentare praticamente puro, cioè assoluto; e dove il parlamento è gestito da una partitocrazia che può cambiare nomi e simboli ma mantiene sempre le stesse logiche e finalità di comportamento. Quanto è periodicamente accaduto con la questione del finanziamento pubblico ai partiti è prova lampante di quel che dico.

Dunque non basta la rabbia, non basta l’indignazione, se restano benzina per motori che girano a vuoto, e mancano di una destinazione chiara, ovvero di una strategia di attacco e distruzione ma anche di costruzione e difesa di nuovi e diversi assetti costituzionali, governativi e parlamentari.

Ho parlato di giovani dannatamente ingenui. Sì, è vero, ma non fino al punto di essere sprovvisti della cultura politico-giuridica e costituzionale, di quella conoscenza “scientifica” della macchina amministrativa e legislativa con cui la nostra repubblica partitocratica si alimenta e si muove da oltre sessant’anni (e dopo aver emesso i suoi primi vagiti con la monopartitocrazia fascista). L’indignazione morale non basta se non si capisce come funziona il sistema, come e dove provare a manometterlo a fin di bene. Altrimenti, una volta arrivati imberbi (politicamente, culturalmente parlando) e baldanzosi a Montecitorio e Palazzo Madama, tutto cambierà perché nulla cambi. Inoltre, ed è questo un ulteriore problema, temo che, se anche la volontà di azzerare il sistema partitocratico procedesse inesorabile, la sua efficacia verrebbe frenata da una burocrazia ministeriale e pubblico-amministrativa che manterrebbe la propria gabbia d’acciaio, imprigionando anche i novelli Prometeo liberatori. Come Circe, li trasformerebbe prima o poi in novelli porci.

E saremmo punto e a capo. Avremmo solo il terzo tempo, l’extra-time, della Prima Repubblica, eterno sistema controllato dai partiti e dalle oligarchie formatesi al loro interno e ingrassatesi a dismisura col denaro pubblico, che voracemente esigeranno sempre e ancora, e ancora, fino al collasso. Ecco, forse, una soluzione. No, speriamo non sia questa. Alla bancarotta raramente segue una rigenerazione democratica. Tutt’altro.

Comunque, uscire dalla morsa di Scilla e Cariddi pare al momento impossibile. Oppure sono io a non avere la “scienza” adeguata a trovare la via d’uscita. Ben vengano altre, più efficaci ed ottimistiche proposte. Lascio volentieri aperte le porte alla speranza, e allo studio del possibile dentro l’impossibile.