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Le ragazze della Nigeria: riportiamole alle loro famiglie!

di Edoardo Tabasso

Blessing Abana, Deborah Abari, Deborah Abbas, Hadwa Abdu.
Sono i primi nomi di una lista che corre fino a quasi 300: sono i nomi delle ragazze rapite, tra il 14 e il 15 aprile, nel dormitorio di una scuola in Nigeria. Rapite dal gruppo terrorista Boko Haram, una sigla che significa «l’educazione occidentale è peccato» e che vuole l’introduzione della sharia nel grande stato africano. In video si vedono le ragazze ricoperte dall’hijab, un velo fino ai piedi e il volto scoperto, mentre il capo degli islamisti, afferma che le giovani si sono convertite all’Islam. Boko Haram aveva minacciato di vendere le ragazze rapite come schiave e ironizza sulla mobilitazione globale: “Queste ragazze di cui vi preoccupate tanto, in verità noi le abbiamo già liberate. E come le abbiamo liberate? Facendole diventare musulmane”.

Ma questa non è una storia di musulmani contro cristiani, infatti le ragazze sono cristiane e musulmane. È una storia contro l’educazione, soprattutto contro l’educazione delle bambine. In un video precedente i terroristi avevano dichiarato che “le ragazze sono fatte per diventare mogli, a 12 anni, anche a 9, non per studiare, o per essere vendute al mercato”.

L’attivista pakistana Malala Yousafzai ha lanciato lo slogan “Bring Back Our Girls”, dedicato alle studentesse rapite affinché si intervenga per liberarle dai terroristi islamici.. È subito scatta una campagna mondiale sui social network ripreso da sconosciute casalinghe nigeriane e da Michelle Obama, fino a Papa Francesco. Tutto bene, tutto molto bello e moderno. Viene da chiedersi, però, come si pensa di bloccare Boko Haram al di là di Facebook. Dove sono l’ONU e le altre organizzazioni internazionali?

Le proteste si sono diffuse dalla capitale Abuja a Lagos, da Londra a Washington. Così il dramma delle ragazze rapite ha reso evidente che i Boko Haram non sono un problema soltanto nigeriano: per via del loro raggio d’azione esteso ai Paesi confinanti e per i probabili legami con altri gruppi jihadisti africani come gli Shebab somali e Al Qaeda nel Maghreb. La libertà di quelle ragazze non riguarda solo il loro destino ma l’intera condizione umana: a partire dal loro rapporto con i figli. La differenza essenziale fra le società islamiche e occidente è nella condizione della donna. Il sogno di un diploma per diventare un giorno avvocate, insegnanti, chirurghe fa dunque paura ai terroristi.

Noi chiacchieriamo molto sulla democrazia, sulle speranze per il futuro di questi paesi. Cerchiamo invece di comprendere e informarci come la morsa del neo fondamentalismo islamico stia peggiorando, anche rispetto a costumi arretrati, la condizione femminile. E come quel poco che era stato guadagnato stia andando perduto: il matrimonio delle bambine a otto anni, le mutilazioni genitali femminili, l’impossibilità di divorziare da parte femminile, la poligamia, le punizioni corporali, il fatto che in ogni azione legale compresa la testimonianza in tribunale la donna vale la metà dell’uomo.