di Carlo Marsonet
Tra i molteplici pregi che hanno i classici della letteratura vi è anche quello di non essere semplicemente opere di narrativa. Essi racchiudono riflessioni che possono abbracciare molteplici campi del sapere e, in tal modo, fornire insegnamenti stratificati. Del resto, a ben guardare, siamo noi contemporanei che tendiamo a separare rigidamente i settori disciplinari, come se la conoscenza si lasciasse imbrigliare in ottusi schemi e non fosse qualcosa che, al contrario, travalica i confini ad essa posti dall’uomo.
Il Grande Inquisitore di Fëdor Dostoevskij (1821-1881) rispetta plasticamente quanto sopra detto. E l’edizione curata e introdotta da Danilo Breschi per le Edizioni Feeria – Comunità di San Leolino (2020, pp. 94, € 10) lo dimostra con profondità e acume. Infatti, si tratta di un testo che, pur nella sua brevità – si noti che esso costituisce il capitolo V del V libro de I fratelli Karamazov (1880): l’edizione introdotta e curata dallo storico delle dottrine politiche toscano è, inoltre, arricchita dalla conclusione del capitolo II (Smerdjakov suona la chitarra), dal capitolo III (I fratelli fanno conoscenza) nonché dal capitolo IV (Ribellione) al fine di immergere pienamente dentro la vicenda il lettore – è impregnato di un’impressionante quantità di onerosi problemi per l’uomo: il fulcro è rappresentato dal tema della libertà nei suoi ramificati (e complicati) rapporti con la fede, la servitù, il potere, la felicità, la sicurezza (fisica e materiale).
Si spazia, in altre parole, dalla filosofia morale alla teoria politica, dall’antropologia alla sociologia, fino ad arrivare, com’è evidente, al tema della teodicea: un vero e proprio – seppur modesto nelle dimensioni – trattato sulla natura umana. La densa e precisa introduzione di Breschi costituisce, in tal senso, un imprescindibile strumento orientativo per l’interpretazione e la comprensione del testo.
Il capitolo qui in esame de I fratelli Karamazov – ultimo romanzo dello scrittore russo, pubblicato a puntate, dal gennaio 1879 al novembre 1880, sulla rivista «Il messaggero russo» – vede come protagonisti due dei fratelli (della famiglia da cui l’opera trae il nome): il ventitreenne Ivan e il diciannovenne Alioscia. Il primo è ateo e in radicale ostilità col mondo creato da Dio: la libertà che è stata fatta dono alle creature terrene è un peso insopportabilmente gravoso per «un animale selvaggio e cattivo come l’uomo» (sono parole dello stesso Ivan). Ovunque vi sono ingiustizie e bruttezze, meschinità e sofferenze, tali per cui il giovane e tormentato ateo si ribella a quello che il Signore ha riservato ai suoi figli sulla terra.
Come può Dio consentire, si chiede ad esempio Ivan, che vi siano così tanti bambini che soffrono? Essi rappresentano la primigenia e assoluta purezza ed Egli, il Misericordioso, lascia che soffrano per colpe di cui i padri soli possono essere imputati. Se così stanno le cose, allora, Ivan rifiuta categoricamente il biglietto per l’aldilà: non ne vale il prezzo richiesto in terra. Alioscia, monaco novizio, ha trovato invece la pace interiore: ha fede e sa che le sofferenze terrene – che sono tanto il frutto delle scelte dell’uomo e della sua libertà, quanto di qualcosa al di fuori del suo controllo: Robert Spaemann direbbe che «l’agire responsabile presuppone sempre una ben definita, limitata responsabilità, perciò una certa misura di irresponsabilità» – troveranno armonia e serenità una volta giunta la redenzione finale. Vi sono disegni che l’uomo può non comprendere: l’imperscrutabilità degli schemi divini non può essere dissipata.
Comincia così il poema che il più grande dei due racconta all’altro: Il Grande Inquisitore. Si svolge nel sedicesimo secolo, a Siviglia, il giorno dopo che sono stati arsi un centinaio di eretici per ordine del tribunale della Santa Inquisizione. Gesù Cristo – sebbene mai venga esplicitato si tratti di Lui – torna sulla terra. Immediatamente la folla accorre rivolgendo richieste, anzi, miracoli: ne compie due. Non appena, però, il Grande Inquisitore giunge nella piazza la massa si prostra ai suoi piedi: da esso e dalla Chiesa il popolo trae il pane. Portato in prigione, il cardinale gesuita lo interroga, senza tuttavia avere mai risposta: è un monologo, non un dialogo.
Come nota Breschi, «abbiamo qui raffigurati il silenzio del Bene e il rumore del Male. Il Bene tace perché “è”, “sta”, è l’Essere in sé compiuto. Il Bene non ha bisogno di difendersi, perché ha in se stesso tutta la sua forza. È concentrazione, non dissipazione. Invece il Male è rumoroso, si agita, perché è non-essere, è parvenza di essere. Prova a prendere consistenza agitandosi, facendo rumore. Il silenzio è anche segno».
Il Grande Inquisitore incalza Gesù, riferendosi alla folla che si è prosternato al passaggio del gesuita. Cristo l’aveva liberata, ma ora è ridotta a serva del potere: «Sì, l’abbiamo pagata cara, questa tua opera; ma ora l’abbiamo finalmente condotta a termine in tuo nome. Quindici secoli abbiamo continuato a tormentarci con questa tua libertà, ma ora è finita; siamo a posto e ce ne restiamo fermi». L’uomo ha tradito il compito che le era stato affidato: tutelare la sua libertà, autogovernandosi e frenando le proprie pulsioni. La libertà richiede sacrifici, anche dolorosi. Una certa padronanza di sé, senso del limite, capacità di autocontrollo: senza dimenticare che l’uomo non vive – e non può vivere – di solo pane, perché non è solo corpo ma anche spirito.
La libertà richiede allora responsabilità: responsabilità di agire secondo il Bene, di ricercare con umiltà la verità – senza mai cedere alle lusinghe del potere di turno che cerca di vendere presunte certezze e una perfetta felicità –, di provare ad elevare la propria condizione materiale ma anche spirituale, di coltivare il dubbio. «Sappi, allora – continua il Grande Inquisitore – che appunto tutta questa gente è adesso persuasa più che mai di essere pienamente libera, e intanto essa stessa ci ha offerto la sua libertà e l’ha umilmente deposta ai nostri piedi». La libertà, in altre parole, è stata barattata in cambio di un po’ di sicurezza fisica e benessere materiale.
Tale, infatti, è il rischio perenne – non la certezza che vada a finire così, si badi – che si vive in libertà: senza una sua educazione, l’uomo cade facile preda di chi ne promette di più o, per contro, assicura maggiori (ipotetici) benefici sensibili. Ma la libertà, come ha posto in luce Lord Acton, «è il fine politico più alto». Senza di essa, l’uomo non è più tale ma è un anodino granello di sabbia, mera parte di un gregge, oggetto agito e non soggetto agente. Essere uomini, vivere potremmo anche dire, comporta il fardello di sobbarcarsi di continui problemi: quotidiani, come ad esempio andare a lavorare per guadagnarsi da vivere e curarsi della propria famiglia; ma anche più “alti” e tormentosi come domandarsi il perché della propria esistenza e quale il proprio compito, chiedersi se esiste qualcosa che ordina il mondo terreno, se esiste un telos che ci comprende ma che, al contempo, ci trascende.
Chi cerca scorciatoie, è fatto per servire. Da qui la sempiterna questione della libertà come, sì, autonomia, autogoverno individuale, assenza di impedimenti esterni, ma con uno sguardo rivolto oltre, verso la verità da ricercare incessantemente. Scrive Breschi: «la libertà […] nella sua vera essenza, non è perciò mera trasgressione, non è semplice assenza di impedimento, ma anelito alla verità che si concretizza in tensione morale, in perseverante condotta ispirata alle virtù della prudenza, temperanza, fortezza e giustizia». In altre parole, l’uomo per essere tale necessita di crearsi un’armatura, tale per cui riesce a rifuggire chi lo tenta, privandolo della fatica di vivere: «Chi non è padrone di sé è facilmente occupabile», scrisse magistralmente Antonio Rosmini.
«L’uomo, infatti, non cerca tanto Dio, quanto il miracolo. E siccome egli non può rimanere senza miracoli, se ne creerà egli stesso di propri e si prosternerà allora davanti a un mago, a una fattucchiera», fa dire Ivan al cardinale gesuita. L’uomo anela alla certezza, ma è fatto di un legno storto che può provare a raddrizzare (solo) un po’: essere diritto non è cosa per lui, non è di questo mondo imperfetto.
Il potere corrompe, ma se diventa assoluto corrompe in modo assoluto, notò Lord Acton. «Noi – continua il Grande Inquisitore – sapremo persuaderli che diventeranno veramente liberi solo quando rinunceranno alla loro libertà e si assoggetteranno a noi». Sembra quasi di leggere La democrazia in America di Alexis de Tocqueville: «Essi apprezzeranno troppo bene la sottomissione, una volta per sempre! […] proveremo loro che sono privi di forza, che non sono che miseri bambinelli, ma che la felicità infantile è la più dolce. […] Essi si troveranno infiacchiti davanti alla nostra collera, la loro mente s’indebolirà i loro occhi lacrimeranno costantemente, come quelli delle donne e dei bimbi […]. Si, noi li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere organizzeremo la loro vita come se fosse un gioco infantile, con canti, cori e balli innocenti. Permetteremo loro anche il peccato. Essendo deboli e privi di forze, vorranno bene a noi come tanti bimbi, perché permetteremo loro di peccare. […] I più tormentosi segreti della loro coscienza, tutto, tutto comunicheranno a noi, e noi giudicheremo tutto, ed essi si sottometteranno al nostro giudizio con piacere, perché ciò toglierà loro tante preoccupazioni e tutte le odierne torture che costa la decisione personale e libera».
Come scrive il curatore, allora, «l’Inquisitore è novello Satana con novella tentazione: instillare sfiducia nell’uomo, un po’ per disprezzarlo, un po’ per compatirlo e soccorrerlo, ma in fondo con l’unico scopo di giustificare il proprio controllo paternalistico e assolutistico». Se è ben vero che la libertà è, a un tempo, tanto attraente quanto tormentosa, come afferma il Grande Inquisitore, è altrettanto vero che è solo attraverso una sua educazione in tal senso che esso può vivere davvero da uomo (e non da infante o da servo): ricercando il Bene e la verità, la propria felicità e il senso della propria vita, errando ma non disperando di trovare qualcosa, attraverso il precario ma fecondo cammino da uomo libero.
«Spesso gli uomini perdono la libertà perché ingannati, talvolta perché sedotti da altri, ancora più sovente perché si ingannano da sé», scrisse una volta Étienne de la Boétie.
[articolo uscito su “Il Corriere Nazionale“. Si ringrazia il Direttore, Antonio Peragine]