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Il futuro del mondo si decifra a Hong Kong

Recensione a: Marco Lupis, Hong Kong. Racconto di una città sospesa, il Mulino, Bologna 2021, pp. 362, € 18.

Una strana e tormentata dichiarazione d’amore. Strana perché inizia con l’ammissione che il primo impatto con la città, nell’ormai lontano autunno del 1995, fu traumatico e persino respingente. Non fu insomma il classico colpo di fulmine, perché Hong Kong è complessità caotica e faticosamente penetrabile da occhio occidentale. Eppure ben presto il “porto profumato”, questo significa Hong Kong in cinese, ha preso alle spalle l’allora trentenne reporter italiano e lo ha ammaliato senza scampo. «Del resto, Hong Kong non è l’amante focosa che si consuma di passione nel primo appuntamento, ma piuttosto assomiglia a un’abile e attempata prostituta che ti imprigiona piano piano; ti lega in un amplesso che, a un certo punto, senza che tu te ne renda conto, crea dipendenza. Un amante lasciva e infedele che riesce a stupirti comunque e, in fondo, un poco a raggirarti, fingendosi tutta e solo tua, recitando una verginità persa da tempo ma capace di farsi ogni giorno nuova, e unica, tutta e solo per te. Il suo fascino è talmente sottile e nascosto, che a molti capita di subirlo soltanto dopo il viaggio, una volta tornati a casa» (p. 20).
Notate la finezza letteraria del brano qui sopra riportato. Non c’è alcun dubbio: questo libro segna la consacrazione di Marco Lupis come scrittore. Personalmente ritengo Hong Kong. Racconto di una città sospesa la sua opera più riuscita, anche rispetto al pur splendido I cannibali di Mao, al quale è stato giustamente assegnato il premio “Città di Como” per il miglior libro di giornalismo di viaggio del 2019. In quel caso, però, avevamo essenzialmente un saggio, mentre qui siamo di fronte ad un testo molto più complesso ed articolato, leggibile a diversi livelli. Hong Kong è l’opera della sua maturità, in cui Lupis palesa qualità ulteriori a quelle dell’ottimo giornalista ed autorevole inviato di guerra, corrispondente dall’estero, apprezzato conoscitore dell’Estremo Oriente. Credo Lupis abbia ormai affiancato l’amato maestro Tiziano Terzani, peraltro citato nell’esergo di questo libro. L’Autore riesce ad immergere il lettore dentro Hong Kong, consentendogli di percepire persino gli odori e i suoni, o meglio i rumori, di una città dalla vita frenetica, caotica, anarchica, convulsa, congestionata, ma anche simpaticamente chiassosa e colorata. Lupis è uno scrittore a tutto tondo, tanto da far annoverare la sua ultima fatica editoriale tra la migliore letteratura di viaggio. Un viaggio inteso come avventura, mistero, passione per la conoscenza delle diversità culturali, ma anche impegno civile, visto che Lupis è tra i pochissimi corrispondenti italiani ad aver dato tutto il dovuto risalto alle proteste degli studenti (e non solo) esplose a Hong Kong nell’estate del 2019 e proseguite nella prima metà del 2020.
Questo libro è una dichiarazione d’amore, dicevamo. Lo è per una realtà culturale, sociale e politica che rischia di scomparire. A tratti, e soprattutto nel finale, le pagine di Lupis lasciano nell’animo del lettore il sentimento aspro dell’addio, rivolto ad un amore strappato, sequestrato e vilipeso. Per dirla tutta, Lupis racconta la storia di una città che in parte non c’è già più e sempre meno ci sarà. È un fascino magico quello che Hong Kong ha sempre esercitato su chi supera il primo impatto e si abbandona alla sua multiforme realtà. Un fascino legato anche al fatto di essere stata una colonia dell’impero britannico che fu.
Divenuta formalmente un possedimento britannico nel 1843, vent’anni più tardi gli inglesi ampliarono il loro possedimento nell’area. Nel 1898 acquistarono il resto della penisola di Kowloon e il suo entroterra limitrofo, con le oltre duecento isole ed isolotti dell’arcipelago circostante. Gli inglesi non chiesero alla Cina una cessione perpetua di sovranità e fu concordato che l’intero territorio sarebbe stato un possesso a termine, «l’unico del genere nell’Impero britannico, con una data di scadenza già fissata» (p. 159), ossia novantanove anni, dal 1898 al 1997. Ecco che, seppure soltanto per due anni scarsi, Lupis ha goduto il privilegio di vivere il definitivo tramonto dell’ultimo grande impero coloniale europeo, quello britannico, già nei fatti scomparso, ma che con Hong Kong poteva ancora vantare un ultimo frammento, una briciola di pane ancora fragrante. L’allora trentenne giornalista corrispondente di “Panorama” (oggi lavora invece per “Huffington Post”) ha così potuto respirare un clima unico al mondo, che rendeva piuttosto facile immedesimarsi nei protagonisti di quei romanzi occidentali che tra fine Ottocento e inizio Novecento raccontarono la presenza coloniale europea nell’estrema propaggine dell’Oriente continentale. Di qui probabilmente il fascino subìto dal giovane giornalista italiano, che dalla seconda metà degli anni Novanta in poi ha camminato in lungo e in largo per le affollate e chiassose strade di Hong Kong, attraversando lunghi viali in cui file di negozi di pompe funebri da sempre mostrano la propria merce in vendita, ossia bare distese sul marciapiede. Un fascino respirato addentrandosi in vicoli fumosi, dove macellai sono soliti ostentare carni di cane, serpente o cavallucci marini essiccati, infilzati e appesi a lunghi ganci di metallo in mezzo ad un nugolo di mosche ronzanti. Per venticinque anni Lupis ha osservato e intervistato l’alto e il basso, il sacro e il profano di questa multiforme metropoli di sette milioni e mezzo di abitanti. Il lettore attento saprà cogliere il riflesso dei romanzi di cui sono state nutrite l’infanzia e la prima giovinezza del giornalista calabrese, un riflesso che luccica nel suo sguardo di reporter sempre più innamorato di quella terra estrema di cui narra pregi e difetti, fortune e sventure. Un racconto lungo ormai un quarto di secolo. Era pertanto giunto il tempo di trarre un bilancio chiaro, netto. Una città, un angolo di mondo, sono inevitabilmente diventati parte significativa di un’esistenza. Un luogo dell’anima, nel vero senso della parola.
Certamente la storia del passato coloniale di Hong Kong «non fu tutta luccichii, come gli inglesi vorrebbero far credere» (p. 247). Tuttavia il trascorrere del tempo deposita una patina di nostalgia che, soprattutto alla luce di quanto sta accadendo alla città negli ultimi anni, si è notevolmente ispessita cosicché Lupis può legittimamente abbandonarsi ad un sentimento che alimenta il lato poetico di alcuni capitoli, tutti da leggere d’un fiato. Hong Kong è in parte penisola, in parte arcipelago. È una metropoli che racchiude segreti circondati dall’acqua. È una città tentacolare che nasconde un’anima nera, come la “Città murata”, un quartiere che ha rappresentato per molto tempo una vera e propria città nella città, sgomberata e demolita completamente, dopo molti vani tentativi, tra il marzo del 1993 e l’aprile del 1994. Un «covo di iniquità» (p. 117), un labirinto di bordelli, fumerie di oppio e altre attività illegali gestite dalle feroci e potenti organizzazioni criminali locali, note con il nome di Triadi. Lascio al lettore il piacere di gustarsi la descrizione che Lupis fa della Città murata e i racconti che hanno accompagnato la vita di questo quartiere incredibile, inquietante, accattivante, con la più alta densità abitativa al mondo. Pagine degne di un noir o di una gangster story. Non mancano infatti riferimenti cinematografici, anche perché questa città delle tenebre è stata usata da sfondo in numerosi film di tal genere. Nel libro di Lupis si nota come molti cinesi di Hong Kong siano restii al rispetto delle regole, delle convenzioni e delle leggi, avendo vissuto per secoli in una condizione di (semi)illegalità diffusa, in un’atmosfera degna dei romanzi di Jack London, Rudyard Kipling o Joseph Conrad. Numerosi gli episodi in tal senso, che Lupis sa restituirci con maestria narrativa e una certa compiaciuta ironia.
La bravura di Lupis come scrittore sta anche nel fatto che la lettura di questo libro invoglia chi non vi è mai stato a visitare ed esplorare i meandri oscuri e gli ampi spazi urbani ultramoderni di Hong Kong, le decine e decine di isole del suo arcipelago, in cui la natura ancora si mostra nuda e selvaggia. Una guida inesauribile di informazioni e curiosità, anche questo è il libro, che è stato scritto secondo più registri, in cui la forma del reportage compare ma è volutamente contenuta. È la parte che mette in guardia, che lancia l’allarme, e forse è proprio il motivo per cui è ridotta rispetto a quanto ci si sarebbe aspettati dal libro di un giornalista. Lupis soffre nel raccontare la parte più recente della storia della città. Storia di oppressione e repressione.
La trasformazione che Hong Kong sta subendo è molto recente e ha una causa: Xi Jinping. Questi è dal 2013 il presidente della Repubblica popolare cinese e suo indiscusso leader supremo, dato che dopo il 2018 ha avallato l’abolizione dei limiti del mandato presidenziale, assicurandosi in tal modo un governo a tempo indeterminato. La fine della Hong Kong che possiamo ritrovare nel libro di Lupis è datata estate 2020, quanto il governo cinese ha varato la legislazione liberticida detta “della sicurezza nazionale”, decretando la cessazione delle libertà fondamentali dei cittadini hongkonghesi e la loro assimilazione alla dittatura totalitaria del partito unico comunista.
Il modello originariamente voluto dalla Cina e stabilito ufficialmente nel 1984 dagli accordi tra Deng Xiaoping e Margaret Thatcher, noto con la formula “un paese, due sistemi”, basata sull’auspicio di quel che oggi appare come un «improbabile idillio sino-britannico» (p. 244), è stato brutalmente estinto per volontà di Xi, perché egli è entrato in rotta di collisione totale con l’Occidente. La Cina di Xi, «un tradizionalista e nazionalista di ferro, sotto la patina di riformista progressista» che pure ostenta (p. 319), è oggi una grande potenza imperiale, che sta diventando sempre più assertiva e aggressiva, proprio in virtù dell’enorme forza industriale, tecnologica e scientifica acquisita nell’ultimo quarto di secolo. Paradossalmente, la fortuna di Hong Kong fu il comunismo maoista. Fino a quando la Cina è rimasta chiusa nel regime imposto da Mao Zedong, la metropoli hongkonghese è stata il porto franco della mediazione tra capitalismo occidentale e comunismo asiatico. Persino una risorsa, a suo modo. Avvicinatasi sul piano economico, e solo in questo, all’Occidente, la Cina non ha più avuto bisogno del capitalismo di tipo occidentale circolante a Hong Kong, diventando semmai la sua esistenza un problema sul piano delle libertà politiche e dei diritti civili che vi continuavano a vigere. Xi ha pertanto proceduto ad assimilare Hong Kong. Anzi, a fagocitarla. Operazione brutale e spietata che si è ultimata nei primi mesi del 2021.

Il 1° luglio del 1997, giorno del trasferimento della sovranità di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina, non segnò la vera svolta, anche se, soprattutto col senno di poi, possiamo dire che fu l’inizio della fine. A rileggere, come il libro consente di fare, quel che avvenne per la cerimonia del cambio della guardia, possiamo dire che i segnali in tal senso erano tutti ben presenti. Già allora, ricorda Lupis, c’era chi si chiedeva: «nella Hong Kong rossa ci sarebbe stato ancora spazio per protestare?» (p. 240). Una domanda che circolava soprattutto fra i dissidenti sopravvissuti alla strage di piazza Tienanmen, nella Pechino dei primi di giugno del 1989. All’epoca Hong Kong era una metropoli in cui il reddito pro capite superava quello di Gran Bretagna e Canada, con un tasso di crescita annuo pari al 5%. In quegli stessi giorni «un sondaggio dell’Università di Hong Kong diceva che il 56% dei giovani l’anno successivo non avrebbe partecipato alla tradizionale veglia per Tienanmen, per paura di subire ritorsioni o di venire arrestato» (p. 243). Ventidue anni dopo il timore è diventato realtà. Il coraggio non è però mancato alle nuove generazioni di hongkonghesi e Lupis, con altrettanto sprezzo del pericolo, ne ha dato conto in numerose corrispondenze giornalistiche, partecipando e documentando le manifestazioni, i cortei, le proteste, in mezzo ai lacrimogeni e alla durissima, spietata azione repressiva della polizia. Anche nelle pagine del libro l’omaggio ai manifestanti per le libertà di Hong Kong risuona vibrante e commovente, tanto da riecheggiare come ultimo disperato appello affinché l’Occidente non si dimentichi di loro. La partita sembra però persa. Almeno per il momento. Anzi, pare di poter affermare che l’eredità britannica, e occidentale, scomparirà interamente nel giro di pochi anni, assieme alla democrazia, alle garanzie costituzionali, ad un sistema giudiziario garantista, ai diritti sindacali, al libero mercato. Tutto cancellato, rimosso.
Oggi Hong Kong non serve più. Non serve alla Cina popolare, al suo capital-comunismo, o «comunismo 2.0», come Lupis preferisce chiamarlo. Non serve nemmeno agli occidentali. Questo è il problema per l’affascinante ed «incompiuta città-stato» (p. 19). Un problema gravissimo per chi ha a cuore la costruzione di un punto di equilibrio nel potenziale scenario da nuova Guerra fredda che si sta profilando all’orizzonte. Tutto questo, e molto altro, rende ancor più preziosa la lettura del nuovo libro di Lupis. Hong Kong resta comunque un punto di sutura tra Occidente ed Oriente per chi sappia cogliere i problemi che una modernizzazione eccessiva, tanto veloce quanto miope, ingenera nell’ecosistema, che, stravolto e violentato, reagisce in modo altrettanto violento e travolgente. Si pensi solo che, secondo i meteorologi dell’Osservatorio di Hong Kong, «il continuo riscaldamento della città innesca una maggiore evaporazione dall’oceano e di conseguenza più acqua nell’atmosfera» (p. 93). Ne consegue che «la piovosità media annuale a Hong Kong aumenterà dell’11 per cento entro la fine del secolo» e che «il cambiamento climatico ha anche causato un aumento del livello del mare di Hong Kong, che è cresciuto a un tasso medio di 2,6 millimetri all’anno dal 1954 al 2010, una tendenza che – scrive Lupis – probabilmente continuerà a un tasso compreso tra 2,4 e 2,7 millimetri all’anno» (pp. 93-94). Se la trasformazione in senso ultramoderno e ultracapitalista della città si deve alla colonizzazione anglo-occidentale, adesso il testimone e la conseguente responsabilità sono passati alla Cina, la quale, ad oggi, non pare esser da meno sul piano della modernizzazione selvaggia e senza scrupoli, incurante dei problemi della sostenibilità ambientale. Anche per questi motivi il destino di Hong Kong merita tutta la nostra attenzione, presente e futura.
Non resta dunque che chiudere con un messaggio forte e chiaro: leggete il nuovo libro di Marco Lupis. È densissimo, debordante di informazioni storiche, geografiche, politiche, così come di vite quotidiane, di donne e uomini di grande o nessuna importanza per la storia di questa bizzarra città-stato, sempre perfettamente colte dall’occhio e dall’orecchio del reporter che sa vedere, che sa ascoltare. Il lettore sarà catapultato dentro un labirinto affollato, a tratti claustrofobico, a tratti aperto e svettante come gli altissimi grattacieli, che marchiano l’inconfondibile skyline di Hong Kong, aperto e sconfinato al pari del mare che si spalanca davanti a questa metropoli situata sulla costa meridionale della Cina tra il delta del fiume delle Perle e il Mar Cinese meridionale. Aprite e leggete questa curiosa e originale tipologia di romanzo che è, al contempo, una guida di viaggio verso una città sospesa tra un presente ancora acceso, ma che rapidamente sfuma nell’oblio del passato remoto, e un futuro prossimo che vuole risucchiarla, inesorabilmente spegnerla tra le nebbie impenetrabili del totalitarismo cinese.

[articolo originariamente apparso su «Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee», 6 marzo 2021]