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L’eterna eco del canto di Keats

John Keats (Londra, 31 ottobre 1795 – Roma, 23 febbraio 1821)

Al pari di Shelley, quel gracile londinese di appena vent’anni, folgorato pochi anni prima dalla vorace lettura di Shakespeare e di Edmund Spenser, nonché del sommo Omero, sognava di diventare poeta immortale grazie al long poem. Fu così che John Keats scrisse Endymion a 23 anni, nel 1818, e fu subito un insuccesso.
L’amico Byron, che con Shelley e Keats costituisce il meraviglioso trio dei cosiddetti poeti romantici inglesi di seconda generazione, avrebbe poi tramandato la leggenda che ad uccidere il venticinquenne John sarebbe stata la critica piuttosto che la tisi. Non fu esattamente così, è chiaro, ma Keats incarna alla perfezione l’idealtipo del poeta romantico, vita breve e travagliata da amore invincibile e malattia incurabile. Addolorato mortalmente da una gloria in imperdonabile ritardo sull’appuntamento da lui sognato.
Dei poeti romantici inglesi, compresi quelli di prima generazione (William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge i più importanti, con William Blake che potrebbe appartenervi ma fa comunque storia a sé), Keats è l’unico che non ha compiuto studi letterari accademici e non conosceva perciò la lingua greca. Eppure è colui che, di tutta quella immensa stagione della letteratura inglese, ha saputo cogliere perfettamente lo spirito della grecità. Fu dunque il più dotato di talento poetico innato e il suo sentire rendeva romantica ogni cosa esperita.
Grecità scoperta con la traduzione nel rude inglese elisabettiano di George Chapman. Si legga il sonetto del 1816, On First Looking into Chapman’s Homer. Appunto: Guardando per la prima volta l’Omero di Chapman con occhio penetrante che genera la giusta teoria, lo sguardo che comprende e padroneggia lo spirito di ciò che è osservato.

Much have I travell’d in the realms of gold,
And many goodly states and kingdoms seen;
Round many western islands have I been
Which bards in fealty to Apollo hold.
Oft of one wide expanse had I been told
That deep-brow’d Homer ruled as his demesne;
Yet did I never breathe its pure serene
Till I heard Chapman speak out loud and bold:
Then felt I like some watcher of the skies
When a new planet swims into his ken;
Or like stout Cortez when with eagle eyes
He star’d at the Pacific – and all his men
Look’d at each other with a wild surmise –
Silent, upon a peak in Darien.

Molto ho viaggiato nei regni dell’oro,
Molti stati grandi e imperi ho visto;
In molte isole dell’ovest sono stato
Che i bardi tengono in fedeltà ad Apollo.
Spesso di un grande mondo avevo udito
Dal cipiglio di Omero governato;
Ma mai ne respirai la quiete pura
Finché di Chapman udii la voce audace:
Come un astronomo dei cieli mi sentii
Quando un nuovo pianeta percepisce;
O come Cortés dallo sguardo fiero
Quando mirò al Pacifico in silenzio
Da una cima di Darien. E la ciurma
S’interrogò con impietoso sguardo.

[trad. it. di Franco Buffoni]

Poi soprattutto si torni alla celebre Ode on a Grecian Urn, del 1819.
L’ultimo distico dell’Ode è stata, ed è, da due secoli oggetto di contesa fra gli interpreti, a causa di un giovane poeta, il nostro amato Keats, che non si curava granché della punteggiatura.

When old age shall this generation waste,
Thou shalt remain, in midst of other woe
Than ours, a friend to man, to whom thou sayst,
“Beauty is truth, truth beauty”, – that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.

Quando, dal tempo devastata e vinta, questa or viva progenie anche cadrà,
fra diverso dolore, amica all’uomo,
rimarrai tu sola,
“Bellezza è Verità” dicendo ancora:
“Verità è Bellezza”. Questo a voi, sopra la terra, di sapere è dato:
questo, non altro, a voi, sopra la terra,
é bastante sapere.

[trad. it. di Augusto Frassinetti]

Non sappiamo pertanto chi sia a pronunciare la frase, se il poeta o l’urna stessa, che è di sicuro “a thing of beauty” – per citare il primo celeberrimo verso di Endymion – e dunque è necessariamente “a joy forever”. Potrebbero essere entrambi, addirittura; l’urna a dire: “Beauty is truth, truth beauty”, il poeta a commentare che “that is all / Ye know on earth, and all ye need to know”.
L’accoppiamento di verità e bellezza è tipico dell’estetica inglese del Settecento. Il “per sempre” è attributo della verità che, come tale, è eterna. È anzi l’eternità, la struttura originaria che tutto ricomprende. La bellezza è quanto di lei appare ai nostri sensi di esseri mortali. Tramite l’arte si può dar forma a frammenti che fissano il senso dell’eterno. La natura ci avvisa della onnipresenza dell’eterno, se solo sappiamo porci in suo ascolto. L’udito è dei cinque sensi il privilegiato dal poeta, la cui peculiare qualità artistica consiste in una spiccata intelligenza dei suoni, dei fonemi. Keats in questo e per questo è poeta massimo, di raffinatezza tanto estrema quanto spontanea, non costruita tramite erudizione. Il poeta è come il selvaggio, il primitivo, che ancora conosce la lingua della natura e con essa parla come ad un’amica, anche quando infine si rivela una belle dame sans merci, titolo di un componimento di Keats datato 1819 (musicato, fra gli altri, da Angelo Branduardi, Loreena McKennitt e Vinicio Capossela). La bella dama è la personificazione della morte, che attira e illude con la potenza della passione che è fuoco; sembra riscaldarti, mentre in realtà ti consuma fino ad incenerirti. Barbaro è il lessico dell’uomo moderno, il borghese che, tronfio, sta a cavalcioni sulla locomotiva della giovane rivoluzione industriale che in Inghilterra era stata battezzata pochi decenni prima del gesto mite e ribelle di chi, per tutta risposta, brandì l’elegia romantica.
Vado così a chiudere questo breve omaggio all’amato poeta che alfabetizzò i miei balbettanti amori adolescenziali citando versi dall’Ode to a Nightingale, composta nel verde di Hampstead nella primavera del 1819.

Forlorn! the very word is like a bell
To toll me back from thee to my sole self!
Adieu! the fancy cannot cheat so well
As she is fam’d to do, deceiving elf.
Adieu! adieu! thy plaintive anthem fades
Past the near meadows, over the still stream,
Up the hill-side; and now ‘tis buried deep
In the next valley-glades:
Was it a vision, or a waking dream?
Fled is that music: – Do I wake or sleep?

Sperdute! Come una campana rintocca
questa parola, che mi riporta a me stesso!
Addio! La fantasia non può illudere così bene
com’è solita fare, elfo ingannevole.
Addio! Addio! Il tuo malinconico inno svanisce
oltre i prati vicini, di là dal fiume calmo,
lungo il declivio, e ora è sepolto in profondità
nella vallata vicina.
Era una visione, o un sogno ad occhi aperti?
Svanita è la musica: dormo o son desto?

[trad. it. di Flavio Ferraro]

Siccome l’usignolo è Natura, il suo canto è eterno. Nemmeno sarà, perché da sempre risuona. Il futuro, al pari di passato e presente, è mera convenzione. Eterna come l’eco di questi versi di Keats, apparso come meteora nei cieli della poesia a scavallare due secoli di fuoco e aria, elementi vitali proprio come furono gli ideali che sostanziarono ed incendiarono diciottesimo e diciannovesimo secolo. La poesia è un canto che, sibilando, ti inebria fino al punto di farti credere in volo. Staccata l’ombra da terra, prepotente è l’illusione di vincere l’oscurità ed illuminare il mistero. Infine, precipitando come Icaro, ti accorgi con gioia che è grazie al mistero della vita che l’amore della bellezza nutre le tue moriture membra e pompa sangue a iosa nel tuo cuore. È così che si rende degna d’esser vissuta una vita invero umana, cercando e ricercando. Verità e bellezza, bellezza e verità. Come le si cercano?
Con l’immaginazione. “Byron descrive ciò che vede, io ciò che immagino”. L’immaginazione al potere solo il poeta può instaurarla all’ombra di un albero del proprio giardino. Anzi, ad esser precisi, è la fantasia, Fancy, secondo una distinzione che Coleridge aveva introdotto nella sua Biographia literaria, in quegli stessi anni, esattamente nel 1817. Per assaporare il profumo primaverile di Fancy, come di Imagination, prendete e leggete il ricco epistolario di Keats, che della sua produzione poetica è laboratorio e rifugio. È un carteggio che pulsa freneticamente d’amore per Fanny Brawne, segretamente amata (del loro fidanzamento nel dicembre del 1818 si verrà a conoscenza solo nel 1878, tredici anni dopo la morte della donna, quando le lettere indirizzategli dal poeta saranno pubblicate). Amata all’istante, alla follia, ma non sposata, a causa delle condizioni economiche non agiate di John nonché, ovviamente, delle sue condizioni di salute che si erano palesate sin dagli inizi del 1818 per poi farsi più serie tra la fine del 1819 e l’inizio del 1820.
L’epistolario keatsiano è di straordinaria intensità ed affascina il lettore perché riecheggia l’inconfondibile delicatezza di toni del poeta e quell’incontenibile furia di vita che è propria di chi sa di avere i giorni contati. Colpa di quel “mal sottile”, così fu detta anche la tubercolosi polmonare cronica, che si sarebbe portato via l’appena venticinquenne Keats, ormai gravemente ammalato. Morì in un appartamento di piazza di Spagna, esattamente duecento anni fa, il 23 febbraio 1821, alle ore 23. Sulla lapide la data riportata è però un’altra: 24 febbraio. Non si tratta di un errore, ma di un diverso calcolo dei giorni tra il metodo romano e quello inglese. Nella città eterna, infatti, il giorno finiva circa mezz’ora dopo che le campane delle chiese avevano suonato l’Ave Maria. Per questo motivo le autorità del tempo hanno registrato la sua morte il 24 febbraio e non il 23.
Portate un saluto al caro John in occasione di questo bicentenario. Trovate la sua tomba al cimitero acattolico della Capitale, a fianco dell’amico pittore Joseph Severn, che lo accompagnò nel soggiorno romano e lo accudì fraternamente negli ultimi giorni di vita per l’aggravarsi della malattia che aveva cercato di curare con un viaggio nel più salubre clima italiano. Grazie a Joseph conosciamo il volto di Keats, che seppe catturare, dolce e dolente, in molti ritratti e miniature. Portate magari anche un fiore e adagiatelo sulla sua lapide, dove, oltre alla data, sta scritta una frase emblematica, voluta dallo stesso poeta e fatta incidere dall’amico Severn, morto cinquantuno anni dopo e appunto fattosi seppellire accanto all’amico poeta. Severn e Charles Brown, altro amico di Keats, fecero incidere anche una lira con quattro delle sue otto corde recise, a simboleggiare la voce del poeta prematuramente spezzata. Eloquente la scritta incisa sulla lapide, dicevo. Di seguito la premessa che vollero aggiungervi i due amici sulla lapide: «Questa tomba contiene tutto quello che fu mortale di un giovane poeta inglese che, sul suo letto di morte, nell’amarezza del suo cuore verso il malvagio potere dei suoi nemici, desiderò che queste parole venissero incise sulla sua lapide…». E questa, conclusiva, è la folgorante, melanconica frase voluta da John: Here lies one whose name was writ in water, ossia: «Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua».

[articolo uscito originariamente il 23 febbraio 2021 su «Pangea. Rivista avventuriera di cultura & idee». Si ringrazia per l’ospitalità il suo fondatore e direttore, Davide Brullo]