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Non sventriamo una seconda volta Mishima

Di Mishima, per contrasto estetico, resta la traccia dell’estasi di Santa Teresa, la testa di Giovanni Battista, voluttuosamente adagiata sul piatto, pronta da mangiare – perché un corpo è pasto –, il Davide che contempla se stesso in Golia e ne adora il cranio, con indolente sensualità, come nel quadro di Guido Reni. Come se tutta l’identità – l’idioma del destino – fosse lì: la testa mozzata dice di un uomo più del resto del corpo, meccanica indecente. Un uomo, si direbbe, è davvero uomo quando gli segano la testa – la ghigliottina, dunque, terribile levatrice. “E ritiratosi negli uffici del generale Masuda, dà inizio al suicidio rituale per sventramento e decapitazione a opera dell’attendente Morita” (Virginia Sica): il rituale nipponico si salda, in Mishima, all’ossessione per San Sebastiano. Il corpo va esibito e colpito, segnato, spaccato: lo si addestra per questo. L’ossessione fisica coltiva una sparizione – più si raffinano i muscoli, più, finemente, svanisco. “Due teste mozzate, passate ormai in altri mondi in cui regna un’altra legge, e che a guardarle suscitano sbigottimento più che orrore. Ogni giudizio di valore, sia esso morale, politico o estetico, in loro presenza, momentaneamente almeno, è ridotto al silenzio”, scrive Marguerite Yourcenar nel suo Mishima – dandosi, comunque, al rogo del giudizio. C’è, poi, il Mishima di Henry Miller, c’è quello secondo Yasunari Kawabata, c’è il mio – reco alcune scene di eclatante sensualità, dove il corpo verbale è sempre cannibale –, il vostro. I cinquant’anni dalla morte di Mishima non hanno dato vita a un terremoto bibliografico: del ‘Meridiano’ Mondadori, per dire, potevano almeno trarre un volume economico. Invece, è incredibilmente “non disponibile”. Danilo Breschi, che insegna Storia delle dottrine politiche a Roma, ha però scritto uno studio accurato, che ha l’equilibrio di una lama puntata, Yukio Mishima. Enigma in cinque atti. Il lavoro, potente – oltre 250 pagine –, intende sottrarre Mishima, inoltre, da chi ne fa una reliquia e dunque scempio, da chi lo ha fatto a pezzi. D’altronde è lui, Mishima, che nel frastuono dell’era ha sussurrato e gridato, è stato totalmente pubblico e del tutto irraggiungibile, a essersi imposto come pasto. Mishima non sfama – resta l’icona della fame.
Davide Brullo

Brullo: Un libro su Mishima. Ancora. Perché? Pensi che sia stato frainteso?

Breschi: Cerco la grande arte e il grande pensiero là dove ritengo di poterli trovare con una certa sicurezza. Con Mishima v’è assoluta certezza in tal senso. Nella nostra epoca che teme le vette e gli abissi autentici dell’arte e del pensiero, che liscia i nani raccontando loro che sono giganti e presentandoli sotto tali mentite spoglie ad un pubblico diseducato all’autentica bellezza, non si può non riproporre Yukio Mishima che assicura vertigini ad ogni lettore sinceramente devoto al difficile mestiere della lettura. In quest’epoca piccina e impotente uno come Mishima non si riesce proprio a maneggiare. A troppa piccolezza e piccineria si sono abituate sia critica che pubblico. Diventa perciò troppo scomodo un così fitto ed ingombrante enigma artistico-esistenziale. Per questo sono ben lieto di avere ingaggiato nella scorsa estate la mia sfida con questo autore, conosciuto e subito amato nella mia tarda adolescenza, poi coltivato, fermentato quasi, nel corso dei decenni successivi. È così che ho partorito in poche settimane questo libro, non previsto. Frainteso Mishima fino ad oggi? In Italia credo di poter rispondere: sì, in buona parte sì. Prima di lavorare a fondo per questo libro nutrivo il sospetto fosse così, adesso ne ho la certezza. Non mancano alcuni suoi lettori di notevole livello che se ne sono fatti interpreti acuti, capaci di averlo reso maggiormente comprensibile a noi semplici italofoni. Su tutti Emanuele Ciccarella, Giovanni Azzaroni e Maria Teresa Orsi, autori di pregevoli saggi e commenti. Per non parlare di alcune traduttrici e traduttori, da Lydia Origlia a Virginia Sica, da Ornella Civardi a Giorgio Amitrano. Da tutti loro ho molto imparato. Però mi sembrava e mi è sembrato che anche nei ‘Meridiani’ Mondadori dedicati a Mishima ed usciti tra 2004 e 2006, magistralmente curati e diretti dalla Orsi, mancasse qualcosa. Che cosa? Elevare Mishima al rango dei dieci, al massimo quindici, più grandi scrittori del mondo nel ventesimo secolo. Esagero? Non credo. In ogni caso ho voluto prendermi questo rischio, non avendo da perdere nulla, proprio perché assolutamente outsider rispetto al mondo della critica e della traduzione letteraria.
Il programma estetico-politico mishimiano mira a reagire al progresso. Si tratta di essere radicali e trasgressivi nella reazione, scagliando in faccia al “culturalismo” occidentalizzante quella storia e quelle tradizioni che possono maggiormente ostacolarlo: ultranazionalismo aggressivo, gloria militare, etica samurai, suicidio rituale, la via della spada, religiosa venerazione della figura dell’imperatore, antichi miti di insurrezione e violenza, i kamikaze e altre “forme culturali” del genere.
Inoltre mi sono reso conto, una volta terminato e consegnato all’editore Luni questo libro, che il mio intento, conseguenza indiretta del modo con cui l’ho conosciuto e subito amato sin da ragazzo, è stato sottrarre Mishima alle due nicchie in cui rischia di essere rinchiuso e infine sminuito, perché privato di tutte le restanti sue dimensioni di uomo ed artista. Anzitutto, la nicchia di autore para-fascista, categoria che non gli si addice, proprio perché profondamente nipponico; semmai è un reazionario devoto alla figura sacra dell’Imperatore, qualcosa di medievale, intriso di un’etica samurai che si traduce poco e male in Europa ed Occidente. In sintesi, si riduce Mishima ad una versione orientale di D’Annunzio. Per i suoi detrattori, si tratterebbe di una brutta copia, dalla psicologia folle e incomprensibile. In secondo luogo, certa critica ne ha sovra-evidenziato la dimensione di dandy omosessuale, una versione orientale di Oscar Wilde, con l’aggiunta del lato impegnato e tragico di un Pasolini. Mishima come un artista tutto teso ad indagare e rivendicare l’identità omoerotica, denunciando le maschere che il perbenismo borghese gli avrebbe imposto. In Italia, ma non solo, la sua memoria e la sua immagine paiono contese tra chi vuol farne un’icona fascia e chi un’icona gay, per così dire. Due nicchie riduttive, che colgono solo una delle innumerevoli facce di quel prisma che volle essere e riuscì con tenacia a diventare. I due temi ci sono, è palese. Da una parte, l’ultra-nazionalismo antiamericano, il culto del bel gesto muscolare e dell’azione bellica; dall’altra parte, l’omosessualità, il sensualismo estetico-decadente, morboso e persino sadomasochistico, di indubbio ed entusiasta segno omoerotico che peraltro richiama un’antica tradizione nipponica (lo shudō), con alcune lontane affinità con la pederastia greca (παιδεραστία). Il fatto è che l’arte di Mishima, così come la sua personalità, è talmente vasta che contiene moltitudini di temi e configurazioni, che sono persino contraddittorie tra loro. La mia impressione è che quindi in Italia, ma anche altrove, non si sia ancora reso il dovuto omaggio ad una poetica molto più vasta di quanto forse lo stesso autore si rendesse conto, indubbiamente preoccupato molto della sua figura pubblica o quanto meno degli effetti che la sua arte e la sua condotta personale potevano ingenerare negli altri. Resta però in lui impellente tutta quella ricerca interiore, quel travagliato ma lineare percorso esistenziale, che testimonia una personalità che infine vinse anche sul personaggio. O comunque all’uno va affiancato l’altro, la vittima Kimitake Hiraoka (il vero nome dello scrittore) al carnefice Yukio Mishima (nome d’arte).

Brullo: Qual è l’enigma Mishima cui alludi nel titolo?

Breschi: È Mishima stesso. Sin dal suo nome. È un prisma scivoloso. Guardi una faccia, e te ne sfuggono tutte le altre. Lo afferri da un lato, e ti sguscia via, inafferrabile. Non lo riesci mai a possedere una volta per tutte, nonostante si faccia molto desiderare e chiami a sé per il tramite di una scrittura che seduce e sconvolge, squaderna suoni, colori e odori, paesaggi e chiaroscuri nella mente di chi legge. Almeno è stato ed è questo l’effetto su di me nelle traduzioni che ho letto (italiano, inglese e francese), non conoscendo il giapponese. Ecco uno dei motivi, forse il principale, per cui lo considero uno dei più grandi del Novecento. Non finisce mai di stupirti, tanto versatile e sempre di altissima qualità è la sua scrittura. Da quando lo lessi per la prima volta mi colpì proprio per questo, per la lingua, la sua potenza evocativa, tanto di mostri notturni annidati nella nostra psiche e assedianti il nostro equilibrio diurno, quanto di creature leggiadre, eteree, celestiali, impalpabili eppure così piene di tenerezza e ingenuità. Angeli e demoni affollavano la mente di Mishima e la sua penna ha saputo restituirceli con una facilità di scrittura che attingeva però ad una lingua antichissima, molto ricercata, raffinata, aristocratica, tanto che non sempre i giapponesi contemporanei riescono a fronteggiarla, dato che il linguaggio medio quotidiano si è impoverito anche presso le nuove generazioni del Paese del Sol Levante, come mi confermava di recente l’amica Sakiko Chemi, laureatasi anni fa con una tesi proprio su Mishima sotto la supervisione di Maria Teresa Orsi alla Sapienza di Roma. Già nell’ambiente letterario della sua epoca Mishima era pressoché un’eccezione, un’anomalia: un classicista della lingua che tratteneva l’esplosività di contenuti persino postmoderni.

Brullo: Lavorando dentro la bibliografia di Mishima, che cosa hai ‘scoperto’, che tratti della vicenda di Mishima ti hanno sorpreso?

Breschi: Molto conoscevo da tempo, dovevo solo trovare l’occasione propizia per riversare in un’unica tensione narrativa questa lunghissima frequentazione. Però l’obbligo editoriale e i tempi stretti, sollecitati dalla ricorrenza del cinquantesimo anniversario della morte, mi hanno portato a compulsare tanta letteratura critica in lingua straniera, soprattutto inglese e francese, che ancora non avevo letto, anche perché molto recente. Ho così “scoperto”, per così dire, molti aneddoti ed episodi solo apparentemente secondari, ma contributi oltremodo utili nel mettere meglio a fuoco la complessa personalità mishimiana. Non mi hanno consentito di catturarla, non dovevano farlo, non lo volevo nemmeno, perché l’arte si ama e basta. Le ragioni del cuore non sono le stesse della razionalità pura. Le sue vie conoscitive procedono per accenni, allusioni, assonanze, echi. Così intendo il mio approccio alla letteratura, alla poesia, all’arte nel suo complesso. Per rispondere alla tua domanda, mi limito ad un episodio. Secondo voci non meglio precisate, a suo tempo circolanti negli ambienti dell’Accademia di Svezia, Mishima non vinse il Nobel, a cui fu candidato per ben tre volte, anche per il fatto che l’unico giurato che aveva letto qualcosa dello scrittore giapponese si era limitato a Dopo il banchetto. Siccome il romanzo, pubblicato nel 1960, parlava di Hachirō Arita, un riformista di sinistra messo nei guai dai conservatori al governo, Mishima sarebbe stato perciò preso per un autore di sinistra radicale. In tempi di Guerra fredda si sarebbe perciò preferito, nello scegliere per la prima volta un autore del Giappone, paese fino ad allora non premiato, uno come Yasunari Kawabata, romanziere più tradizionale e assai meno discusso, politicamente e non solo. Oggigiorno può apparire comico e persino assurdo che l’Accademia svedese abbia confuso a quel tempo uno scrittore ultranazionalista per uno di sinistra, commettendo però un errore in cui sarebbero caduti molti giapponesi stessi, almeno nei turbolenti primi anni Sessanta, contraddistinti da fenomeni di contestazione trasversale alle istituzioni, in cui estrema destra ed estrema sinistra si confondevano su molti temi, quando non si alleavano tra loro, sia pure temporaneamente. D’altronde nell’inverno 1960-61 Mishima fu per un breve periodo fatto oggetto di minacce di morte da gruppi di estrema destra, perché aveva contribuito a promuovere un racconto satirico di Shichirō Fukazawa, in cui, fra l’altro, l’imperatore e sua moglie finivano decapitati da una folla di rivoluzionari.
A proposito poi di Kawabata, un altro dato biografico che mi ha colpito e che ho particolarmente apprezzato della vita di Mishima è proprio il rapporto con il più anziano scrittore. Nonostante certe insinuazioni fatte da uno studioso come Damian Flanagan nella sua biografia del 2014, ritengo che il loro rapporto non abbia mai subìto particolari incrinature e si sia semmai rafforzato nell’ultima parte della loro vita. Chiunque legga quella vicenda, anche attraverso l’incantevole carteggio pubblicato da tempo anche in Italia, scoprirà un esempio perfetto di come dovrebbe essere il rapporto tra maestro e allievo. Il maestro sa riconoscere immediatamente il talento dell’allievo, fa di tutto per coltivarlo e promuoverlo, attende con pazienza e rigore che esso cresca fino a quando non svetta e supera nettamente il pur altissimo livello che il maestro aveva raggiunto. A quel punto accoglie serenamente il verdetto, anzi lo sottolinea con gioia, perché il compito supremo di chi magistralmente insegna si è compiuto: l’allievo ha superato il maestro.

Brullo: Il libro di Mishima che è per te esemplare. E quello che ti piace di più. Naturalmente, motiva le risposte.

Breschi: La sua opera parla e va fatta parlare. Non è l’autore di un singolo acuto, ma di un coro che riecheggia. L’esempio è l’intero, non la singola parte. Il consiglio è leggere il più possibile di Mishima, non fermarsi ai soliti due o tre titoli (splendidi peraltro: Confessioni di una maschera; Il padiglione d’oro; Sole e acciaio). Ad esempio, è fondamentale scoprire i suoi racconti, numerosi, bellissimi (a partire da quelli raccolti in traduzione italiana con i titoli di La foresta in fiore; Morte di mezza estate; Atti di adorazione). Forse è importante scoprirli persino prima della più celebre tetralogia del Mare della fertilità, l’atto conclusivo dell’opera narrativa dello scrittore giapponese. È, quest’ultimo, il tentativo di realizzare un’opera-mondo, qualcosa di simile, per capirsi, all’impresa compiuta da Marcel Proust con la Recherche. In sintesi, consiglierei di procedere cronologicamente, criterio sempre proficuo, tanto più per un autore come Mishima. La sua arte e la sua poetica contengono ed esprimono stili e temi di portata universale, declinati però in una chiave particolare, doppiamente particolare: nipponica, ma anche personalissima. All’essere giapponese, di un Giappone pre-1945, dal sapore quasi feudale, la sua arte, dalla fortissima influenza occidentale, unisce un sottofondo, direi un sottosuolo, pullulante di demoni interiori tutti suoi. Demoni cattivi e demoni buoni, come già detto. L’insieme di questo magmatico crogiuolo ha partorito un universo letterario ed ideologico assolutamente unico, inimitabile. E quando dico questo, lo dico alla lettera, fuori da ogni retorica. Molte pagine di Mishima sono come ghiaccio fuso. Ti brucia dentro nel momento stesso in cui ti azzera la temperatura esterna. Talvolta produce l’effetto opposto. Dipende dal tema che tratta, dalla forma artistica prescelta (romanzo, racconto, dramma o Kabuki riletto in chiave moderna, saggio di critica culturale e politica, sceneggiatura cinematografica, poesia, ecc.). Soprattutto per un autore come lui, che era enormemente versatile e quanto mai prolifico. Dipende dal personaggio che sceglie di rappresentare, dall’ambiente che intende mettere in scena. Una volta il suo stile e la sua scrittura sono dolci e teneri come neonati in fasce; un’altra volta sono duri e taglienti come colpi di spada sferrati in battaglia. Per questo va letto tutto e di lui trovo esemplare, unico ed eccezionale, l’insieme dell’opera.

Brullo: Sei uno studioso delle dottrine politiche. Ecco: cosa resta della ‘dottrina Mishima’? Cosa, cioè, a tuo parere, è ancora attivo, attuale, prepotente – e cosa è figlio di quel particolare periodo storico?

Breschi: Se vuoi attaccare da un qualche lato il prisma Mishima e hai simpatie di destra e antiamericane, prendi solitamente il suo lato da “pensatore politico”, per così dire. In generale è ciò che più affascina un occidentale ignaro di storia giapponese, o magari sfegatato appassionato di manga, anime o yakuza film. In Italia è accaduto sovente e continua ad accadere a cinquant’anni dalla sua morte. Ma è anche il suo lato più molle, ed è normale, perché non fu mai un pensatore politico, nemmeno un ideologo, ma sempre uno scrittore, un drammaturgo, un artista a trecentosessanta gradi. Se quella che tu chiami la “dottrina Mishima” è interessante, e a suo modo lo è, si deve proprio al fatto che è un parto della sua personale rilettura della tradizione medievale e primo-moderna nipponica. E lui, non va mai dimenticato, è nato e cresciuto come un artista della penna, sguainata e brandita come un abile ed esperto samurai farebbe con la propria katana, unendo eleganza a brutalità, candore a ferocia. La sua, dunque, va intesa come un’estetica della politica, una visione della società, del come essa debba essere organizzata e governata, che è filtrata dal peculiare modo con cui egli rilegge la tradizione imperiale nipponica. Un modo estetizzante, che in tal senso presenta alcune analogie o evoca assonanze, più o meno lontane, più o meno vicine, con certa letteratura politica europea che nella crisi di fin de siècle anticipò e poi assecondò quella che l’accademico finlandese Tarmo Kunnas ha chiamato «la tentazione fascista» (titolo della traduzione italiana di un suo interessante studio, pubblicato originariamente nel 1972 in francese: Drieu la Rochelle, Céline, Brasillach et la tentation fasciste). Il programma estetico-politico mishimiano mira a reagire al progresso, non asservirsi al culto del futuro, comunque esso sia presentato e promesso. Si tratta di essere radicali e trasgressivi nella reazione al progressismo, scagliando in faccia al “culturalismo” occidentalizzante quella storia e quelle tradizioni che possono maggiormente ostacolarlo: ultranazionalismo aggressivo, gloria militare, etica samurai, suicidio rituale, la via della spada, religiosa venerazione della figura dell’imperatore, antichi miti di insurrezione e violenza, i kamikaze e altre “forme culturali” del genere. Contro il culturalismo Mishima rivendica la cultura, al cui interno si muovono liberamente ed emergono le espressioni più diverse dell’anima nipponica, dalle arti teatrali del e Kabuki al romanzo moderno, dalla cerimonia del tè e della disposizione dei fiori alle arti marziali, dalla disciplina militare allo Zen, dal kendō al jūdō, e molto altro ancora. La cultura giapponese consisterebbe pertanto, secondo Mishima, in un insieme di modelli di azione a cui si dà libero corso e possibilità di manifestazione creativa, la qual cosa sarebbe apparsa all’americanismo, ossia alla cultura della potenza conquistatrice e colonizzatrice dopo il 1945, un pericolo da rimuovere. Il motivo è che in quel composito insieme di modelli di azione compare anche un culto della violenza, o comunque una serena e convinta ammissibilità del suo uso, inconcepibile invece nella temperie culturale nipponica postbellica, incentrata su un pacifismo che non ammetteva deroghe. Secondo una tale impostazione la cultura non si difenderebbe in altro modo se non pacifico. Il rischio è però favorire in tal modo la codardia, che avrebbe contagiato la generazione dei giovani giapponesi degli anni Sessanta. Più importante della forza fisica o militare è il coraggio, secondo Mishima. Non è un caso che i membri dell’associazione paramilitare a cui dette vita nel 1968, il Tate no Kai, erano disarmati per dettato statutario.
Se Mishima è definibile come un conservatore, ma forse meglio sarebbe dire un reazionario, che intende invertire l’ordine del tempo, tale lo è solo nella misura in cui suo auspicio fu ricreare, tra letteratura ed azione parapolitica, nonché paramilitare, quelle forme culturali appena elencate. Non avrebbe senz’altro qualificato se stesso come conservatore o come controrivoluzionario nel caso in cui il patrimonio da preservare fosse stato quello compatibile o riassumibile con l’ordine del conformismo benpensante cristiano-borghese, europeo ed occidentale, con il quale la famiglia tradizionale giapponese e la sua morale rischiavano nel secondo dopoguerra di essere apparentate e confuse. Ma, ripeto, questa eventuale “dottrina Mishima” non può essere estrapolata e avulsa dal resto del suo immaginario estetico-razionale senza fargli un grave torto. Lo stesso che farebbe un ragazzino dispettoso nel tagliare la coda ad una lucertola. Gli hanno detto che quella coda continua a vivere di vita propria e, invero, all’inizio così pare, ma poco dopo cessa di muoversi e s’immobilizza, per sempre. Non arriva ai due minuti. Questo accade perché la coda della lucertola è dotata di cellule nervose indipendenti, ma poi le cellule a contatto con l’aria muoiono e anche quell’appendice, diventata improvvisamente e brutalmente autonoma, si ferma. Gli etologi ci dicono che è usata come autodifesa, perché, staccandosi, l’aggressore si sofferma sulla coda, scambiandola per la preda, mentre la lucertola in realtà fugge e riesce così a salvarsi. Smettiamo di dissezionare Mishima, se davvero gli vogliamo bene come suoi lettori e ammiratori, o comunque affascinati ma seri indagatori tanto della vita quanto dell’opera.

Brullo: Guerriero, poeta, bodybuilder, dandy, tradizionalista, studioso del romanzo occidentale, ardito, fragile, spada, fiore… Qual è il Mishima che preferisci?

Breschi: Credo di averti già risposto in qualche misura, ma questa ulteriore domanda, ancor più specifica, mi consentono un’ultima aggiunta e una sottolineatura: non sventriamo una seconda volta Mishima. Semmai dovremmo raccoglierne il sangue versato e, con esso, l’anima fuoriuscita dal taglio che si è procurato uccidendosi il 25 novembre del 1970; ricuciamone la testa, decapitatagli dal fidato Hiroyasu Koga, secondo il rituale samurai del seppuku, e riattacchiamola al collo. Sembra macabro, sarebbe invece un pietoso gesto riconoscente, necessario per chi voglia farsi serio ed originale studioso della sua opera. Ricomponiamolo nella sua interezza e restituiamo alla sua effettiva grandezza artistica questa ricomposta e al contempo sconfinata figura. In conclusione, Mishima mi piace così tanto perché è tutte queste cose assieme, aspetti e dimensioni che a prima vista parrebbero non poter combinarsi e restare uniti. Non è riassumibile nemmeno in una evoluzione od involuzione, a seconda dei diversi punti di vista. Egli è la crescente compresenza conflittuale, ora agonica ora agonizzante, tra le sue innumerevoli, altalenanti configurazioni esistenziali ed estetiche, politiche e psicologiche. È esattamente una fusione nucleare che, ad un certo punto, decide di passare alla fissione. Il processo tipico della fusione è quello che ha luogo naturalmente nelle stelle, e quindi anche nel sole. Dal canto suo, invece, la fissione nucleare come processo spontaneo è molto raro in natura. Più frequentemente può venire indotta artificialmente attraverso il bombardamento dei nuclei con fasci di neutroni. Ebbene, nel corso dell’ultimo decennio della sua vita Mishima ha in modo crescente sottoposto la propria tempra psichica ad un bombardamento che lo ricongiungesse a quella tradizione guerriera nipponica idealizzata attraverso la lettura dell’Hagakure, il codice segreto dei samurai, facendo di sé, del suo corpo, un proiettile d’acciaio scagliato contro il proprio cuore di eterno fanciullo stupito, nel senso greco, dunque duplice, del termine: meravigliato e impaurito.

[intervista a cura di Davide Brullo, apparsa l’8 dicembre 2020 su «L’Intellettuale Dissidente»]