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Fascismo: il più proteiforme dei concetti storico-politici contemporanei

Recensione a A. James Gregor, Fascism and History: Chapters in Concept Formation, Cambridge Scholars Publishing, 2019 (in appendice: “Fascist Ideology: a Scholarship’s Bibliography” by A. James Gregor and Antonio Messina), pp. 134.

Proteo è una divinità marina della mitologia greca. Aveva la facoltà di assumere qualsiasi forma di animale o di tramutarsi in un elemento della natura, fuoco, vento o acqua, in modo tale da sottrarsi a chi lo interrogava. Direi che il fascismo è diventato il concetto più proteiforme tra quelli del lessico storiografico e politologico contemporaneo. Non principalmente per colpa del fenomeno storico in oggetto, indubbiamente complesso e articolato, ma soprattutto per responsabilità di un uso immediatamente polemico da parte di politici e studiosi ansiosi di anteporre l’ideologia alla deontologia. In tal modo il fascismo ha assunto tanti volti quante sono state le fazioni politico-ideologiche che lo hanno interrogato con lo scopo di rispondere alle esigenze della battaglia politica ingaggiata in quel dato momento.
Già Renzo De Felice, il maggior studioso e conoscitore del fascismo italiano, aveva individuato tre interpretazioni prevalenti, rispondenti esattamente agli obiettivi perseguiti dalle principali culture politiche antifasciste tra anni Venti ed anni Quaranta. Per il liberalismo doveva trattarsi di parentesi, deviazione irrazionalistica che aveva segnato una discontinuità nel processo di costruzione e consolidamento dello Stato liberale parlamentare post-risorgimentale (tesi di Benedetto Croce). Per il socialismo marxista e comunista doveva trattarsi invece di un regime reazionario di massa allestito da una borghesia liberale e capitalistica sotto assedio. Insomma il fascismo come braccio armato di una borghesia che mostrava il proprio autentico volto di classe sfruttatrice di un proletariato che insorgeva perché finalmente giunto alla coscienza di sé e della propria antica condizione di assoggettamento.
Per gli eredi degli sconfitti del Risorgimento, ossia repubblicani mazziniani, socialisti non marxisti e loro evoluzioni/ibridazioni prodottesi nei cinquant’anni successivi all’unità d’Italia, il fascismo costituiva l’autobiografia della nazione, la rivelazione di uno Stato nato male e perciò cresciuto in modo viziato, distorto se non deforme (si va da Oriani a Gobetti, da Dorso a Salvemini, ecc.). Di questa interpretazione si nutrì la formazione politico-ideologica che espresse l’antifascismo più intransigente: il Partito d’azione, il cui nome richiamava, non a caso, il magistero mazziniano. Tra gli sconfitti del Risorgimento possono essere annoverati anche i cattolici, che, in gran parte, nemmeno l’unità avevano voluto e non certo a scapito del potere temporale pontificio. Ebbene, la cultura politica cattolica sarà quella che flirterà di più con il regime fascista durante gli anni Trenta e che più sarà permeabile dalle altre interpretazioni ideologiche (in primis quella azionista) perché là dove era giunta ad esprimere posizioni antifasciste si collocava sempre su versanti antimoderni o di una modernità diversamente intesa. In altre parole, ragionava o contro o parallelamente agli esiti politici, sociali ed antropologici della Rivoluzione francese, di cui invece liberalismo, socialismo, comunismo e vario progressismo erano figli legittimi.
Dagli anni Sessanta del Novecento in poi le interpretazioni che hanno prevalso nella lettura del fascismo sono state quella marxista e quella azionista, con l’aggiunta di un elemento introdotto dalle vicende della seconda guerra mondiale: l’alleanza tra Italia fascista e Germania nazionalsocialista aveva suggerito l’esistenza di un “nazifascismo” come categoria ideologica e fenomeno politico omogeneo e compatto, quasi monolitico. Di qui anche l’uso disinvolto dell’espressione “fascismi”, al plurale, per dire che dall’Italia era stato esportato un modello variamente declinato ma comunque strettamente accomunato da un certo numero di elementi ovunque riscontrabili là dove si fosse data una dittatura anticomunista. A questo punto la confusione è stata tanta e non più arginabile, fino a giungere alle definizioni di “Ur-Fascismo” e “fascismo eterno” da parte di Umberto Eco a metà anni Novanta. Fascismo è diventato sinonimo di tutto ciò che si fa reazione violenta contro la democrazia, il progresso, i diritti dell’uomo e del cittadino, considerati patrimonio esclusivo di ciò che si colloca a sinistra. Ciò che non è sinistra e dunque si colloca a destra, così come tutto ciò che alla sinistra si contrappone in modo vincente, è passibile dell’accusa di “fascismo”.

Anthony James Gregor (New York, 2 aprile 1929 – Berkeley, 30 agosto 2019) è stato un politologo e sociologo della storia statunitense che ha studiato a lungo tanto il fascismo italiano quanto movimenti e regimi ispirati da ideologie rivoluzionarie, sia marxiste sia anti-marxiste. Di tutta questa confusione concettuale sul termine “fascismo” Gregor ha inteso ricostruire la genesi allo scopo di ricondurre a chiarezza un fenomeno che, segnando profondamente la storia del Novecento, risulta troppo importante comprendere nella sua effettiva natura, anche per evitare di continuare a denominare fenomeni nuovi con termini vecchi e così condannarsi all’incomprensione e all’inefficacia decisionale. Oggi il populismo è spesso ricondotto al fascismo e ogni nuova minaccia alle democrazie liberali occidentali è qualificata come fascista. Così facendo si manca il bersaglio, anche perché non si ha più ben chiaro cosa sia stato storicamente il fenomeno fascista. Anzitutto fu un fenomeno nato in Italia, a dispetto di quanto sia stato più di recente affermato sulla scia degli studi dello storico israeliano Zeev Sternhell (1935-2020), recentemente scomparso. Che premesse ideologiche di una destra rivoluzionaria, non più reazionaria né conservatrice, fossero già presenti negli ambienti intellettuali francesi non basta ad attribuire un’origine transalpina al fascismo. Non si darà mai ragione della natura e dei fini del fascismo senza un’adeguata comprensione dell’impatto della prima guerra mondiale per quel peculiare Stato-nazione late comer quale si presentava l’Italia negli anni Dieci del Novecento. A ciò va aggiunto il ruolo decisivo della personalità, altrettanto peculiare, del socialista rivoluzionario Benito Mussolini, militante ed agitatore intriso di un sovversivismo che si nutriva tanto di letture spurie dell’irrazionalismo e dell’antidemocraticismo primonovecentesco quanto dell’eccezionalità del percorso politico-culturale dell’Italia post-risorgimentale.
L’agile libro uscito poco prima della scomparsa di Gregor, Fascism and History, è la sintesi di sessant’anni di ricerche e studi avviati al termine della seconda guerra mondiale e dunque contraddistinti da una duplice esigenza: in primo luogo, capire la matrice storica e ideologica di coloro che erano stati i principali nemici degli Stati Uniti d’America, ossia i nazisti tedeschi, i fascisti italiani e i nazional-imperialisti giapponesi; in secondo luogo, verificare analogie, differenze e possibili evoluzioni di quell’originaria matrice all’interno del contesto internazionale postbellico. Di qui un’esigenza tanto di tipo storiografico, ossia di studio del singolo particolare caso nazionale, quanto di tipo politologico, ovvero di comparazione tra differenti casi e di estrapolazione di tipi ideali e possibili modelli esplicativi, se non di vere e proprie leggi tendenziali e relativamente generalizzabili. Da questa duplice esigenza è emersa una interessante ed originale produzione scientifica che, soprattutto quando ha privilegiato il secondo aspetto, ha però rischiato di non ridurre, se non aumentare, la confusione concettuale sorta attorno al termine-concetto di “fascismo”. Questo libro, vero e proprio testamento intellettuale, dà l’impressione di voler ricondurre in equilibrio e voler così contenere gli effetti divaricanti insiti in quella duplice esigenza.
In altre parole Gregor vuole, da un lato, ribadire l’irriducibilità del fenomeno storico denominato “fascismo”: nato in Italia per volontà di Mussolini e nelle circostanze di quel luogo e di quel tempo, infine morto con l’uccisione di colui che ne era stato ideatore e fondatore (p. 8). Dall’altro lato, lo studioso americano non può non riconoscere come quel peculiare fenomeno storico sia diventato un paradigma, la matrice di applicazioni che hanno ora implementato ora stravolto l’impronta originaria. Non si tratta del totalitarismo, bensì del “nazionalismo sviluppista” (developmental nationalism). Questa categoria politologica è forse il contributo teorico maggiore della pluridecennale ricerca di Gregor. La sensibilità storica dello studioso americano, alimentata anche dall’esperienza diretta maturata con lunghi soggiorni di studio e di ricerca in Asia ed America centro-meridionale, gli ha consentito di tenere insieme quanto c’è di peculiare e irriducibile con quanto si intravede di universale e comparabile in sistemi politici sorti in epoche e/o contesti culturali differenti, talora persino agli antipodi.
Ciò che si sperimentò nell’Italia tra le due guerre e ciò che si diffuse nello stesso periodo, ma soprattutto nel secondo Novecento in molti Paesi detti “in via di sviluppo”, fu il tentativo di combinare autarchia e industrializzazione, anti-illuminismo e modernizzazione, a livello tanto di legislazione sociale quanto di politiche economiche ed educative. Anti-illuminismo è termine generico per significare più precisamente, in questi casi, avversione e contrasto al costituzionalismo liberale, all’economia di mercato abbinata ad un governo limitato, alla cultura dei diritti individuali, ad usi e costumi di tipo individualistico e libertario, nonché ferma opposizione al cosmopolitismo in nome di un comunitarismo nazionalista. Capitolo dopo capitolo, con grande capacità di sintesi, Gregor in questo libro passa in rassegna i principali casi di vario nazionalismo sviluppista avutisi in America centro-meridionale (con le debite differenze tra castrismo e peronismo, ad esempio), in Asia (dal maoismo al nazionalismo di Taiwan) e persino in movimenti di protesta delle minoranze afro-americane, come quello organizzato da Marcus Garvey nei primi decenni del ventesimo secolo negli Stati Uniti e di cui si sa ancora poco in Europa. L’attuale “politica dell’identità” (identity politics) che imperversa in un numero crescente di campus universitari statunitensi trova significative radici nell’Universal Negro Improvement Association and African Communities League (UNIA è l’acronimo in inglese), organizzazione internazionale creata proprio da Marcus Garvey a Kingston, in Giamaica, nel 1914 ed esportata due anni dopo ad Harlem, New York. Si tratta di un’organizzazione panafricanista il cui motto è “un dio, un oggetto, una destinazione”. Il contributo di Garvey rappresenta la base ideologica di quella dottrina nazionalista africana che troverà largo seguito negli Usa a partire dagli anni Sessanta con la fondazione del Black Power di Stokely Carmichael, per alcuni versi l’antecedente più recente dell’attuale movimento Black Lives Matter fondato uficialmente nel 2013.
Gregor non accredita la Russia di Putin di uno specifico statuto ideologico, valutandola soprattutto come retta da un regime in perenne posizione difensiva, che prova ad anticipare le mosse di avversari assai più potenti, quali gli Stati Uniti e la Cina, tra cui rischia costantemente di rimanere schiacciata e stritolata. Gregor non prevede un futuro radioso per lo status internazionale della Russia putiniana, il cui populismo è sinonimo di debolezza piuttosto che di forza. A proposito di questa categoria politologica oggi molto in voga Gregor la distingue nettamente dal fascismo storico, che presentava elementi populistici al pari di ogni regime politico sorto all’indomani dell’irruzione delle masse lavoratrici nella scena pubblica. Semmai si voglia usare tale categoria, sarà opportuno distinguere tra un populismo democratico ed uno rivoluzionario antidemocratico, tenendo sempre conto del contesto politico-istituzionale nazionale e dell’epoca nel quale esso prende forma. In tal senso Trump non è fascista, ma populista, scrive Gregor nel capitolo appositamente dedicato all’attuale situazione politica statunitense. Il presidente Usa si muove nel solco di una tradizione populistica autoctona che risale almeno alla presidenza di Andrew Jackson negli anni Trenta del diciannovesimo secolo. Il sistema costituzionale americano, con i suoi pesi e contrappesi istituzionali (checks and balances), è assai più resiliente rispetto allo stile populistico di una presidenza Trump di quanto possano temere i suoi avversari e detrattori.
Agli antipodi, in tutti i sensi, vi è la Cina di Xi Jinping, la quale pare sempre più assumere alcuni tratti del nazionalismo (in questo caso: imperialismo) sviluppista. Infatti l’attuale ideologia cinese, che conserva i simboli del comunismo maoista mescolati alla tradizione confuciana opportunamente rivisitata e amalgamata, si fonda su un sistema economico comandato da un capitalismo di Stato, anzi di partito-Stato, nonché sull’imperativo della crescita economica nazionale e dello sviluppo industriale e tecnologico illimitato, alimentato da un potente sentimento di rivalsa anti-occidentale dopo secoli di depressione e assoggettamento al colonialismo europeo.
In conclusione, molte delle esperienze di governo che si sono avute dopo la seconda guerra mondiale fuori dagli Stati Uniti e dall’Europa occidentale si sono presentate come “socialiste”, avendo in realtà ben poco a che fare con la dottrina classica del socialismo, specie se intesa in senso marxista, aldilà dell’obbligata alleanza con l’Unione Sovietica in temporanea funzione anticoloniale. Si è spesso trattato, e tuttora si tratta, di regimi autoritari fondati su partiti-Stato che ricordano alcuni tratti dell’idealtipo del nazionalismo sviluppista a cui Mussolini dette vita per consolidare il proprio potere in Italia tra 1925 e 1940.
Il libro è corredato da un’utile bibliografia comparata, che è stata curata assieme ad Antonio Messina, giovane studioso siciliano che con Gregor ha assiduamente collaborato negli ultimi anni. Il politologo americano concludeva la sua agile sintesi mettendo in guardia rispetto ad una sottovalutazione e facile liquidazione della categoria di “nazionalismo sviluppista”, perché un potente grido di affermazione e una furibonda domanda di riconoscimento sono ormai sul punto di ebollizione in numerose parti del mondo extra-occidentale. È facilmente intuibile quanta forza di attrazione possa ancora esercitare nel prossimo futuro una formula politica capace di unire revival etnico, risentimento post-coloniale e fame di risorse energetiche nonché di diffuso benessere per la propria comunità politico-territoriale di riferimento. Molto probabile, perciò, che gli equilibri internazionali e le sorti future del mondo continueranno ad essere l’esito di rivendicazioni e lotte tra imperi e nazioni.

[originariamente pubblicata su «LA RAZÓN HISTÓRICA. Revista hispanoamericana de Historia de las Ideas» (N. 47, Año 2020, páginas 126-130). Si ringrazia il Direttore Sergio Fernández Riquelme].

Anthony James Gregor (New York, 2 aprile 1929 – Berkeley, 30 agosto 2019)