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Un’ideologia al comando: storia del politicamente corretto

Recensione a: Eugenio Capozzi, Politicamente corretto. Storia di un’ideologia, Marsilio, Venezia 2018, pp. 208, € 17.

Eravamo poco più che ventenni e Giovanni Sartori ci insegnò molte cose nel suo ultimo anno di insegnamento al “Cesare Alfieri” di Firenze, tra cui il significato di “ideologia”. Si tratta di un sistema di idee e di ideali che vengono trasformati in credenze. Le idee non sono più pensate, ma credute, e così «diventano ex-idee, idee vuote, idee congelate che escono dalla testa per entrare in bocca e passare da bocca a orecchio senza che nessuno più le ripensi». Un’idea ideologizzata si fissa e fossilizza, diventa oggetto di fede e non più di riflessione. Perde, infine, contatto con la realtà.
Un esempio? Contrabbandare una seria questione di profilassi preventiva atta ad evitare pandemie per una fobia securitaria che alimenta sentimenti xenofobi e razzisti. È accaduto in questi giorni nella polemica tra il governatore della Toscana, Enrico Rossi, e Roberto Burioni, docente di microbiologia e virologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Burioni si è permesso di far notare, in punta di scienza medica microbiologica, che la quarantena, ossia un periodo di isolamento per chiunque (si ripete: chiunque) rientri in Italia dalla Cina è l’unica misura ad oggi possibile per fermare il diffondersi del nuovo coronavirus. Con ciò ha osato criticare l’assenza di misure del genere prese per il rientro in Toscana di circa 2500 cittadini italiani di origine cinese, residenti a Prato e in altri comuni della regione. La risposta da parte di Rossi è stata la seguente: «Chi ci attacca o non è bene informato, o è in malafede o è un fascioleghista». Risposta incauta e controproducente. Plastico esempio di cosa sia un’ideologia e di cosa comporti nei ragionamenti e nei comportamenti. Da una parte la ragione medica, dall’altra il dogma politico. Dalla scienza all’ideologia. Alla fine la realtà è sempre più forte, puoi ignorarla, fare come se non ci fosse, ma alla fine ti bussa alla porta e ti dici che c’è sempre stata, era lì, soltanto tu non volevi vederla, e non si capisce perché.
Paura? Ingenuità? Irrazionalismo e infantilismo sono due componenti, forse due facce della stessa medaglia di un’ideologia che Eugenio Capozzi ha sottoposto sotto le lenti di ingrandimento di una serrata e seria analisi, che non indulge al politicamente scorretto, mera controfigura mimetica di ciò a cui vorrebbe contrapporsi.
Per comprendere un fenomeno quasi sempre è necessario ricostruirne la storia, la sua genealogia. Capozzi lo ha fatto con una tra le ideologie più tenaci e diffuse nell’Occidente contemporaneo. Morte alcune, dopo il 1989 altre ideologie sono sopravvissute e si sono imposte, altre nel frattempo sono sorte, come reazione a queste nuove egemonie oppure come risposte a nuovi ulteriori scenari politici, economici e sociali emersi negli ultimi decenni. Capozzi ha percepito sin dagli anni Ottanta che una nuova «catechesi civile» stava prendendo forma e si stava imponendo nel dibattito pubblico. Alcune parole o modi di dire cominciavano ad essere censurati, nasceva una nuova “etichetta” che andava ben oltre la buona creanza e il rispetto degli altri. Si configurava piuttosto come una ridefinizione della realtà, una sua trasformazione a scapito di alcune elementari verità. Negli ultimi trent’anni ha preso forma un processo di «trasformazione della realtà» ad opera di un’azione di massa, che è ciò a cui devono mirare quelle che Antonio Gramsci chiamava «volgarizzazioni filosofiche», cioè le ideologie. Soltanto che, rispetto agli anni Venti e Trenta del Novecento, il politicamente corretto non produce mobilitazione dal basso contro l’alto, ma discende dall’alto verso il basso, facendosi Neolingua. Grazie ad un apparato di rappresentazione della realtà così invasivo e pervasivo come sono i mass media, e ora i social, nuove élite hanno consolidato la propria originaria conquista di posizioni di comando. Sempre Sartori metteva in guardia sull’ideologia come Gestalt, come forma mentis, «struttura inquadrante e decifrante della realtà».
Quando si riscrivono parole, se ne cancellano alcune e si sostituiscono con altre, si prescrivono alcuni comportamenti e discorsi mentre se ne censurano altri, il segnale è chiaro: siamo di fronte all’avvento di un nuovo tentativo egemonico, che tramite il controllo del linguaggio intende giungere al controllo del pensiero. L’ideologia precedente da cui il politicamente corretto germoglia come ramoscello da un tronco è il progressismo. Con esso Capozzi intende l’idea che è sorta nelle società europee con la modernità e la crescente tendenza alla secolarizzazione, secondo la quale la civiltà umana non semplicemente tende ad evolversi, ma deve diventare perfetta per mano di una guida politica, leader e/o partito, con l’aiuto di un ceto intellettuale al servizio di tale guida. Nel Novecento il comunismo ha incarnato «la versione più assoluta, più seducente del progressismo», dominando incontrastato l’immaginario politico occidentale sino almeno alla seconda metà degli anni Cinquanta. Nella società del benessere è poi emersa la prima generazione di giovani cresciuti nella pace e nella sicurezza sociale, e con essi «il progressismo conobbe una profonda trasformazione: nel giro di pochi anni il suo obiettivo si spostò dall’orizzonte socio-economico a quello culturale» (p. 24).
L’ideale comunista di redenzione non parve più bastante: non solo il capitalismo andava abolito, ma l’intera tradizione europea risultava uno stratificato sistema di dominio e repressione, apparentemente tollerante ma concretamente alienante e ingiusto. Tale sarebbe sin dalle sue basi costitutive, dall’agenzia di socializzazione primaria per eccellenza, ossia la famiglia, a quella secondaria più importante, ovvero la scuola. Tutto andava smontato e ricostruito, anzi liberato e lasciato esprimersi nella sua piena e irrefrenabile voglia di autodeterminazione. Scrive Capozzi: «l’obiettivo del progressismo di nuova generazione divenne quello di de-occidentalizzare il mondo, fomentando contro il sistema tutti i soggetti da esso oppressi per attuare un rovesciamento della mentalità e del costume» (p. 25). Una vera e propria «autofobia» occidentale, una paura ossessivo-compulsiva di sé, della propria storia, delle origini, degli usi e dei costumi tramandati.
Il nuovo progressismo culturalista e diversitario (l’altro dall’Europa e dall’Occidente era/è sempre e comunque sano e risanante) «venne fatto proprio, elaborato, imposto nel dibattito pubblico occidentale innanzitutto dai protagonisti della ribellione giovanile degli anni sessanta, della controcultura nata dalla protesta del Sessantotto europeo» (pp. 26-27). Era il sintomo di una civiltà ammalatasi e collassata per mano propria tra la prima e la seconda guerra mondiale, nell’ignominia dei totalitarismi e della Shoah. Una svolta era necessaria, una torsione che avrebbe dovuto essere, sì, decisa, ma non così radicale, verrebbe oggi da pensare e da dire assistendo ad un’Europa talmente post-storica che pare solo subire o negare ideologicamente qualsiasi nuovo fenomeno internazionale che emerge e che la sfida, ne mette in discussione questa insopprimibile voglia di fuga dalla storia.
Dal boom economico del secondo dopoguerra che ha beneficiato tutte le società occidentali prende le mosse una nuova borghesia, «caratterizzata non dalla rendita fondiaria o dall’inserimento nel consolidato sistema industriale fordista ma da un elevato grado di istruzione, dall’inserimento in ruoli dirigenziali e nella ricerca scientifica, da una spiccata integrazione transnazionale» (p. 33). Passando all’età adulta, i contestatori degli anni sessanta e settanta «intraprendono professioni liberali, entrano nel sistema dei grandi media, dell’editoria, dell’accademia, dell’intrattenimento di massa, o vanno a costituire la classe dirigente di un’economia in via di globalizzazione, tecnologizzazione, finanziarizzazione» (ibid.).
Qualcuno potrebbe ragionevolmente sostenere che la cultura liberaldemocratica sia stata l’incubatrice della nuova ideologia. Capozzi obietta che quest’ultima, la political correctness, concepisce i diritti individuali «in una forma slegata dal contesto dei limiti giuridico-istituzionali e delle radici etico-religiose in cui erano stati precedentemente collocati nella storia del costituzionalismo liberale e democratico» (p. 38). Altra conclusione che potrebbe essere troppo frettolosamente tratta è la seguente: il politicamente corretto è di sinistra, quello scorretto di destra. Risponde Capozzi: «quello che l’affermazione dell’ideologia diversitaria fa emergere è semmai la polarità tra una sinistra e una destra che sposano senza riserve una prospettiva postmodernista (quella, appunto, di una società liquida, mobile, dalle identità mutevoli e senza radici) e un’impostazione culturale centrata invece sul tentativo di ancorare più saldamente le appartenenze individuali e collettive mantenendo un rapporto con le radici e i fondamenti dell’umanesimo euro-occidentale» (p. 45).
I tratti costitutivi dell’ideologia politicalcorrettista sono: il multiculturalismo, la costante autocolpevolizzazione occidentale per ogni male operante nel mondo, la trasmutazione di ogni desiderio in diritto, l’utopia dell’antiumanesimo ambientalista, per cui tutte le forme di ecologismo radicale convergono nell’«aspirazione a sradicare sopraffazione e violenza per ripristinare l’innocenza e la purezza dell’Eden. Persino a costo dell’estinzione di Homo sapiens» (p. 160), a detta degli ecologisti più oltranzisti. Non ultimo vi è il tratto biopolitico di questa ideologia egemonica: l’idea-credenza della coincidenza tra identità e scelta soggettiva, «una fusione che rappresenta l’apoteosi del “voglio dunque sono”, asse fondamentale dell’ideale libertario di una cultura egemone strutturalmente avversa a storia, radici, tradizioni, gerarchie» (p. 169). Si giunge al punto di scardinare ogni concezione della natura umana sedimentata nella storia attraverso l’estremizzazione della rivendicazione dell’uguaglianza. Il motto che impera nei campus universitari americani, tanto tra docenti quanto tra studenti, è «l’io è qualsiasi cosa decidiamo che sia» (Mark Lilla, L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica, Marsilio, 2018, p. 91).
Questa articolata ma coerente visione del mondo è destinata ancora ad una lunga egemonia in Occidente? Cosa vi si può contrappore davvero? E quali ideologie si stanno combattendo tra loro fuori dall’Occidente, dove il politicamente corretto è invece assente o impotente? Tutte domande sollevate da questo denso e coraggioso libro di Capozzi, dalla sua puntuale ed equilibrata ricostruzione storica. Domande su cui non potrà non svolgersi la riflessione filosofica, sociologica e politica dei prossimi anni.