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Il Grande Inquisitore /1

Professore, qual è l’oggetto principale del suo studio e come è giunto ad occuparsi di Dostoevskij?

Sono professore del pensiero politico, in particolare, moderno e contemporaneo. Secondo il rigore iper-specialistico che connota il sistema universitario, non mi dovrei occupare di letteratura e di Dostoevskij. Tuttavia, in lui come in tanti altri scrittori – specie russi – io non vedo distinzione disciplinare tra letteratura, filosofia e politica. Incontrare Dostoevskij è stato per me, quindi, quasi inevitabile, sia nella mia ricerca di studio, sia in quella più personale.
Tra i 18 e i 25 anni ho divorato le opere di Nietzsche. Oggi dico di esserne passato “indenne”. Voglio dire che il rischio – leggendo Nietzsche – è di essere fagocitati dal suo affascinante pensiero che, di per sé, porta alla convinzione della “morte di Dio” e all’idea che non c’è altra realtà al di fuori e al di sopra dell’uomo e della sua “volontà di potenza”. Da molti anni ormai – ora ne ho 51 – mi sono reso conto che la mia esigenza è diversa ed è anti-nichilista. L’esperienza della paternità e della docenza – in rapporto costante con i giovani – hanno in me acuito la percezione del nichilismo che pervade il nostro tempo, sollecitandomi a superarlo.
Dostoevskij, per me, è colui che ha prontamente colto l’inquietante incistarsi del nichilismo – dall’Europa alla Russia del suo tempo – nelle menti e nei cuori dei giovani e, inizialmente, in lui stesso, proponendone poi l’alternativa. Questo è il motivo essenziale per cui mi sono occupato e mi occupo di Dostoevskij. Mi è utile come professore universitario di teorie politiche e mi è utile come uomo e come padre.

NICHILISMO

E tuttavia, alcuni personaggi di Dostoevskij sono dei perfetti nichilisti, come è possibile?

A partire da Michail Bachtin, gli studiosi sono concordi nel ritenere che le opere di Dostoevskij siano “drammi di idee”. I suoi personaggi incarnano sostanzialmente delle idee. I conflitti personali possono essere interpretati quali conflitti di idee e di ideologie. Il confronto – o lo scontro – avviene sempre in maniera polifonica e perciò aperta a più soluzioni.
Anche i personaggi per cui l’autore lascia percepire la sua avversione non sono mai stroncati. Sono sempre grandiosamente descritti. Si avverte che Dostoevskij mette sempre qualcosa di sé stesso in tutti i suoi tormentati personaggi. Ne I fratelli Karamazov, di cui oggi parliamo, Dimitri Karamazov – uno dei tre fratelli legittimi – afferma che il cuore dell’uomo è un vasto campo di battaglia tra Dio e il suo avversario, Satana. Questo è vero anche per lo stesso autore, Dostoevskij, il quale – almeno ad un certo punto – ha tuttavia ben presente quale sia la soluzione.

Vuole introdurre al testo de La leggenda del Grande Inquisitore, secondo la sua interpretazione?

Il quinto capitolo del quinto libro de I fratelli Karamazov – romanzo pubblicato a puntate tra il gennaio del 1879 e il novembre del 1880, a pochi mesi dalla morte dell’autore avvenuta il 9 febbraio 1881 – è stato ribattezzato La leggenda del Grande Inquisitore da Vasilij Rozanov nel 1890. In questo capitolo c’è il dialogo tra due dei quattro fratelli: Ivan e Alioscia. Si tratta perlopiù di un monologo di Ivan di fronte ad Alioscia.
Non va dimenticata nella lettura – anche se non compare in questo capitolo – la figura del terzo fratello di sangue, Dimitri, in cui è possibile rintracciare molti aspetti caratteriali dello stesso Dostoevskij, ad esempio una certa irruenza, una certa ingenuità, un certo masochismo, sino alla volontaria sottoposizione ad una punizione espiativa ben superiore alla propria colpa. Certamente in questo testo noi possiamo vedere il riflesso della persona di Dostoevskij sia in Ivan sia in Alioscia. In Ivan c’è il riflesso del primo Dostoevskij, quello con tendenze nichiliste. Mentre in Alioscia c’è il riflesso del secondo Dostoevskij, quello che sta scrivendo, appunto, I fratelli Karamazov: il Dostoevskij che mostra il superamento – da credente – del nichilismo.
Per capire meglio, dobbiamo considerare che Alioscia doveva essere il protagonista di un nuovo romanzo che Dostoevskij avrebbe voluto scrivere e che avrebbe potuto essere intitolato La vita di un grande peccatore, caratterizzato da una vicenda umana di catabasi e di anabasi, di abbassamento e di innalzamento, di perdita e di ritrovamento della fede.

BIOGRAFIA E LETTERATURA

Quali vicende della vita di Dostoevskij sono da considerare per questa lettura?

Semplificando si può dire che l’esistenza di Dostoevskij si può distinguere in un prima e un dopo rispetto all’evento che lo ha più profondamente segnato: la condanna a morte zarista portata sin quasi al punto della esecuzione nel 1849; come sappiamo c’è stata poi la commutazione della condanna in pena ai lavori forzati in Siberia, nella prigione di Omsk, dove scontò quattro anni, a cui seguirono altri due anni da soldato semplice, sempre in Siberia, e infine c’è stato il suo ritorno in Russia occidentale, vicino a San Pietroburgo, da cui i suoi successivi viaggi in Europa.
A segnare una sorta di spartiacque può risultare la lettera che Dostoevskij scrisse a Natalia Fonzivina nel 1854, la donna che era divenuta per lui una sorta di musa: colei che donò quella copia dei vangeli che Dostoevskij portò con sé nella prigionia e dopo la stessa, a significare la sua completa conversione.
Ebbene, in quella lettera, Dostoevskij scrisse: «sono un uomo del secolo, sono un uomo che è cresciuto in un crogiolo di dubbi e continuo ad esserlo… lo sarò sempre… però ingaggio questa lotta per la fede». Ecco, solo alla luce della conversione possiamo leggere il Dostoevskij che è divenuto il grande scrittore che conosciamo attraverso le sue ultime grandi opere in particolare. Questo non sempre da parte degli interpreti occidentali viene sottolineato: Dostoevskij è uno scrittore cristiano, profondamente credente, benché attraversato dal dubbio. Questo spiega ciò che ho già detto in parte: i suoi personaggi sono polimorfi o poliedrici, sono verosimilmente umani e per questo risultano molto credibili alla nostra lettura, anche di fede. Ma è molto chiaro, per me, quale sia il pensiero che Dostoevskij ha voluto consegnare.

Come Dostoevskij traspare nei personaggi di Ivan ed Alioscia?

C’è un altro testo molto eloquente di cui voglio citare letteralmente due brevi passi e chiosare. Il 30 dicembre 1879, Dostoevskij tenne una conferenza all’Università di San Pietroburgo. Parlando agli studenti precisamente del capitolo quinto del quinto libro de I fratelli Karamazov – e ciò sembra giustificare l’estrapolazione che anch’io ho operato nel mio libretto – disse: «Un ateo (Ivan) che soffre per la propria miscredenza, in uno dei suoi momenti di tormento, compone un folle poema fantastico in cui fa dialogare Cristo con uno dei sommi sacerdoti cattolici, il Grande Inquisitore». Questo primo passaggio dice quanto Dostoevskij fosse calato nel personaggio di Ivan, il nichilista ateo.
Dostoevskij proseguì dicendo: «La sofferenza del creatore del poema deriva proprio dal fatto che, nell’immagine del suo sommo sacerdote che ha una concezione cattolica del mondo, così distante dall’antica ortodossia apostolica, egli (Ivan) vede realmente un vero servo di Cristo, mentre, in sostanza, il suo Grande Inquisitore è lui stesso un ateo». Notiamo qui che il suo essere cristiano è da intendere – prima di una appartenenza ad una Chiesa – quale intima adesione al vangelo, al Cristo. E quindi osserviamo che l’immagine del Grande Inquisitore non è altro che la proiezione della mente di Ivan che non può che rappresentare una visione atea, senza Dio e senza Cristo.
Come tutti i lettori di Dostoevskij ricordano, il testo deLla Leggenda si conclude col bacio di Cristo al Grande Inquisitore. Ma dobbiamo anche ricordare che il dialogo tra i due fratelli si conclude con un bacio di saluto. I due fratelli riproducono dunque la scena proiettata da Ivan come in un film. In Ivan rivediamo il Grande Inquisitore. In Alioscia rivediamo il bacio di Cristo. Alioscia è un “Cristo in bocciolo”.
Se c’è dunque – per rispondere precisamente alla domanda – qualcosa di Dostoevskij, sia in Ivan sia in Alioscia, è indubbio, secondo me, con chi Dostoevskij volesse in qualche modo identificarsi.

ORTODOSSIA

Solo un cristiano ortodosso russo avrebbe potuto scrivere questo testo?

Dostoevskij è stato impregnato di una doppia cultura, secondo il corso della sua vita: quella occidentale – specie francese e tedesca – e quella orientale russa slavofila. Per molti versi è stato un vero slavofilo antioccidentale e anticattolico. Dagli anni ’60 agli anni ’70 del suo secolo è stato un nazionalista convinto che guardava con simpatia all’autocrazia zarista.
Questo è forse scomodo da dire di un autore che amiamo così profondamente, ma è proprio vero. Va tenuto presente che la sua avversione alla Chiesa di Roma è motivata dalla modalità con cui si può travisare il messaggio cristiano, ossia la pretesa umana di innalzarsi verso il cielo, anziché lasciare che sia il cielo di Dio ad abbassarsi sino a terra, sino all’umanità.
C’è un’altra lettera significativa al riguardo. La scrisse al suo editore. Dalla stessa si evince come il bersaglio critico fosse sempre l’ateismo, anche se quello umanitario, sia dei gesuiti del tempo in cui è ambientato il “poema fantastico”, sia dei socialisti del suo tempo. Il primo Dostoevskij – come sappiamo – è stato un simpatizzante del socialismo, e lui, in fondo, aveva continuato a ritenere che le idee del socialismo fossero giuste: riteneva che fossero le idee di Cristo, ma senza Cristo.
Ecco, perciò, il bersaglio critico ravvisato nella Chiesa cattolica ritenuta modello di un umanitarismo svuotato di fatto dalla fede in Cristo, in Dio. Certamente imputava alla Chiesa storica di Roma di aver perduto la fede e, a forza di mondanizzarsi, di essersi compromessa col mondo, perdendo l’altro mondo. L’idea di Dostoevskij di rimettere al centro della Chiesa Cristo e il suo vangelo è peraltro vecchia come il mondo cristiano: è il principio di ogni riforma.

Con ciò ritorna – nella sua lettura – il bersaglio Nietzsche?

Sì, perché sostanzialmente Nietzsche ha distrutto l’idea dell’aldilà, portando a compimento lo sviluppo di pensiero iniziato con Hegel, proseguito con la sinistra hegeliana, con Feuerbach sino a Marx, secondo i quali l’aldilà non è altro che la proiezione delle insufficienze umane.
Il Grande Inquisitore – ovvero una chiesa mondanizzata -, pensando peraltro di fare del bene, con tanto di iniziative umanitarie, curative, sociali ecc. arriva di fatto, secondo Dostoevskij, a risolvere l’intera esistenza umana nel “qui ed ora”. Il Grande Inquisitore è uno che non crede più all’aldilà. In questo senso è nietzschiano. Mentre per Dostoevskij era divenuto indispensabile un cristianesimo che non si esaurisse in questo mondo.

FEDE

A questa lettura di Dostoevskij si potrebbe obiettare: meglio vivere da atei che morire da credenti?

Penso di poter dire che, secondo Dostoevskij, chi crede – chi ha fede -, in un certo senso, non muore mai, mentre chi è ateo è già morto in vita. In ciò, secondo me, Dostoevskij fa il paio con un altro grande del cristianesimo – di tutt’altra confessione -, ossia Kierkegaard. Questi grandi scrittori cristiani ci insegnano che la malattia mortale del cristianesimo – e dell’umanità – è la paura della morte.
Il vero male del cristiano e della persona umana è l’essere persuasi – più o meno consapevolmente – che la morte è più forte. Mentre l’essenza del cristianesimo – e in fondo dell’umano vero – sta nell’intima persuasione che la morte è già stata sconfitta dalla risurrezione – dalla vita – in Cristo.

La questione centrale del testo de La leggenda del Grande Inquisitore è la libertà: vuole riassumerne i termini?

L’altro grande insegnamento che il testo ci offre è che il cristianesimo è la religione delle persone libere. Il cristianesimo insegna all’umano a essere libero perché dà fiducia all’umano. Ecco l’accusa dell’Inquisitore a Cristo, che, nel racconto, resta in silenzio. Cristo ha offerto libertà e fiducia, ma con ciò, secondo l’Inquisitore, ha sopravvalutato l’umano e le sue facoltà. L’accusa è di aver sopravvalutato gli uomini ritenendoli all’altezza di un dono troppo grande. Di fatto, secondo l’Inquisitore, l’uomo non ne è all’altezza.
Di quale libertà si sta, però, parlando? Una libertà – così come oggi comunemente la intendiamo – “di” scegliere e “di” consumare, oppure una libertà “da” impedimenti e “da” preoccupazioni. Il Grande Inquisitore, nel poema inventato dall’ateo Ivan, intende offrire precisamente una libertà “di” e “da”, una libertà che porta a una parvenza di felicità col benessere. La libertà offerta dal Cristo è altresì una libertà “per”, ossia una libertà capace di assorbire il male, diminuendolo, e di liberare il bene, aumentandolo: una libertà che consente alle creature di risultare veramente simili al loro creatore. A ciò, il Grande Inquisitore obietta a Cristo di aver desiderato una libertà per soli eletti.
Il Grande Inquisitore è davvero “Grande”, nel senso che è intelligente e davvero affascinante nella sua capacità di requisitoria contro Cristo. Citando la Bibbia arriva a dire che ogni generazione può avere 12.000 santi all’altezza della libertà desiderata da Cristo. Tutti gli altri umani no. Il suo capo d’accusa in questo immaginario secondo processo a Cristo diventa perciò: «Tu hai preteso troppo dall’uomo, sei stato troppo esigente!».
Per certi versi, è vero: Cristo è veramente esigente. Il cristianesimo è veramente esigente. E secondo me questo aspetto di esigenza non va abbassato, non va minimizzato affatto, perché proprio in tale esigenza è offerta all’umano la libertà di elevarsi dalla terra di cui è fatto – pur conservandone l’humus ossia l’umiltà – e di scoprire che in quella stessa sostanza di terra e di carne c’è molto di più di quanto si possa pensare, perché Dio si è incarnato in Cristo.

ESTETICA

Dostoevskij è spesso citato per parole come libertà e bellezza. Anche in questo testo è possibile rivenire il concetto di bellezza?

In un romanzo precedente a I fratelli KaramazovL’idiota – al principe Myškin viene rivolta la famosa domanda: «è vero che tu una volta hai detto che la bellezza salverà il mondo?». Chi traduce dal russo dice che sarebbe più fedele scrivere «è vero che tu hai detto che il mondo salverà la bellezza?».
Dostoevskij voleva quindi esprimere che la bellezza è già nel mondo, nel creato, nelle creature. L’umano ha una natura umano-divina per Dostoevskij: per metà – se così si può dire – è materia e per metà è qualcosa di simile a Dio. È dunque nella lotta interiore dell’uomo tra gli estremi della sua stessa natura che si gioca la salvezza del mondo. La salvezza sta nella emersione della bellezza del divino che c’è nell’umano e nel creato in generale.
Anche ne La leggenda del Grande Inquisitore – certo – c’è la bellezza. Come ho detto, si tratta prevalentemente di un monologo di Ivan Karamazov. Alioscia, tuttavia, interviene qualche volta con brevissime frasi, semplici, persino ingenue, di apparente pochezza. Non sono – le sue – obiezioni razionali alle tesi del fratello. Parla di una foglia, poi della rugiada e della brezza leggera del vento. Ecco, la bellezza sta in quelle semplici parole che solo lui è capace di pronunciare in quel dialogo, perché solo lui vede e avverte quella bellezza che il fratello non vede e non sente.

Può trarre le sue prime conclusioni dalla lettura di questo testo di Dostoevskij?

Io penso che Dostoevskij abbia voluto dire che il cristianesimo autentico – radicato nella fede in Cristo – ha in sé la facoltà di far emergere, con la libertà, tutta la bellezza divina che c’è nell’essere umano. Questo penso che sia molto importante da far capire oggi – specie ai giovani – rispetto alla attrazione, sostanzialmente nichilista, che il mondo esercita.
Come ho detto la libertà offerta dal cristianesimo è molto esigente, nel senso che Cristo si aspetta molto dall’essere umano: non lo sopravvaluta – come sostiene il Grande Inquisitore – ma neppure lo sottovaluta. Questo è molto importante. L’attesa salvifica di bellezza che c’è nei confronti di ogni cristiano e di ogni essere umano è molto grande e molto forte.
La potenzialità propria del cristianesimo è di rendere possibile in ciascun essere umano la vittoria sulla paura della morte. La morte può non fare più paura perché è vinta dalla risurrezione operata da Dio in Cristo. Lo spartiacque è la Pasqua. Se l’uomo pensa così, tutto veramente cambia. C’è altro oltre a questa vita e a questo mondo: c’è l’Eterno.

[Il Grande Inquisitore/1- Intervista a cura di Giordano Cavallari, originariamente apparsa su “SETTIMANAnews.it“, 9 febbraio 2022]