Non una recensione, ma un omaggio, un sentito ringraziamento a Nick Cave and the Bad Seeds per il loro diciassettesimo album, Ghosteen, perché si tratta di musica e canto ricondotti al loro destino, al motivo fondamentale, fatale, per cui nella notte dei tempi il primo suono, accompagnato dalla prima voce, sgorgò da gola d’uomo e così nacque il sodalizio tra i vivi, i morti e i venturi. Quel tanto d’eterno che c’è dato esperire.
Una lunga e dolente elegia di morte e resurrezione che accompagna una perdita incolmabile. Una faticosa ed interminabile cucitura di uno strazio di ferita penetrata fino al midollo, ferita che all’alba di ogni maledetto giorno si riapre e sanguina. Tessere la tela del lutto come fosse una forma di preghiera rituale, un mantra di ricongiunzione con lo strappo, con ciò che manca. Annientare il pensiero dominante che annega ogni altro pensiero. Morte non può trionfare, non deve. C’è ancora lei, ci sono ancora loro.
Cercare pace nella mente, trovare pace nella mente. Trasformare a mano a mano, ora dopo ora, giorno dopo giorno, quel dolore lancinante in amore di destino. Pazzesca impresa, sovrumana, deprecabile per alcuni, che si dimostrano perciò stolti, perché non sanno che il pianto che asseconda il dominio della morte è peccato originale. Il pianto sano e santo è quello che attraversa un labirinto di spine e di lame, che ti costringe alla lacerazione, ma che ti spinge all’uscita, alla riconciliazione. Il dolore può uccidere, il dolore può redimerti se lo redimi, lo trasformi in più amore, non meno. Non è semplice, niente affatto. È difficile, dannatamente difficile. I più soccombono. È normale, è comprensibile. Nessun giudizio, solo pietà, compassione, patire con loro, mortali come te, come me.
Hai un talento che, come sempre, è un dono. Beati coloro che lo scoprono per tempo, o almeno quando è il momento del bisogno. Tu sei un poeta. Se comprendi quale sia il significato più profondo, più vero, della poesia, se capisci che è il pensiero che si fa canto, se il tuo canto è pensiero che respira, allora sì, allora sì che l’anima da immota torna, adagio e adagio, a schiudersi, aprirsi alla visita del creato. Questo ti invita ad uscire, lasciare strette pareti annerite e sa farti nuovamente abitare il mondo. Così, un giorno, l’alba ti si annuncia come preludio di una speranza, per cui benedici e non più maledici il sole che puntualmente, immancabilmente risorge e s’irradia, dilaga nell’aria. La luce da accecante si fa trasparente. Finalmente vedi cosa c’è dietro. Soprattutto, e più importante di tutto, scopri che c’è, c’è qualcosa, là dietro. Oltre.
Ed ecco il pianto che si fa canto. Dall’occhio annebbiato dal pianto passi alla bocca che riprende respiro con il canto. Il canto che cerca corrispondenze, risposte dal creato non da te creato, ed è così che giungi a scoprirti un più nel meno, a ritrovarti espanso nella sottrazione del sé. Lasci io e trovi dio, che è spazio aperto per il tuo abbandono. Non hai certezze, ma carezze.
Ecco allora un cammino lungo, lento, incerto, vacillante. Un cammino che può intravedere una meta se l’umano si fa un po’ più muto e porge orecchie e cuore in ascolto degli echi che giungono dal cielo, dal canto degli uccelli, dal silenzio remoto delle stelle. Un po’ più muto, sai ora stare, e disposto a scaldarti la pelle con un raggio di sole che trafigge la selva di dolore che ti soffoca. Riprendi fiato e torna ossigeno a circolare. Prima di ogni cosa: capire che siamo fotoni sprigionati da una stella cadente.
Ghosteen è l’antologia sonora di una novena sulla fatale scogliera in cui un padre perse un figlio. Quindici anni sono pochi per morire. In quel modo, assurdo. Un precipizio per chi resta. Una madre, un padre, fratelli. Per fortuna c’è quel canto, la forma che è sostanza e congiunzione, corrispondenza con chi e cosa può dare un senso, una destinazione. Senti che sei parte di una comunanza di perdita.
L’umano è in perdita ed ama in quanto mancante, anzitutto mancante della pienezza di sé. Ma si è pieni solo nell’aggiunta esterna, nell’abbraccio che trascende il proprio confine di carne. Non vi è casa che non abbia conosciuto un dolore. Senti riecheggiare i versi del bardo, senti venire a galla la domanda, così triste, che ricorre in te, «con gli altri legati in tanti nodi»: cosa mai di buono potrà mai esservi in tutto questo, «ahimè, ah vita»?
Risposta: «che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi / con un tuo verso». Un contributo da raddoppiare perché devi assolutamente colmare il vuoto e rappresentare chi anzitempo se n’è andato. Non puoi sottrarti. È dovere di padre, di madre, di fratello e sorella. Di umano verso altro umano venuto a mancare. Testimonianza suprema di sé che passa tramite un altro. Lo racconti e ti racconti, scoprendo che siamo catene di vuoti a rendere. Non così vuoti, però.
Ciascuno di noi è vuoto a perdere che può colmarsi nell’amore, che è restituzione di energia donata, ricevuta in nascita, non sempre compresa, quasi mai all’inizio. È il dolore che ti avverte, che ti segnala questa dotazione iniziale. Allora scavi nel vuoto che sei, ma come di vaso che ha un fondo ancora da raschiare. Raspando, trovi il dono d’origine e cominci ad elargire. Così minuto dopo minuto restituisci nerbo, vertebre e pulsazioni al tuo pensiero, che suona e canta parole come brani di preghiere. La poesia è evocazione, richiamo delle anime dei morti, degli spiriti che popolano il creato. Senti che il figlio è nel padre, il padre nel figlio, fianco a fianco. Sul palmo della mano volteggia il fantasma adolescente. La tua mano e l’amato fantasma del tuo caro. Il gesto del padre che accoglie il figliol prodigo, l’ospite mai così tanto atteso perché stavolta se n’era andato non per sua scelta, ma per destino. È tornato ed è per sempre.
La vita in onore dei cari defunti è attesa grata del presente e fiduciosa di un futuro radioso, perché lì, tra anime, avverrà l’incontro, finalmente ricongiunti. Cercami, sono qui. Vòltati, sono qui, accanto a te. E, a quel punto, è per sempre. Ghosteen è una sottile e crescente elegia di morte e resurrezione che conduce Nick Cave all’apoteosi artistica. Non so se alla pace interiore, non so, se al riposo e al riparo dal dolore; ma all’apoteosi, sì, senz’altro, all’assunzione in cielo del suo canto, finalmente in coro con il canto di suo figlio.
[L’articolo è originariamente uscito il 15 giugno 2020 su «Pangea. Rivista avventuriera di cultura & idee». Si ringrazia per l’ospitalità il suo fondatore e direttore, Davide Brullo]