L’anno scorso è stato ricordato il decennale della morte di Eugenio Garin (1909-2004), uno dei nostri più autorevoli storici della filosofia e della cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento, molto noto anche a livello internazionale. Una buona occasione per ricordarlo è questo carteggio con Ugo Spirito (1896-1979), personalità altrettanto importante, ma che è stata sempre incline a sviluppare una filosofia della storia piuttosto che una storia della filosofia, ossia a fornire interpretazioni complessive e quasi normative tanto del passato quanto del proprio presente. Insomma, da una parte uno storico, dall’altra un filosofo. Ruoli vissuti da entrambi all’ennesima potenza, fino al limite delle rispettive possibilità di ricerca. Uno storico puro, un filosofo puro. Ad accomunarli l’incontro con Giovanni Gentile, sia pure in epoche differenti, ma anche la provenienza da una giovanile formazione universitaria di impianto positivistico. Garin era stato allievo a Firenze di Ludovico Limentani (studioso ebreo, allievo di Ardigò e Vailati, e che sarebbe poi stato allontanato dall’insegnamento nel 1938 a seguito delle leggi razziali), mentre Spirito si era formato nella scuola del positivismo giuridico e criminologico del socialista Enrico Ferri a Roma, facoltà di Giurisprudenza.
La comune originaria matrice positivistica avrebbe conferito un tratto di originalità e una certa dose di impermeabilità rispetto all’onnipervasivo sistema filosofico dell’attualismo, ovvero la versione gentiliana dell’idealismo neo-hegeliano. Una versione dal fascino potente, da cui entrambi furono attratti e, sotto alcuni aspetti, travolti. Spirito compì un viaggio fin dentro il cuore dell’attualismo tanto da diventare “il più inquieto, ma in certo senso, paradossalmente, il più fedele degli allievi di Giovanni Gentile, sempre insoddisfatto di ogni posizione raggiunta, ma acutamente sensibile, anche se in un suo modo tutto personale, ad alcune delle esigenze più profonde del pensiero contemporaneo”. Così scriveva lo stesso Garin all’indomani della scomparsa di Spirito, ereditandone la direzione di quel “Giornale critico della filosofia italiana” che era stato fondato da Gentile nel 1920 e che, dopo il suo assassinio, era rinato dalle ceneri della guerra civile proprio per volontà di quell’allievo insieme inquieto e fedele.
Il “Giornale critico” negli anni Venti e, in parte, anche nei Trenta era stato la culla e la palestra per molti giovani talenti filosofici che beneficiarono della sostanziale egemonia culturale esercitata dal magistero gentiliano, mercé anche l’influente ruolo politico che il filosofo di Castelvetrano ricoprì almeno nel primo decennio del ventennio fascista. Nel secondo dopoguerra la rivista radunò invece le sparse e lacerate membra di un ambiente culturale che era stato alquanto fervido, ma che le vicende belliche e la fine tragica di Gentile inevitabilmente fecero esplodere.
Questo carteggio ci aiuta, quanto meno, ad intuire l’atmosfera che si dovette respirare nell’ambiente attualistico post-gentiliano. Leggendo la corrispondenza tra Garin e Spirito, scorrendo i molti nomi che compaiono, quasi sempre per motivi legati proprio alla composizione del “Giornale critico” numero dopo numero, si ha l’impressione di un mondo che resta in piedi sulla base di alcuni equivoci, o meglio: su dei non detti, delle reticenze, talora quasi degli imbarazzi.
È probabilmente quel che accadde ad una fetta assai consistente della cultura storica e filosofica italiana nel passaggio dal fascismo alla Repubblica, che molto doveva, in termini sia di debito intellettuale sia di carriera accademica e istituzionale, a Giovanni Gentile. Figura quanto mai ingombrante al termine della guerra, e forse, anche per questo, eliminata fisicamente prima che si instaurasse un nuovo regime politico e si creasse un nuovo establishment. Ci fu chi, spesso in piena onestà intellettuale, si era mosso anzitempo in direzione del magistero crociano, un modo per transitare verso un idealismo meno compromesso con il fascismo e sufficientemente recuperato al liberalismo. Un liberalismo più volto al passato prefascista, che non accontentò personaggi come Guido Calogero, ad esempio, che procedettero oltre, con innesti di socialismo più o meno temperato. Ci fu chi, invece, compì un vero e proprio balzo, per approdare su altra sponda, filosofica come politica. Uno storicismo anti-idealistico che poteva attrarre comunque proprio per quel sostantivo, e su cui lavorò molto abilmente il Togliatti che decise il rilancio dell’opera di Gramsci, riproposta proprio in tale ottica.
Rientra esattamente in questa lungimirante operazione di strategia politico-culturale la favorevole recensione su “Rinascita” che il segretario del PCI, sotto la consueta firma di Roderigo di Castiglia, ebbe a scrivere per uno dei più noti lavori di Garin, Cronache della filosofia italiana, pubblicate da Laterza e vincitrici nel 1955 del prestigioso Premio Viareggio. Lo storico dell’Università di Firenze ne rimase profondamente colpito e lusingato e da allora più rapido e marcato si fece il suo avvicinamento al PCI, mercé anche un crescente interesse per gli scritti gramsciani e una comune idea di scuola laica avversa alle politiche della DC.
Come ha ricordato un suo allievo, Michele Ciliberto, Garin fu un intellettuale assai vicino al PCI, se non dichiaratamente comunista, che però non fu mai “marxista”, e anche questa peculiarità dovrebbe essere materia di riflessione per una più attenta storia della cultura politica italiana del secondo Novecento.
Tenendo conto di queste vicende proprie dell’intera cultura italiana del secondo dopoguerra, si può leggere in filigrana anche il rapporto di Garin con Spirito. Quest’ultimo fu determinante per la carriera accademica del primo, come si comprende da una lettera del 27 febbraio 1949 e da una preziosa nota apposta da Michele Lodone, attento curatore del carteggio. Spirito fu infatti nella commissione giudicatrice del concorso per professore straordinario di Storia della filosofia all’Università di Cagliari, vinto appunto da Garin (gli altri due usciti nella terna finale furono Enzo Paci e Mario Dal Pra). Chi ha studiato la vita e l’opera di Spirito sa bene il peso che questi ebbe nella vita accademica della filosofia italiana del secondo dopoguerra, addirittura fino ai primi anni Settanta. Nel frattempo, però, Garin sviluppò un progressivo distacco dal “Giornale critico”, che si acuì dopo la discussione del ’59 su filosofia e storia della filosofia. Qui emerse una divergenza di posizioni teoriche che, all’epoca, era anche sinonimo di distanza ideologica. Ad un certo momento, non fosse stato per il cordiale rapporto con Spirito e il senso di riconoscenza, è probabile che Garin avrebbe completamente chiuso con la rivista. Questo è il giudizio di Lodone, che però forse non tiene sufficientemente conto di cosa significava la direzione di Ugo Spirito.
Il pluralismo dei contributi al “Giornale critico” diventò, anno dopo anno, sempre più ampio e l’atteggiamento del direttore sempre più dialogante con le nuove correnti filosofiche che di volta in volta giungevano dall’estero. Spirito fu in ciò pienamente coerente con quanto andava sviluppando ormai da anni in nome del suo “problematicismo” e di quanto ne era ulteriormente conseguito sul piano della visione tanto della storia universale quanto delle relazioni umane. A tal proposito è degna di nota la recensione che Garin fece per la trasmissione radiofonica “Terzo Programma” al terzo libro della trilogia spiritiana post-(od ultra-)gentiliana: La vita come amore (1953). Emerge una comprensione acuta e profonda, nonché simpatetica, del momento teoretico raggiunto da Spirito, appena approdato al suo “onnicentrismo”, facilmente dialogante sia con posizioni di forte laicismo sia con posizioni di cattolicesimo che si sarebbe poi detto “progressista”.
C’è una nota stesa da Garin nel 1981, all’indomani della morte dell’amico e collega Pietro Piovani, professore di Filosofia morale all’Università di Napoli, avvenuta prematuramente un anno prima, in cui si colgono elementi per comprendere cosa si stava muovendo nei primissimi anni Cinquanta nell’animo e nella mente dell’allora quarantenne studioso del Rinascimento. Scriveva Garin, con riferimento alla prima ampia monografia d’impianto teorico pubblicata da Piovani, Normatività e società del 1949: “Ricordo che, letto il libro, subito ne stesi per il “Giornale critico” una recensione piena di consensi – che non uscì mai – sottolineando quelle che mi sembravano le esigenze emergenti di un nuovo razionalismo etico, ed insistendo a un tempo nella polemica contro gli esiti irrazionalistici degli epigoni dell’idealismo, e della loro pretesa ‘scienza’. Non a caso Ugo Spirito non la pubblicò e preferì un altro recensore”. Che fu poi Giuseppe Semerari, come si evince da una lettera inviata da Spirito a Garin e datata 17 luglio 1950. Da queste parole, pur successive di oltre trent’anni rispetto ai fatti narrati, emerge abbastanza chiaramente come l’allievo di Limentani stesse sempre più maturando una linea storiografico-filosofica improntata ad uno storicismo anti-idealistico, verso cui anche Piovani, allievo di Giuseppe Capograssi, stava evidentemente muovendo i primi passi.
Detto ciò, Garin si sarebbe più tardi, all’inizio degli anni Novanta, dedicato alla pubblicazione delle opere filosofiche di Gentile, lavoro che sempre Ciliberto ha definito “assai importante per comprendere il complicarsi del giudizio di Garin su tutto il Novecento italiano ed europeo”, e soprattutto avrebbe ereditato la direzione del “Giornale critico” dalle mani di Spirito e l’avrebbe mantenuta per un venticinquennio, fino al 2004, anno della sua morte.