sii soffio nel vetro!
vacillo nel dirlo, a te
canora conca di lacrime
per troppo piegarsi alle stelle
ti sei fatta rigida, di pietra
ché il cielo, sai, può essere Medusa
e perciò ti rivorrei vento
a spazzarmi le nubi dal petto
incistite a dispetto del cuore
che amore sempre mi pompa
misto all’acido dai tuoi occhi colato
fino a che l’ingranaggio non salti.
Micidiale dispositivo di guai
l’incastro dei nostri percorsi
tracciati da un bimbo indispettito
che ha rotto il gioco, non l’ammette
però rivuole il gioco, lo stesso, intatto.
Sviati, smarriti, dopo la notte
ci ritroviamo in un intrico di spasmi
ad accogliere nelle umide fessure al risveglio
la luce di domanda di un’alba che stenta, indugia
per l’eterna perfezione che sta nel mentre.
Un solo verbo s’articola nei ridestati:
trattenersi, in risposta al dispendio obbligato
che la nostra venuta, ogni venuta, ha da pagare.
Ella avea diffuso in volto
Quel pallor cupo che adoro.
Le splendea l’alma ne li occhi
quale in chiare acque un tesoro.
[…]
[G. d’Annunzio, La Chimera (1886)]