Con Lince Davide Brullo si sottrae ad ogni recensione. La sua poesia sfugge ad ogni censimento, ad ogni recinzione. Diventa una belva in fuga, che corre affamata nella selva oscura e incontra un mondo in cui la natura parla la lingua di Dante Alighieri e Dylan Thomas, John Donne e Derek Walcott, T.S. Eliot e Giovanni Testori, René Char e Cristina Campo, Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak. Ne scaturiscono espressionismo polifonico e sinfonia dodecafonica. Una composizione meticolosa e metodica di dissonanze, le più ardite, sfocia in armonia imprevista. Occorre farsi pazienti in sguardo e ascolto.
Brullo ama il crudo, così come la sua belva poetica fiuta, brama e azzanna quella dura e palpitante carne viva delle prede che incontra nella propria forsennata corsa nella selva oscura.
ho rincorso il resto fino al decimo mondo dove gli angeli mondati di ali hanno andatura di ghepardo – il desiderio non ha coerenza né corsa e non si instaura l’attesa per pianificare una casa
I suoi versi non di rado si tramutano in prosa per impossibilità di fermare l’eruzione vaticinante in corso – pensate davvero di tappar la bocca ad una Sibilla in estasi? – e anche perché sono un duello dialogico ingaggiato con l’amico Andrea Temperelli, che coadiuva la costruzione del poema Arcadi, prima parte della raccolta. I versi di Brullo sono ora morsi inferti da denti aguzzi, ora preghiere formulate a mani giunte, ossute e affilate. Proprio come quelle che verticalizzano i quadri di El Greco.
accade per separazione – sull’elsa dell’infanzia
quando rompere i bicchieri e dividere i mari
sono la stessa fede – tutto verrà ricomposto
nella fortuna postuma –
l’anello è il punto in cui il corpo si spacca
in mille – “usurare i nomi con l’urto per raggelare
il giusto” – e raccomandò l’indecisione
la sintonia del primo agguato
il re sa che si comanda in ginocchio
quando dirama il pianto e saggia la felicità
da una finestra – è biondo chi passa
senza inganno tra i legami per farne legna
e distribuisce le tegole come parti di mezzogiorno
perché nel gioco d’acqua si tace
La metafisica di Brullo è una metamorfosi senza requie, una preghiera simile ad un mantra buddhista salmodiato da un muezzin, espressa e compiuta tramite una sinestesia così insistita e martellante che può stordire e rendere afasico colui che si avventura nella selva cavalcata dalla sua belva poetica. Personalmente mi sono avventurato, e come non farlo?
D’altronde lo diceva André Gide che «non si scoprono nuove terre senza essere disposti a perdere di vista la costa per un lungo periodo». Ma non eravamo in una selva? Com’è che adesso, parlando di coste abbandonate, sottintendiamo un mare vasto, magari un oceano? Ho detto della sinestesia, ecco, appunto. C’è qualcosa di alchemico nella poesia di Brullo. Visionaria fino al punto della vertigine che ti proietta in mondi paralleli.
speculare alla città la lince passeggia
sul lago ingigantito dal ghiaccio – è regale
sulla creazione contraria
la bestia s’insinua nel santuario come una convinzione
“un’indole più che un idolo – una posa” scrisse –
ha pazienza chi ammazza e la domanda
non si trasmette ai vortici – l’abete conosce
il cerchio – puoi risalire alla simmetria solo
dallo strappo – dal corpo crudo – il resto
è la perfezione prevalente di chi inneggia
metteva una pietra sul perimetro per ricordarsi
che il muro non è acqua – ma questo non basta
al levita che vuole elevare la palma in cifra
e chiama Sant’Agostino il mare
Il suo amato Saint-John Perse così ha detto un giorno: «Alla domanda sempre rivolta: “Perché scrivi?” La risposta del poeta sarà sempre la più breve: “Per vivere meglio”». Ebbene sì, credo che anche per Davide sia così. Frantuma dèi in quanto idoli, erige campanili e minareti che risuonino la voce del poeta-profeta nella selva. Stilita assiso sul ramo più alto di quercia secolare. Come la lince ne fa il proprio habitat. Il poeta dimora là dove il destino ha assegnato ad ogni essere umano di stare. Il poeta per Brullo è il più coraggioso tra i viventi, come gli ha insegnato Iosif Brodskij, primo od ultimo di una lunga schiera. Proprio per questo «il cardinale passeggia con la lince / per deludere ogni idioma di aldilà». Davide Brullo è il devoto al culto pagano della poesia. Se lo lapidate, o lo squartate, non farete altro che rispondere alla sua chiamata. Il poeta è Dioniso.
lavorò il ghiaccio come fosse pietra
per conficcare l’albero – solo così
si insediò nell’infanzia
“quando non c’è più nulla la poesia
salva” disse “come un battesimo
o un incendio?” rispose “so solo
che non si può imporre un tradimento
a chi è travolto dagli inverni e crede
che la vergogna dei morti fiorisca
tra l’orca e l’ombra” riferendosi
ai frati che maneggiavano la parola
“deserto” e i suoi dettagli negli igloo
Qui si leva e dal sottosuolo sopraggiunge Dino Campana, che avverto vibrare nelle corde di Brullo. Orfico è il dire di chi, come lui, è approdato da altra terra sulle rive romagnole, passando dagli aspri sentieri di una Romagna Toscana dove la natura ha la gola fiorita che canta come Orfeo orbato di Euridice. Orfico è il modo in cui il poeta tratta la figura di Dioniso, che secondo il mito di quella religiosità e forma sapienziale greco-arcaica, fu catturato ancora infante dai Titani, quindi smembrato, bollito, arrostito e mangiato. Solo il cuore fu salvato, per provvidenza di Atena, che lo portò ancora palpitante a Zeus. Quest’ultimo, per punizione, folgorò e incenerì i Titani, e, dal resto delle loro ceneri, nacque il genere umano.
È esattamente quel titanico che alberga e sfigura lo spirituale nell’umano, che si approssima a far strame di quanto umano residua nell’animale-uomo. Un titanico che del luciferino. Prometeo dopo Cristo. È esattamente la minaccia intravista da Ernst Jünger, il quale, da combattente dalle molte ferite e dalle molte onorificenze, sprofondato e riemerso dalle trincee della prima guerra mondiale, è conscio che il vero campo di battaglia in cui scagliare l’attacco decisivo è la lingua dell’uomo. Un corpo a corpo con essa deciderà del futuro: se Dioniso si ricomporrà grazie ad Apollo per intercessione di Atena, oppure se i Titani prevarranno, per sempre. Profetizzava Jünger a fine Novecento:
«Con il XXI secolo entreremo in una nuova era dei Titani che sarà caratterizzata dallo sprigionamento di una immane quantità di energia. Penso in primo luogo all’ energia atomica […]. Il pianeta sarà sottoposto a un’accelerazione cui l’umanità dovrà adeguarsi trasformando se stessa. […] Dunque risulterà tanto più importante la figura del Singolo, del grande Solitario, dell’Anarca. Capace di resistere a situazioni difficili per lo spirito, come è quella che sta sopraggiungendo».
È esattamente in questo solco che Davide procede con l’aratro della sua lingua, per questo ruvida e acuminata. Ha da scavare trincee perché la battaglia continui. Perché i brandelli di Dioniso siano raccolti e gelosamente custoditi occorre farsi Anarca. Il poeta è anche Anarca, dunque.
Non è affatto un caso che Lince sia il titolo dato a questa raccolta. Un tempo uno dei maggiori predatori delle foreste europee e siberiane, oggi la lince europea (o eurasiatica) si è quasi estinta in Europa centrale e occidentale. A partire dalla fine dell’Ottocento il suo habitat è stato violentato e ridotto ai minimi termini. Una caccia spietata e vile l’ha decimata. Come alcuni Paesi stanno cercando di reintrodurla in terra europea, così l’azione poetica di Brullo si muove all’insegna della riconquista guerrigliera. Sparute bande si asserragliano su monti boscosi. La resistenza è in atto ogniqualvolta la lingua madre reagisce e parla, fosse anche un urlo ferino.
l’uomo che fu prima di questo
bianco costellato da dita d’addio
è siderale – “per raffinare la morte
mi trascinarono nelle nevi –
elevati al quarto secolo gli avi
crepitano nel lancio e nei denti
‘se sei qui è perché qualcuno ha ucciso
per te’ disse – ma qui dove l’orca
cuce l’Artico al Novecento non esiste
espiazione – c’è la certezza”
anche se il continente è delicato
una morte non ne sottrae un’altra
La preda, il predatore. Sempre a proposito del mito orfico-dionisiaco: sbranare è verbo ricorrente in Brullo, non solo in questa raccolta. C’è una brama di divorare, anzitutto se stessi. C’è un suo verso che mi ha colpito in modo particolare, perché messo in apertura di Cronaca artica, seconda ed intermedia parte della raccolta: «solo la morte giustifica la vita». Sento l’eco di Mishima Yukio e di una scrittura nipponica, da Akutagawa Ryūnosuke a Inoue Yasushi, che ha cercato dai primi del Novecento in poi di tenere in vita l’etica samurai e quel peculiare essere-per-la-morte che non è cupio dissolvi ma amore moltiplicatore di vita.
la spada sembra una biblioteca e il bambino
pone la testa sulla sabbia – nota come un meteorite –
stabilisce dopo il Congo delle congiure un discrimine
tra chi fugge e chi si consacra
E poi, mai dimenticare, noi della stirpe umana, che
ci spinge al freddo un desiderio
di assoluzione e di assoluto
La spada è simbolo caro al poeta che del samurai conosce bene la natura mite e la tempra salda di chi è chiamato a prestare servizio. Tagliente per offesa dei malvagi, tagliente per difesa degli innocenti. Sa che «il bene è marziale», così sentenzia Davide in chiusura della penultima delle Lodi che compongono la terza e conclusiva parte della sua raccolta.
La lince non abita solo la terra d’Eurasia, sempre più per lei desolata, ma la troviamo pure in Canada e America del Sud. Nel deserto africano persino l’hanno avvistata, ma era solo morfologicamente simile. Si tratta di un caracal, per l’esattezza. La lince comunque esplora continenti, si espande, s’insedia.
Un esploratore, artico e nordico proprio come Roald Engelbregt Gravning Amundsen, latino e americano proprio come Jorge Luis Borges che si addentra nella Babele dell’infinito libro scritto dagli umani, mediterraneo e meridiano proprio come il bambino della terza metamorfosi dello spirito annunciata da Zarathustra: questo è il poeta per Brullo. O meglio: questo è Brullo, esploratore nel freddo e crudo dell’umano esistere. Perché vivere è esistere, ex-sistere, dunque c’è un fuori, dunque c’è un dentro. Nello stare fra i due mondi egli si aggira come una lince, indeciso ancora dove stia la sua più degna tana.
Davide Brullo, Lince, pref. di G. Pontiggia, Crocetti Editore, Milano 2022, pp. 108, € 12,00.