recensione a: Mauro Magatti, La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 352, € 25.
Tutto ebbe inizio nell’autunno del 2008, quando scoppiò una gravissima crisi finanziaria, che ormai possiamo definire la più lunga dell’era moderna nella storia dell’Occidente, visto che vi siamo ancora pienamente immersi. In realtà, questa crisi è l’esito di processi di lungo periodo che datano almeno da una cinquantina d’anni. Così ritiene Mauro Magatti, sociologo ed esperto di economia che insegna presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica di Milano.
Allora, correggiamo: tutto ebbe inizio nei primi decenni del secondo dopoguerra, in particolare nel corso degli anni Sessanta, quando, «per la prima volta nella storia, la stragrande maggioranza degli abitanti le società occidentali accede al benessere materiale, alla democrazia politica, al pluralismo culturale.
È l’avvento dell’epoca della libertà di massa», scrive Magatti. Merito del combinato disposto tra il cosiddetto compromesso fordista-welfarista, il consolidamento della legittimità della democrazia, uscita vittoriosa sulle dittature totalitarie di destra e altamente competitiva nei confronti del sistema sovietico, e, infine, il pluralismo innescato dall’accesso generalizzato all’istruzione nonché dall’avvento della cultura di massa veicolata dai media.
In un contesto di libertà così concretizzata e diffusa emerse una «potente domanda di soggettività». E, come scrive ancora Magatti, «quello che è accaduto negli ultimi tre decenni altro non è che il progressivo dispiegarsi di quella domanda». Il «tecno-nichilismo» di cui da qualche anno parla il sociologo della Cattolica ci pare debitrice della lettura che da molti decenni il filosofo Emanuele Severino ha dato della struttura – teoretica e pratico-operativa – fondamentale del nostro tempo. Una razionalità scientifica acceleratasi fino al punto di rovesciarsi nella irrazionalità della volontà di potenza – politica, economica, esistenziale – che punta ad un soddisfacimento immediato ma sempre irresponsabile, e che si è infine tradotto nella grande bolla della speculazione, la cui esplosione recente ha condotto a quella “grande contrazione” che dà, non a caso, il titolo al libro.
C’è molto di fatale, come di un destino tragico, nella secolare storia occidentale contrassegnata dalla lunga marcia della libertà tra gli uomini (e le donne) e le istituzioni. Il ragionamento svolto da Magatti ha il pregio di chiarire in modo inequivocabile la natura appunto tragica della libertà, al contempo fardello e catapulta dell’animo umano. Tanto maggiore il grado di libertà, tanto più grave il peso di ogni scelta, a meno che non ci si voglia spogliare di ogni responsabilità. La soggettività più consona al tecno-nichilismo è infatti di tipo adolescenziale, ripete Magatti. Partendo da presupposti diversi, José Ortega y Gasset lo aveva già colto alla fine degli anni Venti del secolo scorso.
Le società capitalistiche, nelle quali viviamo, non sono però “condannate” alla crescita a seguito del dominio del capitale, come sostiene il marxismo. Sulla scia di Jacques Lacan, Magatti sostiene che il capitalismo non sia altro che la forma storica rivelatasi capace, più di ogni altra, «di assorbire e plasmare la crescente quantità di energia individuale liberata dalla modernità». La natura umana è capace di autotrascendersi tramite il desiderio, che dalla civiltà capitalistica viene oggettivato sia attraverso il denaro sia attraverso il benessere, materiale e immateriale. Come a dire che la crescita è «sempre anche, e fondamentalmente, una questione spirituale». La prospettiva, oggi tanto in voga, della “decrescita” risulta inadeguata, se non fuorviante, rispetto alla necessità di affrontare e dare risposte a quel dinamismo che è l’essenza dell’esperienza dell’uomo libero. Ed è prospettiva più materialistica dello stesso capitalismo sviluppista che intende contestare, osserva sempre Magatti.
Pretendere che l’uomo impari a desiderare meno può essere perfino pericoloso, senz’altro coercitivo, e dunque regressivo rispetto alla modernità e all’epoca dell’esperienza di massa della libertà avviatasi nel secondo dopoguerra. D’altro canto, immaginare di proseguire nell’espansione illimitata è illusione sciocca, oltreché altrettanto pericolosa. I vincoli imposti dalle esigenze energetiche e ambientali, da un generale contesto di crescente scarsità, impongono alla politica un ritorno al protagonismo rispetto all’economia, non più garanzia di razionalità autogestita dopo oltre quarant’anni in cui il desiderio è stato ridotto a godimento.
Strategie politiche diverse si impongono nelle democrazie avanzate. Una politica non disgiunta da un profondo ripensamento antropologico, capace di reintrodurre, nel dibattito pubblico prima, nella legislazione poi, l’idea del limite, ma soprattutto dell’autolimitazione. In altre parole, se siamo liberi dobbiamo anche saper decidere di non fare qualcosa che si potrebbe fare. Altrimenti, ogni pretesa è diritto, e un progressismo orizzontale non tarda molto a rendersi intercambiabile con un liberalismo libertario. È per questo motivo che la proposta teorica di Magatti potrà avere capacità fondative di un pensiero differente e alternativo soltanto se interloquirà, criticamente ma anche in modo sincero e profondo, con posizioni e prospettive coltivate dalla lunga tradizione filosofico-politica del conservatorismo europeo, e non soltanto quello di matrice ed orientamento schiettamente cattolici. Fino a che punto la contrazione è annuncio di un parto imminente? E cosa ne uscirà fuori?