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Il coraggio più grande nella politica italiana: essere riformisti nel paese dei retori della rivoluzione

“Riformisti di tutta Italia, unitevi!”, verrebbe da dire, parafrasando la celebre conclusione del Manifesto del Partito Comunista scritto da Marx ed Engels. Quanto sta prendendo o potrebbe prendere forma con il nuovo governo presieduto da Enrico Letta, e soprattutto il momento politico e sociale in cui ciò avviene, suggeriscono una serie di riflessioni che rimandano alla storia politica e culturale del nostro Paese.

Il riformismo è il sale quotidiano, da versare su ogni pietanza legislativa, per qualsiasi liberaldemocrazia di massa sana e ben funzionante. In Italia, invece, essere riformisti vuol dire sfidare abitudini culturali inveterate a confondere riforma con compromesso, e questo con compromissione e affarismo. Gli ultimi vent’anni di bipolarismo iperpolarizzato, muscolare e diversamente armato, hanno aggravato questo clima invece di educare al pluralismo e all’alternanza. Essere riformisti vuol dire avere un grande coraggio, ed essere i veri rivoluzionari in un paese che della rivoluzione ha fatto una retorica o una rendita, oppure, assai spesso, tutte e due le cose insieme.

Si potrebbe obiettare che dire riformismo vuol dire tutto e niente. Di più: essere riformisti oggi in Italia non è la stessa cosa che esserlo negli anni Quaranta o negli anni Settanta del secolo scorso. Non richiede l’adozione delle stesse politiche, l’introduzione delle stesse modifiche al testo costituzionale, gli stessi interventi in ambito economico e sociale. Vero, ma è proprio il riformismo a possedere la necessaria duttilità, perché qui lo intendo anzitutto come un modus operandi, un metodo di governo degli uomini e della cosa pubblica. Con tanto di stile e di linguaggio annessi e connessi.

Chissà, forse un paese dal cattolicesimo molto istituzionalizzato, e secolarizzato, produce nel tempo e per reazione attitudini diffuse all’estremismo, all’anarchismo politico come a mentalità impolitiche (e antipartitiche) di tipo anarcoide. Pensiamo alla Spagna, a tante sue analogie con l’Italia in tema di religione, cultura e politica. O forse si tratta soltanto di una coincidenza fortuita, o di un mio abbaglio. Più probabilmente nel caso italiano ha pesato, e continua a pesare, una dittatura di mobilitazione di massa, durata vent’anni, e che ha poi avuto la dolorosissima appendice di un biennio di guerra civile. Se del fascismo si può dire qualcosa di certo è che possedeva, come ideologia e come regime, un carattere fortemente populista.

Ha ragione Marco Tarchi (“L’Italia populista”, 2003) nello scrivere che “dopo un abbondante ventennio di predicazione ufficiale di molte delle parole d’ordine del populismo, non ci si può sorprendere se, nel momento in cui il regime fascista crolla, la società italiana è ancora impregnata della mentalità che attraverso di esse ci si è sforzati di diffondere”. E, di conseguenza, non deve sorprendere che molti vecchi e nuovi attori politici sfruttino nell’immediato dopoguerra questa mentalità esistente per raccogliere facili ed immediati consensi di massa, piuttosto che impegnarsi in “un’opera di rieducazione delle masse a valori diversi da quelli che il Ventennio ha trasmesso in lascito”. Ci provarono gli azionisti, con i risultati e le controindicazioni che la storiografia ha da tempo esaminato. Tutti gli altri partiti, in forme e misure anche molto diverse, sfruttarono l’eredità populista lasciata dal fascismo. Il qualunquismo fu solo il più chiassoso e coerente tra loro. Il primo antipartito nella nostra storia repubblicana.

I limiti e i difetti, pur considerevoli e aggravati, del nostro sistema politico e sociale sono paragonabili a quelli dell’Antico Regime francese, monarchico-assolutistico e aristocratico-feudale, di fine Settecento? Se si risponde di sì, automatico invocare la rivoluzione. Se la risposta è no, il riformismo è d’obbligo. Prima, in ogni caso, sarebbe opportuno conoscere bene la storia francese ed europea.

Le rivoluzioni non sono ciò che serve ad un Paese come il nostro, tanto meno nella situazione attuale. Chi ha conosciuto autentiche rivoluzioni, come la Francia dal 1789 in poi, ha dovuto vivere un lunghissimo periodo di instabilità politica e sociale, con gravi costi umani, prima di giungere ad una piena messa a frutto delle conquiste ideali e istituzionali ottenute con la Grande Rottura e la Tabula Rasa. Perché questo significa “rivoluzione”. Dopo la mirabile estate del 1789, la Francia impiegò circa cento anni perché il sistema politico si assestasse, perché si trovasse infine un equilibrio nella forma di Stato e di governo. La Terza Repubblica francese ebbe due crisi, e dalla seconda non si sarebbe ripresa più. Ma furono fattori essenzialmente esogeni e di natura internazionale, come la Grande Guerra e l’espansionismo nazista, a incrinarla prima, distruggerla poi. Per dire che la Terza Repubblica fu sistema politico e costituzionale piuttosto saldo, con basi interne capaci di superare anche l’Affaire Dreyfus, ma realizzato solo dopo l’avvicendamento, spesso cruento, di molti regimi e molte costituzioni.

Non mi parrebbe il caso di aggiungere altra instabilità a quella che già soffriamo da tanti anni, fin troppi. Se però prestiamo attenzione all’uso del linguaggio nella quotidianità politica nazionale, ci accorgiamo facilmente di come si ricorra sovente all’espressione “rivoluzione” ogni volta che si preannuncia una “semplice” riforma legislativa. La quale, peraltro, assai spesso, troppo spesso, non rivoluziona un bel niente. Ma quel che più conta, è che non “rimette in forma” la materia e l’ambito su cui interviene, ma semmai contribuisce a destrutturarlo ulteriormente, se non a disfare quanto di buono era rimasto in piedi di leggi e provvedimenti validi ed efficaci, magari risalenti a molti decenni fa ma non per questo da cestinare come carta straccia. Penso, ad esempio, a quanto si è fatto, e disfatto, nel mondo della scuola e dell’università. Sarebbe “bastato” introdurre a fine anni Novanta una serie di correttivi, di aggiustamenti, in un sistema di istruzione pubblica che non era affatto disastroso e incapace di evolversi in senso competitivo, anche a livello europeo e internazionale. Niente più e niente meno che riforme e riformismo. Ma si preferisce annunciare “rivoluzioni” e, se si parla di riforme, queste devono essere quanto meno “strutturali”. Finendo così per compiere ulteriori destrutturazioni nel mentre si preservano corporativismi d’antan nascosti dal clamore degli annunciati grandi cambiamenti.

Di populismi, di destra e di sinistra, rischia di morire la nostra democrazia repubblicana, che ha un buon impianto socialdemocratico ma ha faticato non poco ad essere più liberale, e lo è persino un po’ di meno dopo vent’anni di presenza, e circa un decennio di governo, di un centro-destra guidato da un leader che aveva promesso nel 1994 la “rivoluzione liberale”. Berlusconi deve ancora dimostrare di essere davvero il padre di una destra liberale che in Italia manca sin dall’epoca prefascista e si è definitivamente estinta politicamente con la fine della presidenza di Luigi Einaudi (1955). Per dimostrarlo e dare solidità al nuovo governo di “larghe intese” e “di servizio” al Paese, dovrà far tacere i protagonismi gridati, compreso il suo, che potrebbero emergere dall’interno del Pdl e che presentano molti tratti di populismo e pochi di liberalismo. Anzitutto nello stile e nei toni della comunicazione pubblica, che è parte della sostanza di un vero atteggiamento politico-culturale liberale. Il berlusconismo dovrebbe passare dal populismo di destra ad un liberalismo popolare. Possibile dopo vent’anni? Con la Lega all’opposizione e il Pdl al governo qualche chance in più esiste, ma il percorso appare tutt’altro che facile e scontato.

Dal canto suo, Letta avrà il compito, anch’esso non facile, di ricondurre il gruppo parlamentare Pd al senso e al gusto del fare politica, che è mediazione in vista di obiettivi alti di riforma, istituzionale ed economica. Le ultime settimane hanno mostrato come tra non pochi parlamentari e militanti Pd vi sia una certa sudditanza psicologica nei confronti di temi e slogan agitati dal Movimento 5 Stelle. È forse l’antica sirena di una cultura di contestazione e opposizione che rimprovera all’esistente di non essere quello che è, ossia un contesto storico, politico e sociale inevitabilmente attraversato da interessi concorrenti e condizionato da rapporti di forza. Agire politicamente da riformisti significa cercare di dare risposte concrete e soluzioni praticabili che sappiano far convivere pacificamente e magari anche proficuamente quegli interessi in concorrenza e mutare quei rapporti di forza, diminuendone le eventuali sproporzioni foriere di conflitti senza giungere a rotture che siano, a loro volta, foriere di divisioni, e ricadere così, in altro modo, nel conflitto. Un conto è la competizione aspra, un conto il conflitto. Questo sa il riformista, socialdemocratico o liberaldemocratico che sia.

Le elezioni europee del prossimo anno potrebbero far saltare il banco delle “larghe intese” già a fine anno. I partiti desiderosi di successi elettorali, sempre più vittorie di Pirro se conseguite come negli ultimi due decenni, siano però finalmente consapevoli di quanto segue. La crisi di fiducia degli italiani nei confronti dei partiti e dello stesso Parlamento è giunta a livelli di guardia. Già un sondaggio del dicembre 2011 rilevava che meno del 4% della popolazione confidava nei partiti e poco più dell’8% nel Parlamento. Pur non volendo credere ai sondaggi, i risultati delle elezioni politiche dello scorso febbraio, con milioni e milioni di voti persi dai maggiori partiti della Seconda Repubblica, e con i circa 8 milioni e 700 mila voti raccolti dal Movimento 5 Stelle, e presi in parte considerevole tra l’astensionismo delle precedenti elezioni politiche del 2008, sono dimostrazione sufficiente che la crisi di fiducia esiste ed è profonda. Può ulteriormente allargarsi.

D’altro canto, la risposta ai deficit dell’attuale sistema politico e partitico non può venire dalla “iperdemocrazia” digitale di Grillo e dei 5 Stelle. Ad indicare Stefano Rodotà come candidato al Quirinale per il M5S sono stati 4.677 votanti via web su un totale di 28.518. Davvero pochi per qualificare come “democratica”, cioè rispecchiante il “demos” (il popolo), la partecipazione grillina e presentare un Rodotà come il “presidente degli italiani”, contrapposto ad un Napolitano che sarebbe invece il presidente dell’“inciucio”.

Adesso è l’ora di Letta. Ha ben detto Beppe Severgnini: “Affidarsi a un uomo che dissente dall’avversario, ma non lo odia, è un segno di realismo: merce rara, in Italia”. E il riformismo, com’è sinteticamente da me qui inteso, non può mai esser privo di robuste dosi di realismo. La scelta di Napolitano va perciò doppiamente apprezzata. E al tentativo di un “governo di servizio” va dato credito e sostegno perché così sia ed operi nei prossimi mesi.

Questo nuovo governo nasce al suono della campana dell’ultimo round di fiducia cittadina nei partiti. Staremo a vedere se ci mostrerà un ring dove finalmente scenderanno uomini e donne con tutti i requisiti utili alla bisogna. Perché dietro una buona politica ci sono sempre donne e uomini di buona e ferrea volontà e duttile intelligenza. Sperare che, come auspicato da Napolitano, i giornalisti svolgano il proprio mestiere con senso della misura e amore della verità, è in molti casi inutile. Diversi organi di informazione sono a loro volta giornali-partito e veri e propri gruppi di pressione politica, quanto mai faziosi, sempre guastatori di ogni progetto organico e di lungo periodo. Si vende con gli scandali, veri o presunti; questa è l’odierna legge ferrea del mondo dell’“informazione”, che poi “in forma” non vuol mettere un bel niente. E c’è inoltre lo “spirito del tempo”, che è incendiario. Troppi piromani incalliti tra i giornalisti e tra chi ama prendere la parola e farsi “portavoce” della “gente”.

Pertanto sarà molto difficile registrare un ampio e solido consenso, mediatico e culturale, al riformismo. Bisognerà, prima o poi, che i riformisti avviino una “rivoluzione”, questa sì davvero necessaria, in termini di cultura politica. Ma, per il momento, voi politici della maggioranza governativa dovrete agire nel marasma delle mode populiste e antipartitiche. Contate su di voi e date prova di vera leadership, coraggiosa, responsabile e lungimirante, dentro e fuori le istituzioni e i rispettivi partiti, in clima di legittimazione reciproca. Paga molto di più, e assai più a lungo, di qualsiasi vitalizio.