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Mussolini e la città

Recensione a: Danilo Breschi, Mussolini e la città. Il fascismo tra antiurbanesimo e modernità, Luni Editrice, Milano 2018, pp. 576, € 28.

di Alessandro Catelani (Università di Siena)

Il nuovo libro di Danilo Breschi tratta un argomento originalissimo, che riguarda le vicissitudini dell’urbanistica e dell’architettura italiane, quali si sono configurate per effetto dell’ideologia vigente in quell’epoca particolare che fu l’entre-deux-guerres. Si prende al riguardo in considerazione il pensiero di Mussolini, che le ha integralmente condizionate.
È di grande interesse l’esame delle classi sociali dell’epoca, le quali erano sicuramente diverse, come mentalità e come modo di vita, da quelle attuali. Massimo Severo Giannini ha parlato, per il vecchio Stato liberale, di Stato monoclasse, adottando una definizione di tipo marxista, che si basa su una frontale contrapposizione tra la borghesia e le altre classi sociali. Tale definizione ha avuto grandissimo successo, ed è quasi universalmente accettata dai giuristi. Ma in realtà lo Stato liberale riconosceva i diritti della personalità a chiunque. E le restrizioni censuarie al diritto di voto, e la negazione del voto alle donne, erano limitazioni comuni a tutti gli Stati dell’epoca, ed erano destinate a scomparire con il passare del tempo. La diversità tra le classi esisteva invece indubbiamente da un punto di vista sociologico; ed al riguardo il quadro era indubbiamente più articolato e complesso. È nei confronti di queste classi sociali che si orientò la politica del regime. Mussolini cercò, come qualunque altro dittatore che intenda andare al potere, di procurarsi il consenso di tutti i vari strati della popolazione. Da ciò la presenza di soluzioni non univoche per i problemi urbanistici, che hanno cercato di conciliare un’idealizzata vita dei campi con l’inarrestabile sviluppo delle città.
Come viene sottolineato nel libro, vi è una dicotomia nella sua ideologia: da un lato una sensibilità verso i problemi più vivi e recenti della società, quali quelli del mondo operaio e dello sviluppo industriale, che portavano necessariamente ad uno sviluppo delle città, dall’altro una simpatia ormai anacronistica per l’ambiente rurale e contadino, che non avrebbe dovuto essere contaminato dal mondo, considerato corrotto, delle città. La percezione del significato della civiltà moderna è in lui sempre andata di pari passo con il mito di Roma, e con una politica di sviluppo economico che voleva ricordare quello dell’antichità. Così la battaglia del grano e la lotta all’urbanizzazione, considerata con sfavore. Si cercò di conciliare queste due opposte tendenze, avendo anche sempre presente l’esaltazione del regime attraverso opere monumentali.
Il riferimento alla campagna è scivolato sempre di più verso una concezione arcaica della stirpe e verso un razzismo, che poi è culminato nell’adesione totale ad una politica imperialista, e alla guerra che ne ha provocato la caduta. Elementi di modernità si sono sempre cumulati con altri aspetti di una mentalità antiquata ed arcaica, che ha finito per prevalere, provocandone la rovina. Il mito di Roma imperiale e quello delle colonie hanno fatto ignorare gli sviluppi più recenti dell’economia e del progresso. Se inizialmente Mussolini ammirava gli Stati Uniti ed il loro sviluppo economico, ha finito per dare la prevalenza alle idee più negatrici della civiltà moderna.
Il mito del passato, filtrato attraverso un Illuminismo che esaltava la vita dei campi come la massima aspirazione dell’umanità, e condannava il commercio e ogni sviluppo economico come la fonte prima della corruzione della stirpe, ha portato al prevalere di una concezione che disconosceva il significato ed i valori della società contemporanea. Mussolini entrò in guerra con gli Stati Uniti senza comprendere minimamente il significato di quella potenza, e compiendo un errore storico di proporzioni colossali, quale è difficile trovare in altre pagine della storia dell’umanità; errore tanto più grave, in quanto la prima Guerra mondiale era stata perduta dagli Imperi centrali per l’intervento degli Stati Uniti, proprio quando i primi parevano essere prossimi a vincerla. Ed inoltre per il fatto che la crisi del Ventinove aveva mostrato al mondo come l’economia del pianeta dipendesse ormai integralmente dalla nuova potenza d’oltre oceano.
Del mondo anglosassone si conosceva soltanto l’Inghilterra, e per di più solo nei suoi aspetti più vieti e superati di potenza militare e coloniale. Delle due componenti del fascismo, quella che si basava sulle innovazioni e sulle istanze più moderne, e quelle ereditate da un passato dal quale non si riusciva a sfuggire, alla fine sono prevalse quelle più anacronistiche e più aberranti di razzismo e di imperialismo, fatte valere in maniere abnorme in un mondo ormai cambiato.
Le istanze più contrapposte e più antitetiche si sono dunque presentate durante il regime, con effetti determinanti anche sulla configurazione delle città. Il finanziamento delle opere pubbliche e l’intervento nell’economia lo hanno avvicinato allo Stato sociale moderno, ad uno statalismo che già trovava la sua più integrale espressione nel bolscevico Stato marxista. E questi interventi sono andati di pari passo con una costante esaltazione e valorizzazione della vita dei campi.
Nel libro innumerevoli fonti sono esaminate, fornendo un quadro complessivo della materia in tutte le sue sfumature. La vastità della documentazione esaminata, e la finezza dell’analisi, ne fanno un’opera che sicuramente è riuscita a cogliere delle vicende storiche del passato regime alcune caratteristiche della massima rilevanza.

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