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Le promesse non mantenute del 1861, secondo Vivarelli: la mancata educazione italiana al realismo

Circa trent’anni fa Norberto Bobbio ci aveva illuminato su quelle che erano, a suo avviso, le principali “promesse non mantenute” della democrazia. Non si occupava soltanto dell’Italia, anche se è indubbio che lo sguardo del filosofo torinese si concentrasse su molti nodi irrisolti del nostro sistema politico-costituzionale e sociale. In occasione del 150° anniversario dell’Unità, da molte parti si è tentato un bilancio della storia dello Stato italiano; si è cercato di capire quali fossero le promesse contenute nella fatidica data del 1861, anno della proclamazione del regno d’Italia, e dell’unificazione politica di gran parte della penisola.

Tra chi si è cimentato in questa impresa merita particolare attenzione il giudizio di Roberto Vivarelli, da almeno cinque decenni originale indagatore della storia d’Italia, soprattutto interessato ai tornanti più delicati della prima metà del Novecento, dalla crisi di fine secolo alla guerra civile del 1943-45, passando per il fascismo. Il punto di partenza è per Vivarelli indiscutibilmente positivo e si riassume nel fatto che “l’Italia unita nasce come uno stato liberale, cioè retto da libere istituzioni e in quanto tale aperto alla democrazia”. Così afferma perentorio nella premessa al volumetto appena edito dal Mulino, che raccoglie due autentiche “lezioni” magistrali tenute rispettivamente a Roma nel novembre 2010 e a Napoli nell’aprile 2011.

L’esordio fu promettente: emancipazione e promozione degli italiani da sudditi a cittadini, o meglio, a “quasi-cittadini”, aggiungo io, visto che comunque lo Statuto albertino, carta costituzionale piemontese concessa dall’alto dal re Carlo Alberto ed estesa alla penisola, preferiva parlare di “regnicoli” (vedi art. 24) senza che vi fosse articolo che attribuisse la qualifica di “cittadini”. Qualifica troppo francese, troppo rivoluzionaria. Comunque, stante l’esordio, come mai si poté giungere al fascismo? È sufficiente spiegare questa resa totale delle istituzioni dello Stato liberale dando tutta la responsabilità agli effetti della prima guerra mondiale, rivoluzione bolscevica inclusa?

Evidentemente no, per Vivarelli. E ha argomenti pungenti al suo arco per sostenerlo. Altrimenti, tiene subito a precisare, non si spiegherebbe come, attualmente, gli italiani fatichino a riconoscersi cittadini “liberi nell’esercizio dei loro diritti, oggi tutt’altro che garantiti, e liberi dall’arbitrio dei pubblici poteri”. Se una nazione moderna corrisponde ad una comunità di cittadini, ebbene, l’Italia è ancora lungi dall’esserlo, sostiene lo storico senese. Dietro e sotto le pubbliche istituzioni vi è piuttosto, ieri come oggi, nonostante la liberazione dal fascismo e l’avvento della repubblica democratica, la macrostruttura di un ordine corporativo, ossia una società chiusa, “divisa in un largo numero di fazioni, forme associative di natura diversa, dalla famiglia alle lobbies, dagli ordini professionali ai sindacati e ai partiti, ciascuna volta alla difesa dei propri interessi particolari e perciò incapace, poco importa se per ingenuità o per malizia, di allargare il proprio orizzonte e riconoscere, insieme, i diritti altrui e le prioritarie esigenze di un interesse generale”.

L’origine di un simile problema è riassumibile in un errore compiuto dalla classe dirigente italiana post-1870 e dalla cultura che risultò predominante a cavallo tra anni Settanta e Novanta dell’Ottocento. Questo errore consistette nel pensare il Risorgimento come un irreversibili punto di arrivo, mentre era solo, più modestamente, un punto di partenza. Fare gli italiani era davvero il compito improcrastinabile che andava portato avanti con una paziente, costante opera di educazione morale e intellettuale, come ebbe a dire Francesco De Sanctis. Così scriveva l’autore della Storia della letteratura italiana, il 4 gennaio 1878: “Produrre e disciplinare la forza, apparecchiare gl’istrumenti della mente, disporre all’opera più che al fantasticare, questo è lavoro lento, modesto, ma solo atto a rendere un popolo grande e rispettato”. Solo così i cittadini italiani avrebbero appreso dai loro governanti che “il realismo è il grande educatore dell’ideale”.

Andavano investite le già scarse risorse umane e materiali per un vasto e audace programma di riforme in politica interna, piuttosto che inseguire sogni di gloria all’estero, per diventare in quattro e quattr’otto una potenza di livello internazionale al pari di Inghilterra, Francia e Germania. Quest’ultima illuse l’Italia di poter passare rapidamente dal piccolo e gracile al grande e robusto. La guerra franco-prussiana stupì e suscitò ammirazione e invidia a giro per l’Europa. Forse sorgemmo troppo tardi come Stato unitario, quando il tempo della costruzione e consolidamento delle libere istituzioni, un tempo necessariamente lento e di pace, era già prossimo a scadere. Ma possiamo anche ammettere che errore, e grave, di scelta ci fu, e condividere questo giudizio storico facendo così uso di quel senno del poi che Vivarelli reputa “un’arma lecita a ogni studio di storia”, lecita soprattutto, aggiungo io, se i fini sono, come in questo caso, di scuotere e svegliare l’etica pubblica nostrana, a dir poco dormiente.

D’altronde, Vivarelli ci ricorda quanti all’epoca furono una “vox clamantis in deserto”, senz’altro, ma pure una potenziale alternativa, se solo liberisti e socialisti di fine Ottocento avessero potuto prevedere a cosa avrebbe condotto la loro contrapposizione frontale. Da Stefano Jacini a Giustino Fortunato, da Francesco De Sanctis ad Antonio De Viti de Marco, fino a Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini. Un’ipotesi di alleanza che, in questo caso, Vivarelli davvero fonda su quei “se” e quei “ma” con cui non si fa alcuna storia, ed egli lo sa bene e lo ammette. Diverse e inconciliabili erano le rispettive idee di nazione.

Anzi: un gruppo, i cosiddetti liberisti del “Giornale degli Economisti”, ma anche della “Riforma Sociale”, che credevano nella nazione come comunità di cittadini. I socialisti, adottando il marxismo, e marginalizzando mazzinianesimo e garibaldinismo, non credevano nemmeno più in una nazione ma nella classe, transfrontaliera e cosmopolita. I liberali governativi avrebbero potuto essere, per i liberisti, interlocutori utili per formare un blocco politico e sociale a sostegno delle istituzioni rappresentative. Purtroppo, tra campagna di Libia e Grande Guerra, molti liberali andarono in direzione dei nazionalisti e affini, finendo per condividere un’idea di nazione come comunità di credenti. Al primo tipo di nazione corrisponde uno Stato costituzionale e, in prospettiva, democratico, al secondo tipo si addice invece uno Stato etico, infine totalitario.

La ricostruzione storica operata da Vivarelli in queste due lezioni, necessariamente sintetica, non indica tracce di uscita da un’impasse che nemmeno la Repubblica ha superato. Non intende farlo. Non saprebbe nemmeno come farlo, anche volendo. Nel delineare però due punti deboli sui quali prospera l’imperante ordine corporativo italico per auto-riprodursi ed espandersi, Vivarelli segnala indirettamente ambiti su cui potrebbe valere la pena tornare ad investire risorse “patriottiche” liberali e radicali. Questi due ambiti sono la pubblica opinione ed il sistema educativo.

Vivarelli condivide il credo della sua generazione, immediatamente postbellica, uscita anche faticosamente dal fascismo imparato da bambini a famiglia e a scuola: la forza delle idee, la convinzione “che modificando con la ragione il modo di pensare, si potesse aprire la strada al cambiamento”. Questa è “la via maestra di ogni riformismo”, proclama perentorio Vivarelli. Ed ecco che allora lottare per ottenere una libera circolazione delle idee è una assoluta priorità. Ma, ancor di più e ancor prima, c’è da rieducare la pubblica opinione ad essere libera, ovvero disponibile a discutere con chi abbia idee diverse dalle proprie; da considerare un avversario, al più, mai un nemico. Ciò però significa abitudine all’esercizio critico (e autocritico) della ragione. Abitudine ad argomentare e contro-argomentare, ma anche a rivedere le proprie opinioni sulla base della eventuale validità delle confutazioni altrui. Non si contesta, si ignora, qui in Italia. E poi, prosegue Vivarelli, la pubblica opinione è da noi sotto controllo corporativo, come dimostrerebbero ruolo e peso dell’ordine dei giornalisti.

E, infine, vi è “lo stato disastroso del nostro sistema educativo”, la cui radice “risale allo sfascio dell’insegnamento universitario”. E, dunque, conclude amaro Vivarelli, “se l’opinione pubblica è votata al conformismo, se i giovani sono preda dell’ignoranza, come aspettarsi una libera circolazione delle idee?”. Forse provando, nel piccolo, a contrastare con le proprie opere e parole quello stesso conformismo, quella stessa ignoranza. A bucare il muro di gomma. Roba da Spider-Man e X–Men. Peggio, da Sisifo, condannato al vano e all’assurdo. Fumetti o mitologia, insomma, sembra proprio non ci sia altro da fare che rievocare la fantasia al (contro)potere. Per tornare al realismo di De Sanctis.