Qualche considerazione sul primo turno delle elezioni comunali del 5 giugno 2016. Test elettorale non di secondo piano, se teniamo conto che in ballo vi erano, e vi sono ancora per i tanti ballottaggi, 1342 cariche di sindaco, e che vi sono coinvolte città come Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Cagliari e Trieste, assieme a molti altri centri urbani importanti. Circa 13 milioni di cittadini italiani sono stati chiamati al voto, e l’affluenza alle urne, alla luce delle tendenze degli ultimi tre anni, sono state complessivamente superiori alle aspettative, con la significativa eccezione di Milano, assestandosi su un 62,14% su scala nazionale. Ovviamente ci sono situazioni locali del tutto peculiari, dove il singolo candidato può giocare assai più degli equilibri e delle logiche politiche valide a livello nazionale. Napoli, con il sindaco uscente Luigi De Magistris, rientra in questa tipologia. Premesso questo, merita dunque svolgere qualche rapida riflessione sui risultati del primo turno.
Prima considerazione. A quasi tre anni e mezzo dalle ultime elezioni politiche nazionali si conferma l’assetto tripolare del sistema partitico italiano. La novità più rilevante è che di questi tre poli il centrodestra è il più in sofferenza. A dispetto di quanto asserito dai suoi esponenti, ciò non è dovuto in primo luogo alle spaccature che presenta al suo interno. È evidente che presentarsi divisi a Roma abbia nuociuto così come presentarsi uniti a Milano abbia giovato, ma l’indicazione è un’altra. Nonostante quel che dicono le vulgate giornalistiche e pseudo-politologiche, la forma-partito continua a restare cruciale per qualsiasi competizione elettorale. Ovviamente aggiornato all’epoca del digitale e del disincanto ideologico, il partito è lo strumento indispensabile per fare politica, comunicare la propria presenza e le proprie idee. Che le cose stiano così lo dimostrano in negativo il centrodestra e in positivo i Cinque Stelle. Nei tre anni e mezzo trascorsi dalle ultime politiche, l’uno ha perseverato nella decisione di restare un movimento personale e personalistico, incentrato su un leader (ex) carismatico, gli altri, invece, si sono adoperati per mettere a frutto l’exploit elettorale del febbraio 2013. A dispetto dell’intestazione, i Cinque Stelle da movimento sono diventati un partito, con tanto di direttorio e strutture sempre più presenti sul territorio. Non è casuale il passaggio in secondo piano di Beppe Grillo, postosi a ruolo di “padre nobile” di un soggetto politico che ha creato, battezzato e infine lasciato salpare come figlio divenuto maggiorenne.
In politica, specie quella odierna, chi si ferma è perduto. Renzi lo ha capito perfettamente. E così, in contemporanea all’immobilità politicamente cadaverica di Berlusconi, i Cinque Stelle hanno riempito il vuoto lasciato da chi, formalmente, avrebbe dovuto costituire l’opposizione al Pd, ma che tra un Nazareno sì e un Nazareno no, ha finito col perdere ogni riconoscibilità e credibilità. Nel tripolarismo di fondo che connota attualmente l’offerta partitica nostrana si è pertanto configurato un sostanziale dualismo tra chi rappresenta il governo e l’“establishment” e chi l’opposizione ad essi. Non è detto però siano i soli Cinque Stelle ad impersonare l’alternativa antigovernativa. Dal canto suo, Renzi auspica uno slittamento del centro cosiddetto “moderato” verso un approdo nel Pd, avendo i Cinque Stelle il quasi monopolio della protesta, fatte salve alcune zone del Paese dove la Lega conserverebbe una tale esclusiva, anche se senza alleanza con il centrodestra non è in grado di vincere da nessuna parte. In tal senso sarà interessante vedere il risultato del ballottaggio di Milano, vedere cosa sceglierà infine la borghesia milanese tra Sala e Parisi, due versioni di quel che un tempo fu chiamato il “moderatismo” italico. In molti comuni l’alternativa al Pd resta comunque il centrodestra. Questo elettorato conferma la propria refrattarietà ad uno spostamento a sinistra, si tratti pure del Pd renziano, il quale, a propria volta, perde a sinistra (ora a vantaggio del M5S ora dell’astensionismo; poco o nulla guadagnano Si e Sel).
Altrettanto difficile è infine trarre qualche previsione circa l’esito referendario del prossimo autunno alla luce dei risultati di queste elezioni comunali. In primo luogo, perché non abbiamo ancora alcun risultato certo, essendo tutti i maggiori comuni andati al ballottaggio (a conferma della natura oramai tripolare del sistema partitico italiano, che evidentemente rende quasi impossibili vittorie al primo turno). In secondo luogo, perché un conto sono le elezioni amministrative un conto un referendum propositivo su tematiche costituzionali. Un dato che pare suggerirci questa tornata elettorale è che l’elettorato, o almeno una parte cospicua di esso, si muove diversamente a seconda del tipo di votazione alla quale è chiamato. Di primo acchito, verrebbe da dire che il fronte del “No” al referendum sia assai più consistente di quello del “Sì”, potendo vantare il sostegno di tutte quelle forze politiche che non sono il Pd. Eppure in politica è quasi regola ferrea che 2+2 non faccia quattro, e le unioni non motivate e dunque non ben omogeneizzate risultano spesso incomprensibili se non poco appetibili sul piano elettorale. Se ben pensate e organizzate possono anche dare cinque, se male amalgamate danno tre o due. Su questo Renzi lavorerà, soprattutto per trascinare anche sul referendum quell’elettorato centrista che ancora è ben presente nella società italiana. Il referendum sarà per lui un test anche sotto questo profilo: completare o meno il traghettamento del Pd verso il centro e dei moderati verso il Pd. Avere i Cinque Stelle come avversari , così come avere ancora Berlusconi padre-padrone del centrodestra che fu, potrebbe favorire questo slittamento. Ma quattro mesi sono lunghi e innumerevoli i fattori intervenienti da qui all’autunno. Le previsioni si addicono più ai meteorologi che ai politologi. Ed è tutto dire.