Il segnale d’allarme viene dall’intensificarsi della frequenza con cui il Presidente Napolitano sta rilasciando dichiarazioni pubbliche, più o meno ufficiali, a sostanziale sostegno dell’attuale governo, mettendo tutti in guardia che “o il governo regge o abbiamo il salto nel buio”. Non c’è alternativa. Questo indubbio incremento, anche in termini di toni sempre più preoccupati, dei messaggi presidenziali è dovuto a due fattori. Il primo, ormai noto da qualche settimana, è che le condizioni fisiche del Presidente della Repubblica sono tali da rendere con molta probabilità assai prossime le sue dimissioni. E vorrebbe perciò riuscire ad andarvi senza dover ritrovarsi l’ennesimo governo sfiduciato. Il secondo fattore è proprio legato alla stabilità del governo. Sempre più precaria. Gli scricchiolii si fanno sentire nonostante Renzi cerchi di sovrapporvi il frastuono delle sue quotidiane dichiarazioni di ottimismo della volontà.
Il problema è uno: la politica è l’arte del possibile, ma in regime democratico-costituzionale, dunque rappresentativo ed elettivo, e tanto più con forma nettamente parlamentare, la politica è anche questione di maggioranze, dunque di numeri. E i numeri a Renzi mancano, almeno in termini di piena sicurezza. Cioè sono risicati. Al Senato più che mai. La politica è rapporti di forza, anzi di forze, tra forze. E queste forze si muovono, giorno dopo giorno. Avanzano, arretrano. Diamone un resoconto in data odierna, 18 dicembre 2014. Renzi anzitutto sconta un peccato originale, che come quello biblico non si emenda facilmente: non è stato investito dal suffragio popolare, e la sua maggioranza è la stessa che ha fatto naufragare Bersani ancor prima dell’approdo, cioè della formazione di un governo, e gli ha consentito di sfilare a Letta la presidenza del Consiglio. Era debole Letta, si sta rivelando debole Renzi. Non tanto lui in quanto leader, senz’altro volitivo e determinato, almeno a parole.
È la maggioranza che gli manca, tanto più che quella di cui gode alla Camera è data da una deputazione PD eletta nelle “parlementarie” del tardo dicembre 2012, all’epoca della segreteria Bersani che aveva recentemente trionfato alle primarie proprio contro Renzi (60 a 40, punti percentuali, e non è proprio cosa da poco). Dunque, anche se la cadrega, o meglio il seggio, val bene una messa, ossia una conversione dal bersanismo al renzismo, è evidente che la fedeltà dei deputati all’attuale governo è puramente strumentale e dipende dallo stato di consenso che questo nel Paese raccoglie. Anche solo dalla percezione di consenso. La minoranza in PD può poco alla Camera, ma non così poco nelle commissioni, come si è visto anche la settimana scorsa su alcuni emendamenti al disegno di legge in materia elettorale. E non è inconsistente al Senato.
Passiamo a Forza Italia, che ha una pattuglia consistente sia in Camera che Senato. La mossa vincente iniziale di Renzi, quella con cui ha potuto scalzare Letta, è stata il cosiddetto Patto del Nazareno, ossia l’aver teso la mano a Berlusconi sul tema delle riforme costituzionali, quelle dichiarate urgenti da almeno trent’anni e mai portate a termine. Il negare ogni collaborazione col nemico B. aveva invece contraddistinto da sempre la posizione politica del PD, fin dalla sua nascita, e si era acuita alla vigilia delle elezioni del febbraio 2013 e aveva appunto portato in Parlamento una folta deputazione fieramente e accesamente antiberlusconiana. Semmai più simpatizzante con tante delle ragioni e delle passioni del Movimento 5 Stelle. Il Patto del Nazareno è stata la chiave di volta su cui Renzi ha finora costruito una navigazione sufficientemente stabile, minimamente stabile, fino ad oggi. Complice la debolezza di Berlusconi, sostanzialmente interessato, anche per obiettivi personali, di azienda, e politici, soprattutto di nomina del nuovo inquilino del Quirinale, a trovare un accordo con Renzi, esponente di una sinistra non comunista e addirittura anti-sindacalista. Ma la debolezza di Berlusconi si è aggravata, stavolta all’interno del suo stesso partito, e questa è una novità importante e recente. La causa è la repentina ascesa di Salvini in termini di consensi all’interno dell’alveo elettorale di centrodestra. E si tratta, con molta probabilità, dell’alveo più ampio, in termini di voti, che c’è in Italia, al netto dell’astensionismo. Se quest’ultimo cresce, continuerà sempre a contare chi vota e andrà a votare. Quanto da poco successo alle elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria dovrebbe insegnare. Bonaccini e Oliverio governano e governeranno. Con maggiore attenzione, magari, il che non è certo un male, ma governeranno. E limitiamoci ai recenti esempi nostrani, senza scomodare gli innumerevoli casi offerti dal panorama delle democrazie di mezzo mondo, funzionanti con tassi di affluenza alle urne assai bassi.
La crescita di consensi della Lega Nord ha creato, e sempre più creerà, tensioni forti dentro Forza Italia. Il Patto del Nazareno, assieme all’esplodere delle contraddizioni interne ad un movimento infine estemporaneo e inesperto come quello di Grillo, ha lasciato scoperto lo spazio dell’opposizione chiara e netta al governo. Salvini non ha perso tempo e ha incarnato le vesti, o le felpe, dell’Oppositore. Il deuteragonista, o meglio l’Antagonista all’Uomo solo al comando. La politica è questione di spazio e di tempo, o tempistica. Occupazione di spazi, e chi prima arriva meglio alloggia. I vuoti vengono riempiti e la politica ricorda sia la fisica sia la strategia militare, con il sottoinsieme della tattica. È su questa, la tattica, che ancora Renzi può provare a rimettere un po’ di calcina tra le pareti crepate della sua maggioranza. Il pressing sui dissidenti a Cinque Stelle ha questa finalità: colmare i vuoti provocati dalla minoranza PD, quella antirenziana. Ma l’exploit di Salvini, accelerato da due temi tornati alla ribalta come l’immigrazione e il consociativismo, quest’ultimo evidenziato dalle inchieste di “Mafia Capitale”, rende una consistente parte della deputazione di Forza Italia sensibile alla sirena dell’opposizione senza se e senza ma, e dunque alla rottura del Patto del Nazareno.
Il ragionamento forzista è molto semplice, tutto strumentale e opportunistico, dunque politico: se continuiamo a dare spago a Renzi sostenendolo (e non solo sulle riforme, vedi ad esempio il caso del voto di sfiducia al ministro Alfano), rischiamo di ritrovarci nel 2017 o 2018 con il 5% di voti, se va bene. Questo il ragionamento che con ogni probabilità si sta insinuando tra le file del partito di Berlusconi. Giurare sul fatto che Forza Italia continui a lungo a non voler sentir parlare di elezioni anticipate diventa una scommessa sempre più rischiosa man mano che passano le settimane. In termini elettorali, un’alleanza elettorale tra Lega Nord e Forza Italia sul modello di quella del 1994 tra FI e MSI-AN, in cui sostanzialmente ci si dividono le aree di forza, tra Nord e Sud, non dovrebbe lasciare troppo sereno Renzi. Soprattutto perché Salvini si sta muovendo, a dispetto di quel che afferma la maggior parte degli osservatori, per catturare gran parte di quel voto cosiddetto “moderato” che Renzi ha indubbiamente catturato nel maggio scorso nelle elezioni europee, portando il PD al 40,8%. Il dinamismo leghista sta insomma spingendo Forza Italia verso l’uscita dal Patto del Nazareno. Tra parentesi, il recente scandalo capitolino ha ridato fiato al movimento di Grillo e ricompattato più di quanto si possa pensare la rappresentanza grillina in Parlamento. Dunque, la situazione si sta per riconfigurare come quella all’indomani del voto del febbraio 2013. Lo è sempre stata per numeri, al di là della scissione in FI e della nascita del NCD filogovernativo, ma adesso sta tornando anche quel clima di veti incrociati fra tre forze quasi equipollenti.
Due sono gli ostacoli che stanno tenendo in sospeso il governo Renzi e l’intera situazione politica italiana: le imminenti elezioni del Presidente della Repubblica e l’assenza di una legge elettorale che rassicuri almeno uno dei contendenti. Questi sono i veri nodi su cui dovremo concentrare l’attenzione nelle prossime settimane, e dal loro sciogliersi, o meglio dal modo in cui andranno a sciogliersi, o maggiormente intricarsi, capiremo il futuro del governo Renzi. Ma le quotazioni relative ad una sua caduta crescono di giorno in giorno. Questione di tempo. E a chi dice che “dopo Renzi il diluvio”, ricordo cosa accadde ventidue anni fa, nel frangente, altrettanto drammatico, forse di più, della crisi statuale, dell’intero assetto istituzionale, che si aprì all’indomani della fine del pentapartito. Tra 1992 e 1993: Tangentopoli, scomparsa repentina e senza appello di quasi tutti i partiti-pilastro della Repubblica (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI), attentati mafiosi con l’assassinio di Falcone e Borsellino, strage di via dei Georgofili, e su tutto quell’autunno nero del ’92 in cui fummo, come Paese, sull’orlo della bancarotta, dell’insolvenza e di una crisi finanziaria con attacco alla lira che, forse anche l’assenza dell’euro, consentì al governo Amato di fronteggiare a prezzo di una manovra correttiva da 30mila miliardi delle vecchie lire, con tanto di patrimoniale del 6 per mille sui depositi bancari e postali. Era il 10 luglio del ’92 e Amato poco prima, nel presentare il suo governo di emergenza alle Camere, parlò di “particolare gravità, sia per la finanza pubblica che per le strutture portanti del sistema. In assenza di correzioni, dietro l’angolo non c’è l’uscita dall’Europa, il rifugio in un’impossibile autarchia, ma il rischio di diventare una Disneyland al suo servizio, arricchita dal nostro clima, dalle nostre bellezze naturali, dalle vestigia della nostra storia e della nostra arte”. Ne uscimmo, non benissimo altrimenti oggi non saremmo dove siamo, ma la barca ha continuato a galleggiare fino ad oggi. Non è tanto questione di stellone, di fortuna italica, quanto di un principio di omeostasi che ogni organismo politico-istituzionale, come la stessa nostra repubblica parlamentare, ha in sé. A meno che non intervenga un fattore esterno di rottura. Ma per quanto la finanza europea e mondiale conti, non credo abbia la stessa forza dirompente di una guerra mondiale durata circa quattro anni (mi riferisco al nesso tra 1915-18 e 1922).
Che cada il governo non vuol dire che la politica sia finita, e che dunque piombino sull’Italia comitati di salute pubblica, né che per Renzi sia finita. Il segretario fiorentino ha ancora molte frecce al suo arco, anche se la mancata scissione a sinistra del suo partito lo rende più vincolato di quanto la sua leadership vorrebbe, e di cui avrebbe bisogno, per tentare “il cambiamento di verso”. In politica tutto si muove, anzitutto per ristabilire equilibri, magari precari ed effimeri, e l’istinto politico per eccellenza è quello di sopravvivenza. Lo farebbe comprendere la lettura di un ben altro Segretario fiorentino.