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L’occhio di Wenders redime i giorni uguali ai giorni

Non capita sempre di uscire dal cinema trasformati. Anzi, accade di rado. Al più, oggigiorno, si esce frastornati, inquietati, angosciati, dalla visione di un film. Ma è, in fondo, gioco facile, ormai. Basta spingere sullo spirito del tempo che ci attanaglia giorno e notte. Assai meno frequente, quasi rarissimo, uscire dal cinema istruiti. Sì, nel senso di addestrati a vivere meglio, con maggiore consapevolezza, persino con più gusto, se non con gioia. Addirittura.

Esci dal cinema e cominci a guardarti intorno e poi in alto, soprattutto in alto, con sguardo rinnovato, occhio vergine, assetato di scoperte. Proprio come Hirayama, il protagonista del film Perfect Days, regia di Wim Wenders. A detta di molti, uno dei suoi lavori più belli. Anche secondo me. Cinema allo stato puro. In questa sua nuova opera c’è la novità, assoluta per tempi come i nostri, di trovarsi di fronte ad una sorta di morality play. Era, questa, una forma di rappresentazione pubblica a carattere didattico e religioso che sorse in Inghilterra intorno alla fine del Quattrocento. Pare tragga origine dalla danza macabra e dall’ars moriendi. In altri termini, specie dopo la peste nera di metà Trecento, pandemia che devastò l’Europa, uccidendo almeno un terzo della popolazione del continente, pari a circa 20 milioni di persone, l’idea della morte si era fatta più pressante nell’autunno del Medioevo. Qui, restando al mondo del cinema, saltano subito alla mente le immagini di danse macabre che compaiono in una scena del capolavoro di Ingmar Bergman del 1957, Il settimo sigillo. Ma torniamo a Wenders e al suo protagonista.

Se nelle Moralities al centro vi è l’everyman, l’uomo comune, quel ciascuno che noi siamo, incalzato dall’arrivo della morte, alle prese con le tre virtù teologali (fede, carità, speranza) e le quattro cardinali (sapienza, giustizia, fortezza, temperanza), in questo film, altrettanto ricco di figure allegoriche e simboli materialmente riconoscibili e antropomorfi, tutto ruota attorno ad un pulitore di cessi. Pulitore meticoloso, di ferrea disciplina. Qualcosa a metà tra un samurai e un monaco buddista. Ogni giorno, infatti, Hirayama compie il suo lavoro di addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo come si trattasse di un servigio militare o di un rito sacro con il suo preciso e immutabile cerimoniale. Lo seguiamo dall’alba al tramonto, da quando si sveglia a quando si addormenta, e sogna.

Già questa condotta di impassibile pulitore di pubbliche latrine insegna non poco allo spettatore, che viene immediatamente irretito nella routine del protagonista. È così metodico e rigoroso, il nostro Hirayama, da risultare quasi ossessivo compulsivo. Assistiamo infatti ad una ripetizione di gesti che molto somiglia ad una catena di montaggio. L’eterno ritorno dell’apparentemente uguale. Perché la vita quotidiana ai tempi della modernità più avanzata è per la massa dei salariati una ruota del criceto. Eppure ogni routine, anche la più ferrea ed alienante, è composta da una serie di attimi e momenti sempre suscettibili di piccole variazioni. Ciascuna di queste apre finestre di opportunità. Puoi aprire le persiane e far filtrare la luce, fino ad inondare la tua stanza, oppure lasciarle chiuse. Altrimenti puoi sbirciare per un secondo, quindi socchiudere con l’idea del potrebbe essere, poteva essere o sarà, chissà, forse sì, anche no. Paura di vivere? Ansia, più probabile. Risposta, quest’ultima, che viene suggerita nel film citando un libro di Patricia Highsmith. La scrittrice americana è particolarmente amata da Wenders, tanto da trarre uno dei suoi primi film, quello che gli conferì notorietà internazionale, L’amico americano (1977), proprio dal romanzo giallo Ripley’s Game (lo stesso da cui Liliana Cavani ha tratto l’omonimo film del 2002).

Ansia, allora? Forse meglio dire: apprensione. Curioso che questa parola possa anche essere intesa come l’atto, la facoltà dell’apprendere. Del trattenere nella retina e nella mente i segnali del mondo esterno. Imparare tramite visione, silenziosa e attenta, di ciò che ci circonda. Così ci induce a pensare il nuovo film di Wenders. Ma quali sono i Perfect Days? Non voglio svelare qualcosa che merita di essere visto e scoperto. Mi limito a suggerire che ogni giorno potenzialmente lo è, perfetto. «Sometimes I feel so happy, sometimes I feel so sad», cantavano i Velvet Underground, ed è così che Hirayama si presenta a noi e da noi si congeda. Sul suo volto si alternano e sfumano come immagini in un caleidoscopio il sorriso, quasi sempre concesso con generosità, il riso e il pianto, per lo più trattenuti con estremo pudore.

Non è un viaggio concluso, quello contenuto nel film di Wenders, perché non è possibile racchiudere una vita, anche la più ordinaria, dentro due ore e qualche minuto. Se ne può dare il senso. E nel caso di questo film, ripeto, se ne insegna pure il metodo. Per scovarlo e manutenerlo (nel senso di manutenzione) lindo ed efficiente come un bagno pubblico di Tokyo. Il luogo della deiezione, se accudito e trattato con cura, si trasforma in luogo della redenzione. È come se Wenders avesse saputo tradurre in pratica l’indicazione filosofica del secondo Heidegger, oscura ai più. In realtà è qualcosa di assolutamente comprensibile da chi sa abitare un mondo tra i tanti che coesistono in questo mondo, come spiega Hirayama alla nipote Niko durante una passeggiata in bici. La compresenza di più mondi testimonia e consente la pluralità delle esistenze. Alcuni mondi sono paralleli, tra loro incomunicabili; altri, invece, sono interconnessi, quantomeno passibili di contatto e trasmissione. Comunicazione orizzontale, da umano a umano, ma anche verticale, da terra a cielo. La trascendenza è anzitutto una forma di disciplina interiore, la capacità di dare forma alla propria anima, che prende vita solo se plasmata con sapienza di artigiano. Si inizia di primissimo mattino: è consigliato sulla soglia di casa, al confine tra interno ed esterno, rivolgere gli occhi al cielo. Come per un saluto. Per avere senso la vita deve prendere forma. La liturgia serve a questo. Perciò vi è sempre del religioso, anche nella più atea delle esistenze.

Con Perfect Days si conferma che un regista deve essere prima di tutto e soprattutto un occhio. Un grande regista è un grande occhio. Grande è l’occhio che vede qualcosa che sfugge ai più. Così, con le sue opere visive, il grande regista aumenta la nostra vista, ovvero ne potenzia ampiezza, acutezza e profondità, riconnettendo sguardo e pensiero. Wim Wenders è un grande occhio. Nell’ultimo anno ce ne ha dato ulteriore conferma con il suo omaggio ad Anselm Kiefer. Anselm è un documentario in 3D grazie al quale l’opera del pittore e scultore tedesco si manifesta in tutta la sua potenza e parla allo spettatore con una chiarezza che mortifica anche il più bravo critico d’arte. Pittura, scultura, cinema: le immagini partorite dalla vera poesia sono sempre eloquenti.

In Perfect Days c’è la lezione di Yasujirō Ozu, altro grande occhio. Si conferma l’importanza di avere maestri, se sono davvero tali. La visione di Ozu ha contribuito a rendere grande l’occhio di Wenders. Lo testimonia Tokyo-Ga (1985), documentario wendersiano interamente dedicato alla vita e all’opera del grande cineasta giapponese. Nei primi anni Settanta, l’allora giovane regista tedesco vide per la prima volta il capolavoro del maestro giapponese, Viaggio a Tokyo (1953), e così lo ricorda:

In questo cinema celestiale non c’era differenza fra personaggio, attore e spettatore, eravamo tutti parte della stessa storia di vita, tutti nello stesso Viaggio a Tokyo, la nostra vita trascinata dalle stesse forze.

C’è poi il ruolo della musica. Centrale, come in tutti, o quasi, i film di Wenders. Con Perfect Days si può comprendere finalmente come la gran parte della poesia contemporanea si esprima nel binomio parole e musica del pop (che sia rock, R&B o altro, qui poco importa, sempre di musica popolare si sta parlando). Libri, tanti libri, e musicassette, tante musicassette, arredano la casa del protagonista di Perfect Days. Lo spettatore ascolta, direttamente, e legge, indirettamente, alcune canzoni e alcuni libri tra i preferiti da Wenders. Ma ciascun spettatore può sostituirli attingendo ai propri gusti. Anche se, va detto, che quelle canzoni e quei libri sono frutto di una scelta oculata per offrire un commento non verbale ad una trama così avara di dialoghi. Un film quasi muto, dalla trama apparentemente inesistente. Solo che quella trama è l’esistenza di ognuno di noi. Dunque esiste, eccome. Va solo saputa riconoscere.

In Perfect Days c’è infine la presenza sottotraccia, nemmeno troppo, di alcune pagine fondamentali della letteratura giapponese, di quella che riassume elementi centrali di una millenaria tradizione. C’è Jun’ichirō Tanizaki, ci sono le sue riflessioni sull’architettura e l’estetica delle toilette giapponesi, consegnate nel suo saggio del 1933, Libro d’ombra. Qui leggiamo, fra l’altro:

Ogni volta che vado in un monastero di Kyōto o Nara e mi vengono mostrate toilette all’antica, in penombra e impeccabilmente pulite, resto sempre colpito da quanto amo l’architettura giapponese. Le sale da tè hanno il loro fascino ma le toilette giapponesi sono davvero progettate per calmare lo spirito. […] La toilette è davvero un luogo perfetto per ascoltare il frinire degli insetti o il canto degli uccelli, per vedere la luna o per godersi uno di quei momenti commoventi che scandiscono il cambio delle stagioni. Questo, forse, è il luogo in cui i poeti di haiku dai tempi antichi si sono ispirati per molti loro soggetti.

Le parole dello scrittore giapponese non devono essere sfuggite a Wenders, che peraltro ha firmato la sceneggiatura di Perfect Days assieme a Takuma Takasaki, a sua volta regista nonché produttore cinematografico tra i più creativi della sua generazione. È anche romanziere.

Luce e ombra sono le protagoniste allegoriche di questo morality play wendersiano. Tra i pochi dialoghi del film risuona la frase in cui ci si domanda se due ombre sovrapposte ne facciano una ancora più scura. Nel cinema di Ozu, altra eredità del maestro rielaborata dall’allievo Wim, vi era il ricorso sapiente ad uno dei tratti peculiari dell’estetica zen, lo Yûgen, che, tradotto letteralmente, significa “leggermente scuro” e intende esprimere quel sentimento verso la bellezza naturale che si fatica ad esprimere a parole. Chi vedrà il film capirà perfettamente cosa significa. Yûgen indica inoltre il fascino esercitato da tutte le cose in penombra. La bellezza della vita non può manifestarsi nella sua pienezza, probabilmente perché non sarebbe sostenibile da occhio e cuore umani.

Alcune sequenze del film bastano a spiegare quest’ultima considerazione. La bravura espressiva di Kōji Yakusho, nei panni del protagonista, fa parlare il silenzio. Mai laconico fu più loquace. Eppure il regista, evidentemente desideroso di rendere non solo partecipe ma anche edotto il suo spettatore, offre una didascalia. Ecco servito il morality play. In fondo ai titoli di coda, per chi ha la buona consuetudine di restare seduto finché il grande schermo non si oscura, c’è l’opportunità di ricevere da Wenders un importante tassello del suo mosaico. Una chiave di lettura del suo film. Compare infatti la parola Komorebi con definizione a seguire. Letteralmente questo termine-concetto nipponico significa “luce che filtra tra gli alberi” ed è composto dai caratteri che indicano albero, splendore e sole. Per chi vedrà il film, tutto ciò risulterà poeticamente esibito. Dietro e dentro questa parola riposa un consolidato approccio esistenziale. Vivere nella penombra, consapevoli che il buio non è mai negazione, ma sempre un tramite, certi della luce del sole che dona pace. Dopodiché la metamorfosi non si ferma, prosegue, sempiterna. La vita, sia del cosmo sia dell’uomo, è una questione di sfumature. Ancora una volta ci vuole occhio. Wenders ci dona un nuovo sguardo, aperto come si deve e posizionato al punto giusto.