Prendo in mano l’ultimo libro pubblicato da Giuseppe Bedeschi (La Prima Repubblica, 1946-1993. Storia di una democrazia difficile, Rubbettino 2013). Noto e apprezzato studioso di filosofia della storia, professore emerito all’Università La Sapienza di Roma, Bedeschi propone un’analisi che alla ricognizione delle idee e delle culture politiche che hanno connotato le vicende repubblicane italiane fino al 1993 affianca una ricca messe di dati, rinvenibile anche in altri precedenti sintesi storiografiche sul periodo ma qui riproposte con spunti di originalità e coraggio nei giudizi espressi. E così sono tornato a sfogliare altri libri sulla storia dell’Italia repubblicana. Ebbene, mettendo in fila i dati snocciolati qua e là mi sono definitivamente convinto di un’idea che mi ronzava da tempo in testa: la storia della cosiddetta Prima Repubblica insegna, a chi la voglia esaminare con attenzione e sine ira et studio, che i suoi mali, le sue tare ed i suoi vizi, accumulatisi nei decenni, sono stati ereditati in pieno dalla cosiddetta Seconda Repubblica. Lungi dall’essere stati risolti, si sono semmai aggravati e oggi contrassegnano la grave crisi istituzionale ed economica nella quale ci stiamo dibattendo, nella quale stiamo annaspando come fossimo immersi nelle sabbie mobili. La crisi finanziaria del 2007-8 è solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo da tempo.
Parto dai dati relativi all’economia, dove si dimostra come il debito pubblico è figlio di una serie di scelte politiche prese a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta e soprattutto dalla fine degli anni Sessanta, in concomitanza con l’esplodere della contestazione studentesca e della protesta sindacale del cosiddetto “autunno caldo”. Secondo Bedeschi, se il “boom economico” era stato reso possibile dal “centrismo” degasperiano, favorito certo dal contesto della ricostruzione postbellica finanziata cospicuamente anche dagli Stati Uniti, la lunga instabilità politica e sociale degli anni Settanta la si dovette al clima di immobilismo e di stagnazione favorito ben presto dalla stagione del “centro-sinistra”, fallimentare sul piano di quella capacità riformista e riformatrice per l’esercizio della quale era stato infine varato. I governi succedutisi a cavallo tra anni Sessanta e Settanta si mostrarono del tutto arrendevoli alle pressioni di un sindacato quanto mai agguerrito e nutrito di rinnovellate istanze rivoluzionarie. Si ribaltò la tradizionale piattaforma rivendicativa fondata sulla professionalizzazione e si fece propria la linea egualitarista dei Comitati unitari di base (Cub): “aumenti salariali eguali per tutti, parità normativa operai-impiegati, 40 ore di lavoro settimanali per tutti con rigida delimitazione degli straordinari, diritto d’assemblea in fabbrica con 10 ore annue retribuite per ogni dipendente”. Ma soprattutto, come ricorda lo storico Francesco Barbagallo, per la prima volta il salario fu staccato dai livelli di produttività e dalla funzione produttiva dei lavoratori. Il salario veniva definito “variabile indipendente” dagli altri fattori della produzione.
Fu così “caldo” quell’autunno che se nel 1968 le ore di lavoro perdute furono 96 milioni e l’anno dopo toccarono quota 520 milioni. L’aumento dei salari fu notevole: assumendo l’indice 100 per il 1966, si passò a 122 nel 1969, a 175 nel 1971, a 241 nel 1973. Miglioramento significativo, per molti aspetti necessario tenuto conto del basso livello salariale imposto dagli industriali fino a quel momento. La produttività, però, restò in quei primi anni Settanta al di sotto di alcuni punti, in media, ogni anno. Altri contraccolpi dell’autunno caldo furono a suo tempo rilevati da Rosario Romeo: gli investimenti interni si ridussero dal 20,5% del reddito netto nel 1961 al 13,9% nel 1972. Di queste politiche, apparentemente progressive, pagarono il conto, nel breve e medio periodo, i ceti e le categorie più deboli. Dal 1969 in poi crebbe la divaricazione tra occupati e disoccupati. Bedeschi segnala come aumenti salariali svincolati dalla produttività e garanzia incondizionata del posto di lavoro “finirono per mettere le aziende nell’impossibilità di assicurare nuova occupazione e per restringere pericolosamente gli accessi ai settori produttivi. Di qui l’enorme dilatazione dell’area assistita, la crisi fallimentare di un gran numero di imprese sotto il peso di carichi salariali del tutto parassitari, la progressiva chiusura degli accessi nelle amministrazioni pubbliche, la contrazione degli investimenti”. E la storia proseguì.
Quando tra 1979 e 1981 entrò in vigore la riforma sanitaria (varata nel 1978) con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale furono dispensati servizi medici e medicine a tutti, gratuitamente. La gestione fu affidata ad “una pletorica struttura amministrativa controllata dai partiti”, che si spartirono appalti e prebende su acquisti di medicinali, apparecchiature sanitarie, ecc. ecc. A ciò sono da aggiungersi i costi di un sistema pensionistico a dir poco “generoso”: baby-pensioni dopo nemmeno 15 anni di attività, 5 milioni di pensioni di invalidità (molte delle quali fasulle, come dimostrano i rapporti della Guardia di Finanza degli ultimi anni). E poi pensioni di “anzianità” che congedavano persone cinquantenni, ancora nel pieno delle loro forze, che, ci ricorda oggi Bedeschi, andarono spesso a fare concorrenza sleale ai giovani sul mercato del lavoro dedicandosi ad attività “in nero”. Tutto ciò mentre il costo del petrolio saliva alle stelle dopo la crisi del ’73. Ecco le premesse di un debito pubblico che in un decennio salì di oltre venti punti: dal 43% del 1970 al 65% del 1980.
Le industrie di Stato fecero la loro parte nell’ingrossare il debito nazionale, che negli ultimi anni della Prima Repubblica superò il Pil. Giuseppe Mammarella ci ha ricordato come solo il disavanzo dell’Iri aumentò di ben 7 volte tra il 1971 e il 1978, fino a raggiungere 1100 miliardi di lire di debiti in questo stesso anno. Arrivò così a reclamare un fabbisogno di 18600 miliardi per i tre anni successivi (1979-1981). Tutti anticipati dallo Stato, ovviamente, data la difficoltà di reperimento sui mercati finanziari. Ecco: il settore pubblico dell’economia, di cui già dai primi anni Ottanta si lamentava da più parti bassa produttività e sprechi. In Italia tale settore assorbiva nel 1970 il 36,7% del Pil, nel 1980 il 43,6% e nel 1992 il 57,6%.
Aggiungo solo un altro ordine di dati, che ci segnalano quanto sia stato deteriorato in passato il tessuto connettivo della nostra società. Mi riferisco al periodo del terrorismo. Limitandosi al numero di attentati compiuti dalle numerose organizzazioni del terrorismo rosso Bedeschi ci fornisce il seguente elenco: 702 attentati nel 1975, 1198 nel 1976, 2118 nel 1977, 2395 nel 1978, 2366 nel 1979. Le stime ufficiali elaborate sulla base dei dati del Ministero dell’Interno ci dicono che le vittime del terrorismo rosso sono state 491, i feriti 1181 e 14.591 gli atti di violenza “politicamente motivati” contro persone e cose. Dal 1969 al 1984 non trascorse settimana senza attentati di maggiore o minore rilievo. Le gambe di chi legge tremano, assieme alla ragione, se a ciò si aggiunge quanto compiuto dal terrorismo nero e dallo stragismo non meglio identificato, ma tale da far sospettare del coinvolgimento di servizi segreti, non solo italiani, quando non anche di spezzoni deviati dell’apparato di sicurezza del nostro stesso Stato (senza per questo fare identificazioni semplicistiche e complottistiche alla Travaglio, del tipo: “È Stato la mafia”). E, in tutto questo, enorme fu la responsabilità degli intellettuali e del mondo della cultura nel favorire un clima di diffusa ostilità anti-istituzionale (la cosiddetta “lotta al sistema”) e di fibrillazione insurrezionalistica (più che rivoluzionaria, come pur si definiva). Riporto infine i dati di un’indagine compiuta dalle organizzazioni del Pci intorno al 1977-78. Si stimò che “i guerriglieri clandestini fossero 700-800, appoggiati da circa 10.000 estremisti, spesso armati, che vivevano ai margini della legalità”.
Chi o che cosa avrebbe potuto trarci fuori da una voragine (politica, economica, sociale, culturale) di simili proporzioni? Probabilmente, nessuno. Forse un livello intellettuale e umano di leadership e di classe dirigente ed un livello di coesione nazionale che la stessa nostra storia nazionale, anche precedente al 1945, non ci avrebbe fornito così facilmente. Esempi passati di élites politiche di alto livello c’erano stati (basti pensare al periodo precedente e immediatamente seguente l’unificazione nazionale), molto meno di spirito comunitario nazionale, completamente spazzato via, oltre che dalla guerra fascista, dalle sciagurate scelte compiute dalla monarchia l’8 settembre 1943 e dalla conseguente guerra civile, terribile e tale da lasciare in molti la convinzione di avere ancora conti in sospeso.
Ed ora alcuni dati aggiornati all’ultimo decennio. Secondo fonti Istat, nel periodo 2001-2010 la produttività oraria del lavoro è cresciuta appena dell’1,2 per cento in Italia, contro l’11,4 per cento dell’area Ue a ventisette, per non parlare del 26,1 per cento della Germania. Siamo quasi 50 punti distanti dalla Francia e dai Paesi Bassi, 40 dalla Svezia, più di 20 dal Regno Unito e precediamo solo di poco la Spagna. Peraltro, come ha di recente rilevato l’economista Francesco Forte, fatto 100 il livello medio di produttività dell’Europa a ventisette, nel 2003 la produttività per ora lavorata in Italia era a quota 107 ed è scesa a 102 nel 2011, mentre in Spagna da 102 è salita a 108 nello stesso periodo. Quanto poi ai costi della pubblica amministrazione la continuità con la Prima Repubblica è di solare evidenza. Anzi, sotto certi aspetti è una continuità nel segno del peggioramento. Si pensi al costo delle regioni. Sempre dati Istat ci dicono che le spese correnti sono cresciute dai 107,6 miliardi del 2001 ai 151 miliardi impegnati nel 2010, per un aumento pari al 40,3%. Nell’autunno di un anno fa la Ragioneria generale dello Stato rilevò come tra 1999 e 2011 i costi dei consumi intermedi negli enti sanitari fossero aumentati del 277% contro il +138% fatto segnare nello stesso periodo dal Pil.
E, dulcis in fundo, ecco le previsioni per il 2014 della Commissione Ue, rese note la settimana scorsa, e che prevedono una crescita più bassa di quella stimata dal governo Letta. Dopo il calo dell’1,8% nel 2013, il Pil nel 2014 aumenterà solo dello 0,7%, e non dell’1,1. Una previsione in linea con quella fornita pochi giorni prima dall’Istat. Va anche detto che la Commissione europea ha rivisto al ribasso le stime di crescita per l’intera area euro (-0,4 nel 2013; +1,1 nel 2014). E Squinzi, presidente di Confindustria, rincara la dose, sostenendo che con ogni probabilità le stime della Commissione Ue sono destinate a peggiorare se il governo Letta non interverrà con decisione in termini di riduzione significativa del cuneo fiscale e di altre misure davvero utili a favorire la crescita produttiva. Siamo alle soglie della deflazione.
Nel frattempo si continua a discutere di quisquilie, mentre prosegue la lenta agonia di uno Stato e di una società sempre più malamente incollate l’uno sull’altra. E viene infine da pensare che davvero questi ultimi vent’anni sono stati inutili, e se di Seconda Repubblica si deve parlare, se mai è esistita, occorrerà dire ai nostri figli e nipoti che di un’epoca inutile si è trattata, perché nulla di quanto dannoso o errato fu introdotto dalla Prima questa Seconda è stata in grado di rimuovere o correggere. Non è nemmeno riuscita a frenare il declino. Se ha fatto qualcosa, ha solo peggiorato la situazione, complice un mutato clima politico ed economico internazionale. Una perdita di tempo lunga un ventennio. E se penso a quanto prezioso sia il tempo…