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Ottime intenzioni, pessime traduzioni: il nuovo Codice degli Appalti

Non intendiamo unirci al coro di coloro che riducono l’azione politica dell’attuale governo ai soli annunci. Preferiamo discutere nel merito di quanto fatto. Certo è che quanto accaduto con il nuovo Codice dei contratti (d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50) non depone a favore dell’azione di governo e conferma alcuni antichi proverbi, depositari di saggezza popolare.

Ottima era l’intenzione del governo: valutare le gare non più sulla base del criterio legato al prezzo ma soprattutto alla qualità dell’opera, ridurre pesantemente la possibilità di ricorrere a varianti, creare “stazioni appaltanti” qualificate, che cioè abbiano il personale e l’organizzazione adatte a poter fare le gare, premiare infine le imprese che svolgano i lavori nei tempi e nei costi previsti. Il tutto all’interno di un corpus normativo più semplice, senza ricorrere al regolamento attuativo ma a provvedimenti più snelli di cosiddetta soft law, ovvero a più semplici linee guida.

Pessima, però, è stata la traduzione. Per citare un primo proverbio, “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”… della burocrazia. E così è successo che tra aprile e giugno 2016, quindi immediatamente dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice, gli appalti di lavori si sono ridotti del 52% rispetto allo stesso periodo del 2015 in termini di numero e del 62% in termini di importo. Per quanto riguarda le forniture e i servizi la contrazione media è del 37% in termini di numero e del 42% in termini di importo. Si tratta di dati forniti dallo stesso presidente dell’Autorità dell’Anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, in una comunicazione dello scorso 13 luglio.

Nello stesso tempo, si scopre che il nuovo testo è pieno di errori di varia natura e che le rettifiche pubblicate il 15 luglio 2016 in Gazzetta Ufficiale contengono 170 modifiche su 220 articoli e modificano il 44% dell’articolato (100 articoli su 220). Lo ha segnalato Gian Antonio Stella sul “Corriere della Sera” del 20 luglio scorso, enfatizzando come la maggior parte degli errori riguardi riferimenti errati contenuti all’interno dell’articolato, peccato capitale per un legislatore. È così nato un processo, dalla grande eco mediatica, come sempre. Chi è il vero responsabile? La pubblica amministrazione (le cosiddette “stazioni appaltanti”), che confermerebbe la propria atavica ostilità al cambiamento e incapace di fare le gare, oppure il legislatore, e dunque la classe politica con il suo staff tecnico?

Gli argomenti dell’accusa chiamano in causa una normativa oggettivamente complessa, difficile da attuare. Non dimentichiamo che il nuovo codice consta di 220 articoli e 25 allegati, e dovrà essere completato con circa 50 atti attuativi di svariate tipologie. Il codice è entrato in vigore lo stesso giorno della sua pubblicazione in G.U., vale a dire il 19 aprile 2016, ma all’art. 216 si delineano ben 26 regimi transitori ancorati all’adozione degli atti attuativi previsti dagli articoli del codice, e nelle more dei quali continua ad applicarsi la precedente disciplina. Questa situazione crea un’oggettiva incertezza nelle PA e la difficoltà a procedere con nuove gare.

Non sono comunque da sottovalutare gli argomenti della difesa. Michele Corradino, consigliere Anac, ha ricordato in questi giorni (“Sole 24 Ore” del 21 luglio 2016) che le grandi novità del codice non sono ancora in vigore e finché non usciranno le nuove linee guida vale ancora il vecchio regolamento, per cui “nasce il sospetto che ci sia una resistenza al cambiamento che può derivare anche dalla voglia di mantenere privilegi e posizioni di potere acquisite negli anni”.. E, a proposito degli errori del codice, aggiunge: “Sì, gli strafalcioni c’erano, e tuttavia c’era una scadenza comunitaria che non si poteva in alcun modo eludere. La presidenza del Consiglio premeva: se avessimo tardato anche solo di un giorno, sarebbe partita la procedura d’infrazione contro l’Italia” (intervista al “Corriere della Sera”, 23 luglio 2016, p. 21). Ecco così confermato un secondo proverbio: “La gattina frettolosa fece gattini cechi”.

Si poteva fare altrimenti? Evitare un tale scivolone? Non dimentichiamo che il governo ha attuato una delega lunga e complessa, il cui periodo di gestazione ha assorbito quasi tutto il biennio assegnato dal legislatore europeo per il recepimento delle tre direttive appalti e concessioni, lasciando al governo meno di tre mesi, e coinvolgendo in una maratona consultiva tutti gli organi chiamati a dare parere. E qui il patatrac…

Cosa si può ricavare da un episodio del genere? Negli ultimi anni, a prescindere dal colore politico dei governi in carica, è invalsa la caccia al funzionario pubblico, accusato o di essere un azzeccagarbugli ostile alla semplificazione e all’innovazione o di fare il gioco di chi sulla farraginosità delle norme ci sguazza per fare i propri affari poco chiari.

Giustamente, a nostro avviso, Corradino segnala i rischi legati alla saldatura tra un naturale “shock da innovazione” delle stazioni appaltanti e la volontà di alcune lobbies di mantenere un sistema farraginoso che negli anni non ha fatto altro che alimentare varianti e rendere molto basso il livello di qualità degli appalti. Quanto però accaduto con il Codice sposta senza dubbio il peso delle responsabilità sulle spalle del legislatore, o meglio dei vertici della burocrazia ministeriale congiuntamente alla commissione di 19 esperti nominata dal ministro Del Rio.

La domanda che sorge spontanea è allora questa: le PA italiane che non fanno appalti da 6 mesi sono tutte in malafede, timorose di agire e sprovvedute o davvero il nuovo codice è stato licenziato senza porre minimamente attenzione a quella “qualità della regolazione” di cui tanto si parla ma che non può che poggiarsi sulla competenza di chi opera?