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“Meditate che questo è stato”

27 gennaio, Giornata della Memoria. Della Shoah, che vuol dire “catastrofe”, “distruzione”, e indica infatti lo sterminio compiuto dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei, con macabro contorno di altri “diversi”, “indesiderabili”, ammassati tutti assieme nel mattatoio industriale dei Lager. Sul loro funzionamento, sulle motivazioni e sulle modalità di azione degli esecutori del piano nazista di sterminio Hannah Arendt avrebbe poi proposto una interpretazione originale, penetrante, ma che nell’immediato suscitò un vespaio di polemiche e controversie, tanto di avversari quanto di amici della filosofa ebreo-tedesca. Stiamo parlando ovviamente dell’opera uscita nel 1963 in inglese con il titolo Eichmann in Jerusalem – A Report on the Banality of Evil. L’editore italiano ritenne opportuno invertire l’ordine del titolo. E così, ancora oggi, noi usiamo questa tanto controversa quanto fortunata formula della “banalità del male”, con un’estensione che va oltre la tragedia dell’Olocausto per investire l’eterno, cruciale tema della genesi del male nell’essere umano, contro l’essere umano. Il libro riprendeva i resoconti che la Arendt aveva pubblicato come corrispondente del settimanale “New Yorker” per il processo ad Adolf Eichmann, gerarca nazista catturato nel 1960, processato a Gerusalemme nel 1961, condannato a morte il 15 dicembre successivo (l’esecuzione sarebbe poi avvenuta il 31 maggio del 1962 per impiccagione). Su questo periodo della vita della filosofa ebreo-tedesca, autrice di altri studi ormai classici come Le origini del totalitarismo (1951), Margarethe von Trotta ha realizzato un film che sarà nelle sale italiane il 27 e 28 gennaio.
Un anno dopo la pubblicazione del libro, la Arendt partecipò ad un dibattito a Gerusalemme, dove ebbe a precisare ulteriormente: “la mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’… solo il bene ha profondità e può essere integrale”. Ecco dunque che l’esercizio della memoria è salutare per il pensiero in quanto gli dona quella profondità che solo la conoscenza della storia passata, recente e remota, possiede. Come pure una prospettiva critica da cui interrogare il presente e sondare, lambire margini di futuro. E siccome, sempre Hannah Arendt, nel coevo (alla Banalità del male) On Revolution, ebbe a dire che “il magazzino della memoria è tenuto e vigilato dai poeti, che hanno il compito di trovare e creare le parole per cui viviamo”, diamo la voce ad un poeta e scrittore (ma anche chimico) italiano, Primo Levi, deportato ad Auschwitz e sopravvissuto allo sterminio. Il celebre romanzo-testimonianza di quell’atroce esperienza, Se questo è un uomo, scritto tra il dicembre 1945 e il gennaio 1947, si apre con una poesia, che fa da prologo e che è ispirata allo Shemà, una tra le più importanti e sentite preghiere della liturgia ebraica. “Shemà” è vocabolo ebraico che significa “ascolta”. Dunque ascoltiamola, leggendola, questa poesia:

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

(Primo Levi, 1947)