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L’ABC della democrazia e il bisogno di capirla e spiegarla. La lezione di Giovanni Sartori

Non essere amate. Questo è il pericolo maggiore per le nostre democrazie, solo apparentemente consolidate ma dai più accettate come qualcosa che si dà per scontato, presenza noiosa ma comoda, e tollerata giusto perché è comoda. I cittadini delle odierne democrazie occidentali paiono “bambini viziati” (espressione di Ortega y Gasset). Sempre pronti a ricevere, un po’ meno a dare, salvo il minimo indispensabile e soltanto dietro minaccia di sanzione. E allora risulta necessario correre ai ripari, e in fretta. Almeno questo dovrebbe essere il compito dello studioso della politica.

Due le strade percorribili. Una è quella di mostrare quanta storia stia alle spalle delle nostre democrazie, una lunga storia di lunghe e faticosissime lotte e conquiste, sempre precarie e mai complete. Conoscere bene il passato dovrebbe insegnare quanto rara e preziosa sia questa forma di organizzazione della convivenza umana che gli uomini hanno edificato tra mille difficoltà. Fino a pochi decenni fa gli stessi europei agonizzavano sotto il tallone d’acciaio di dittature totalitarie di destra e di sinistra, dall’Atlantico agli Urali. E se guardiamo fuori dai confini del Vecchio Continente le democrazie vere e funzionanti si trovano col lumicino.

La seconda strada percorribile da un intellettuale che voglia dare nuove motivazioni e nuovi slanci alla cittadinanza democratica è proprio quella di spiegare in modo chiaro ed efficace cosa sia democrazia e cosa non lo sia. Dalla differenza, anche concettuale, si dovrebbe quanto meno intuire il valore di quel che la sorte ci ha assegnato. Perché noi cittadini delle democrazie agli albori del terzo millennio la democrazia ce la siamo ritrovata in eredità, beneficio non meritato e quindi non apprezzato. Ed è questa seconda la strada percorsa da Giovanni Sartori. E non da oggi, ma almeno dai tempi della encomiabile opera scritta nell’ormai lontano 1957 e non a caso intitolata Democrazia e definizioni.

La politologia italiana ha avuto nel secondo dopoguerra due maestri indiscussi quanto a capacità didattica, anche e soprattutto nella forma della scrittura: Norberto Bobbio e, appunto, Giovanni Sartori. Non si questiona sulla discutibilità o meno delle singole posizioni e teorie da ciascuno dei due di volta in volta sostenute. Si intende piuttosto evidenziarne la chiarezza espositiva, la ineguagliata capacità di tradurre la grande tradizione dei classici della politica occidentale, da Aristotele a Schumpeter, in concetti che ti ancorano alla realtà e te la fanno comprendere o vedere con sguardo più acuto. In questo consiste l’arte del concetto, e di essa Bobbio e Sartori restano appunto maestri insuperati.

Va da sé che un simile modo di fare scienza avvicina il lettore e dunque il cittadino alla politica, sia essa teoria sia essa pratica. Anzitutto, Sartori (ma anche Bobbio) ci ha insegnato l’importanza della definizione sopra ogni altra cosa: sapere cosa vuol dire “democrazia” significa stabilire “che cosa pretendiamo o ci aspettiamo” da essa. Abbiamo dunque bisogno di una nozione “operativa”, nel senso che guarda alla democrazia per come opera e non per quel che dovrebbe essere, campo dell’ideale astratto ma anche dell’opinabile e quindi dell’instabile. E allora la democrazia di cui ha senso parlare come di cosa concreta e praticabile è la democrazia elettorale intesa come quel sistema in cui e con cui si decide chi deciderà le questioni riguardanti il vivere associato.

Una simile definizione rende possibile e accettabile l’idea di democrazia come di governo fondato sull’opinione (pubblica) e sulla libertà, che è anche scelta di partecipare o meno alla vita pubblica. Se la democrazia non si fondasse sull’opinione ma sulla scienza e sul “vero sapere” avremmo coercizione e mobilitazione dall’alto. Tutti dovrebbero sapere tutto e decidere su tutto, ma siccome ciò non sarebbe possibile, i più, politicamente analfabeti, o verrebbero costretti ad una politicizzazione, forzata e comunque sempre indotta da altri, oppure finirebbero estromessi da ogni forma di partecipazione quando non fisicamente eliminati. La “pubblicità” delle opinioni, infatti, significa che “le opinioni nel pubblico devono anche essere opinioni del pubblico, opinioni che in qualche modo e misura il pubblico si fa da sé”.

Non solo. Di pubblici, al plurale, e non di pubblico, al singolare, si deve parlare. Ed ecco che il pluralismo, l’antenato del liberalismo, è altro ingrediente fondamentale per definire cosa sia la democrazia dei moderni, la nostra democrazia. Si tratta di un sistema di governo e di organizzazione della vita associata strutturato sulla diversità e il contrasto di opinioni; e per questo va chiamata liberal-democrazia o democrazia liberale di massa. Quest’ulteriore aggettivazione, “di massa”, si spiega col fatto che lo status democratico è potenzialmente esteso a tutti, essendo la cittadinanza – cioè la titolarità di diritti civili e politici – esclusa solo per limitate e gravi ragioni, ma già con questa affermazione potremmo scivolare sul piano dell’ideale e abbandonare il reale, dato che proprio sulla questione della cittadinanza le democrazie occidentali stanno attualmente sperimentando la loro capacità di tenuta, messa a dura prova anzitutto dai colossali flussi di immigrazione da Africa, Asia ed Europa orientale.

Oltre agli ingredienti per una buona riuscita dell’esperimento democratico, Sartori non manca di menzionare gli elementi spuri e le scorie che sin dalle origini intossicano o addirittura minacciano l’esistenza stessa della democrazia. Fra questi il più temibile è l’ideologia, da intendersi come ottica deformata e deformante e “pensiero bloccante”. Se le ideologie imperniate sul concetto-mito di “rivoluzione” paiono aver esaurito definitivamente, almeno in Europa, la loro spinta propulsiva, la forma mentis ideologica persiste oggigiorno sotto forma del “politicamente corretto”. Ed è proprio contro questa nuova dittatura del “retto-pensiero” che Sartori ha sovente scagliato le sue frecce più acuminate in effettiva controtendenza e con il gusto dell’anticonformismo scientificamente armato.

Il politologo fiorentino osa infatti porsi la domanda più sconveniente che ci sia: “la civiltà occidentale è superiore alle altre?”. E a domanda risponde: se a “civiltà” si dà il contenuto oggi in voga di cultura e concezione del mondo e della vita, allora “le graduatorie di superiorità-inferiorità non hanno molto senso”; se però si recupera il significato in uso prima della fine del Settecento, allora la risposta cambia, e non poco.

Prima che il “Dictionnaire de l’Académie” adottasse e diffondesse il termine “civilisation” (civilizzazione), il sostantivo più usato era “civilité”, “civility”, che Sartori traduce con “civilità”. Egli sottolinea come “questo vocabolario meritava di essere mantenuto perché sottintendeva un ancoraggio con civis”, e dunque rimandava al contesto etico-politico di una civiltà. Ed è proprio su questo piano che all’Occidente può essere riconosciuto un altro indubbio primato, assieme a quello scientifico-tecnologico, ed è “quello della costruzione della città libera”. Circoscritta al contesto della “buona città” che “istituisce la città dei cittadini al posto della città dei sudditi”, l’affermazione della superiorità occidentale è plausibile. Certo che le superiorità vanno dimostrate e le dimostrazioni richiedono comparazione. Non si possono comparare elementi eterogenei o non universalmente intelligibili, come i valori – in sé astratti – di libertà ed eguaglianza, ma lo si può fare con esperienze elementari di vita e non cercando di stabilire verità o falsità di questo o quel valore.

Qui si discute di “preferibilità”, non di verità. E allora è alquanto difficile contestare il fatto che la libertà sia preferibile alla prigione, che una maggiore eguaglianza sia preferibile ad una maggiore disparità (almeno di non far parte degli “happy few”), che il diritto di protestare sia preferibile alla costante sottomissione. Allora abbiamo “preferenze di valore” e non di verità.

Il politologo fiorentino ha svolto considerazioni estremamente interessanti e anticonformiste anche in merito ad un altro tema molto attuale, quello della “esportabilità della democrazia”. Sartori risponde: “sì, ma non sempre”. Nei casi, ormai classici, di Italia, Germania e Giappone nel secondo dopoguerra la conferma è oramai consolidata. Specialmente il caso giapponese mostra come sia possibile esportare con successo istituzioni democratiche in un contesto culturale estremamente eterogeneo. Ma è l’India il caso più significativo. La democrazia costituzionale si è lì insediata e ha ramificato, ma al prezzo di vedersi allontanare gli islamici presenti nel subcontinente. Questi ultimi non si sono mai integrati, tanto che gli inglesi, prima di lasciare il loro dominio coloniale, dovettero smembrare il paese creando un territorio islamico (poi, a sua volta, suddiviso in due Stati: Pakistan e Bangladesh).

Dunque l’esportabilità è praticabile e si è, con successo, praticata, ma sussiste un ostacolo che molti fanno finta di non vedere: una religione monoteistica e politicamente teocratica. Ed è nella sottovalutazione di questo aspetto che certe risposte, come quelle dell’America di Bush, non hanno convinto Sartori. Nel senso che la risposta dell’Occidente al problema dell’integralismo islamico è “in parte controproducente e in parte ingenua”. Si dimentica, anzitutto, che l’Occidente è un invasore dell’Islam anche ben oltre le reali intenzioni dei suoi governi. È invasore, e culturalmente invasivo, per il semplice motivo che, come notava Arnold Toynbee, l’Occidente è storicamente la prima civiltà “a carattere planetario che non conosce confini”. Intimamente espansionistica, talora anche involontariamente, se si vuole.

Emanuele Severino attribuirebbe tale “hybris”, tale tracotanza divoratrice, allo sviluppo tecnologico, di cui l’Occidente è depositario e istigatore; e, in qualche modo, è pure vittima. Detto ciò, il conflitto resta, ed è essenzialmente di civiltà, sostiene Sartori non discostandosi, in questo, da Samuel P. Huntington. Ma quel che più di ogni cosa il politologo fiorentino ha sempre teso ad evidenziare è il fatto che “la crisi della democrazia è magnificamente aiutata dall’inconsistenza del sapere che la dovrebbe capire e far capire”. Insomma, difettiamo di scienza politica, un metodo di conoscenza, che sia il più possibile certo e provato, dell’agire umano attorno al potere e alla sua organizzazione per salvaguardare e promuovere libertà ed eguaglianza di opportunità.