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Per Fukuyama la storia è tutt’altro che finita: democrazia, sinistra e ceti medi

Se un giorno si dovesse stilare una classifica degli autori di libri più citati che letti in ogni tempo, probabilmente Francis Fukuyama conquisterebbe il podio. Negli ultimi vent’anni non si contano infatti i testi, siano essi libri accademici o articoli giornalistici, dedicati a più o meno sommarie diagnosi del presente o prognosi del futuro che iniziano con il ritornello di rito: “a dispetto di quel che ha scritto Fukuyama, la storia non è finita…”, oppure “il liberalismo e il capitalismo hanno tutt’altro che vinto, e sullo sfondo si stagliano nuovi avversari e contraddizioni interne gravissime…”. Peccato che in quel gran libro che è La fine della Storia e l’ultimo uomo i ragionamenti fossero ben più profondi e ben più lungimiranti di quanto espresso da queste descrizioni critiche, nutrite della sola lettura del titolo o poco più.

Anche per ribadire l’importanza di quel testo, è sempre opportuno tornare ogni tanto a vedere cosa sta pensando e scrivendo oggi Fukuyama. E così scopriamo che nel primo numero di quest’anno di “Foreign Affairs” è uscito un suo articolo intitolato, provocatoriamente, Il futuro della storia (The Future of History). Ma proprio perché non è dai titoli che si giudica un testo, leggiamo anche il sottotitolo che aggiunge non poco: La democrazia liberale può sopravvivere al declino della classe media? Incuriositi, passiamo alla lettura del breve articolo.

Qualcosa di strano è accaduto negli ultimi quattro anni, da quando è scoppiata la crisi finanziaria del 2008: di fronte ad un’evidente, clamorosa défaillance del capitalismo di mercato, tenuto su, specie in America, solo grazie a massicce iniezioni di liquidità da parte degli Stati, non si è però registrato il successo di ampi e robusti movimenti populisti di sinistra. Semmai abbiamo assistito al successo di un populismo di destra, come dimostra il caso dell’americano Tea Party, confluito in buon parte nel voto repubblicano alle elezioni di medio termine del 2010. Fukuyama si concentra soprattutto sugli Stati Uniti, ma il suo ragionamento possiede una validità più estesa, e questo fenomeno di una risposta populista di destra, e non di sinistra, alla crisi in corso riguarda anche l’Europa degli ultimi due-tre anni.

Interessante è qui notare come il populismo che oggi si suole descrivere automaticamente quale fenomeno politico di destra sia correttamente inteso da Fukuyama come un movimento che nasce dal popolo e per il popolo, e quindi ha avuto frequenti connessioni e connotazioni di sinistra. Ma per chi conosce la storia americana e ha letto Christopher Lasch ciò non sorprende affatto. Semmai l’interrogativo che va posto è come può una democrazia liberale rispondere alla crisi della sua base sociale, ossia la classe media, senza che si abbia una plausibile e praticabile “narrazione progressista” (progressive counter-narrative) da contrapporre all’attuale forma di capitalismo globalizzata.

Il liberalismo, sa bene Fukuyama, non ha mai implicato necessariamente la democrazia, anche se ne ha posto molte e fondamentali premesse. La sinistra (socialdemocratica in Europa, progressista in America) ha contribuito con le sue idee e le sue lotte sindacali ad ampliare la base sociale delle società industrializzate d’Occidente. Ha però ottenuto l’effetto involontario di trasformare la classe operaia in classe media, irrobustendo la base sociale della democrazia liberale, da un lato, marginalizzando man mano se stessa, dall’altro. Ciò ha però contribuito a rendere più democratica la stessa liberaldemocrazia, ma si è anche scoperto negli ultimi cento anni come il messaggio marxista sia stato indirizzato al destinatario sbagliato, perché la classe operaia e sotto-proletaria ha semmai preferito spesso il messaggio nazionalista, come dimostrano le clamorose vicende dell’estate del 1914. E oggi pare preferire l’islamismo radicale, se guardiamo al Medio Oriente.

L’erosione della classe media, ben visibile anche in Italia, è dunque la grande sfida che le democrazie liberali occidentali sono oggi chiamate ad affrontare. Una classe media in pericolo di esistenza può anche cedere a tentazioni antidemocratiche, o comunque extrademocratiche, come la storia ci insegna. Fukuyama è tra coloro che ritengono esista una correlazione piuttosto stretta fra livelli elevati di sviluppo economico e forme stabili di democrazia. Non c’è solo questo nel consenso “popolare” ad una democrazia, e “il desiderio di libertà e partecipazione politica non è una peculiarità culturale di europei e americani”. La stessa Cina è ben lungi dall’aver raggiunto una granitica stabilità di sistema anche se i suoi successi economici mettono per il momento al riparo gli oligarchi del Partito comunista. Niente esclude che una classe media cinese in ascesa potrebbe comportarsi in modo simile a quanto quello stesso tipo di classe ha fatto altrove. Resta certamente l’incognita di un contesto culturale molto differente, che però rende altrettanto difficile, se non impossibile, l’esportazione del suo attuale modello politico-sociale che combina un governo pressoché totalitario con una economia parzialmente di mercato. Mancano da noi presupposti indispensabili come la tradizione confuciana, l’eredità della millenaria burocrazia imperiale, l’alta selettività del sistema di reclutamento delle classi dirigenti, nonché un’altrettanto antica deferenza verso l’autorità tecnocratica.

Fukuyama cita il sociologo Barrington Moore jr., il quale una volta sentenziò: “niente borghesia, niente democrazia”. Cosa succede allora se lo sviluppo tecnologico (che prescinde dalla crisi del 2008) e la globalizzazione rendono sempre più difficile rimanere, e impossibile entrare, nei ranghi di questa classe media, cioè la tanto vituperata “borghesia”? Come si ferma l’attuale deriva oligarchica?

Questa la sfida che si presenta oggi alla sinistra, per fronteggiare una destra che, sì, si veste da populista, adotta una retorica anti-elitista ma, secondo Fukuyama, che ha bene in mente l’esempio del Tea Party, finisce poi sovente per sostenere politiche conservatrici di quegli stessi finanzieri e quegli stessi gruppi industriali contro cui si scagliava in campagna elettorale.

Quel che insomma il professore di Stanford intende denunciare è l’assenza di una sinistra all’altezza dei tempi. Prima di tutto in termini di elaborazione intellettuale e proposta ideologica. Postmodernismo, multiculturalismo, femminismo e teoria critica hanno conquistato gli accademici di sinistra, rendendoli celebrità televisive, ma hanno sguarnito i movimenti dei lavoratori, che, prima o poi lo si capirà, erano sempre più appartenenti alla classe media, e non soltanto operai di una fabbrica fordista che almeno dagli anni Settanta non c’era già più in gran parte del mondo occidentale.

Quale dovrebbe essere l’“ideologia del futuro” che Fukuyama invoca? Egli si limita a segnalare che non è tanto questione di inventare qualcosa di assolutamente inedito e originale, quanto piuttosto di rimettere saldamente insieme i frammenti di un sistema, renderlo coerente e farlo funzionare. Questi frammenti sono idee che circolano da molto tempo, ma disunite. Politicamente, si tratta di riaffermare il primato della politica “democratica”, nel senso che i governi devono interagire con l’economia ricordando che l’interesse pubblico non è mai nemico di quello privato. Economicamente, la nuova ideologia non deve essere una denuncia del capitalismo in quanto tale, ma piuttosto l’assunzione di consapevolezza che la globalizzazione è una sfida e un’opportunità che deve essere politicamente gestita con cautela. Mai più vedere i mercati come un fine a sé, ripensare i fondamenti dell’economia neoclassica e ripensare alla effettiva validità del PIL come misura accurata del benessere nazionale. È una critica della globalizzazione che dovrebbe essere connessa ad una aggiornata e democratica idea di “interesse nazionale”. Un’ideologia populista, “sintesi di idee sia di destra che di sinistra”, capace di criticare le élites che hanno tradito la fiducia del popolo ridotto a periodico elettore non partecipante e totalmente ininfluente. Per Fukuyama sono molte le ragioni che portano a pensare che l’ineguaglianza continuerà ad aumentare. E ciò non solo in America. E un sincero sostenitore della democrazia liberale non può ignorare questo fatto.

A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che l’articolo conferma quanto Fukuyama si sia a suo tempo sbagliato. Ma con questa obiezione si avrebbe la definitiva conferma che quel famigerato libro del 1992 non è mai stato letto, certamente mai nella sua interezza. Infatti, già con La fine della storia Fukuyama metteva in guardia dalle sfide che sarebbero potute sorgere nel seno stesso delle società liberaldemocratiche, così come tra le popolazioni non ancora lambite dal benessere. L’impostazione hegeliana, filtrata attraverso Kojève e Strauss, del ragionamento sotteso a quel libro portava ad affermare (con una certa dose di coraggio e gusto dell’azzardo, va detto) che il liberalismo non avrebbe più trovato fuori di sé ideologie capaci di contrapporvisi ma ciò non avrebbe esaurito la dialettica interna ad essa né la sete di emancipazione e riscatto di “servi”, di oggi e domani, nei confronti dei “padroni”, di oggi e domani. La globalizzazione ha evocato nuovi avversari che nascono dal seno stesso del capitalismo, e forse questo non era del tutto chiaro al Fukuyama di venti anni fa, meno attento com’era al dato economico. Comunque, nemmeno adesso si tratta di una condanna del capitalismo, ma di critica di una sua variante che ha paternità politiche ben individuabili. In fondo, come vent’anni fa, Fukuyama ripete che non è questione di superamento dell’ideale della democrazia liberale, che ancor oggi non si vede, nemmeno nel caso cinese, ma di un riequilibrio al suo interno tra i principi di libertà ed eguaglianza, suoi cardini insostituibili.

Insomma, la casella dello sfidante della democrazia era già stata prevista da Fukuyama e perfettamente inserita tanto al suo interno come al suo esterno. Rimasta vuota per qualche anno si è ben presto riempita, prima con il risveglio islamico integralista, poi con la crisi finanziaria del 2008. Quest’ultima sembra persino più insidiosa perché apparentemente invisibile e soprattutto così domestica da sembrar familiare. Manca soprattutto la narrazione giusta per aizzare e legittimare una lotta. Manca un’ideologia, manca una politica, che non siano quelle della rassegnazione all’esistente. Il Fukuyama di oggi pare esser tutto all’infuori di un conservatore, a dimostrazione di come ogni autentico scienziato sociale non possa che evolvere il proprio punto di vista in funzione della realtà di volta in volta osservata.